Stanotte è una di quelle notti in cui non chiudo occhio e dico a me stessa: non sto pensando a San Diego, a Van. Che cos’è, allora, che mi tiene sveglia. Mi sento qualcosa di freddo e duro dentro la pancia, come se avessi ingoiato cemento, mi spiego? Il peso di un fallimento, di un appiattirsi della curva, di essere arrivati in cima e vedere che oltre non c’è niente se non la discesa. Una piccola fattoria. Una famiglia senza un soldo. Single e lesbica, oppure no, chi lo sa. Una laurea lasciata a metà.
In casa è quasi buio completo. Però ecco, questa è una cosa che mi piace del posto dove viviamo. Niente inquinamento luminoso a oscurare le strisce e le colate di stelle, solo il naturale balsamo nero della notte fonda. Esco in silenzio nel piccolo corridoio fuori dalla mia camera. Sento i granelli di sabbia del pavimento appiccicarmisi ai piedi. La lucina verdeazzurra del timer del forno.
La porta che dà sul lanai è spalancata, di solito la teniamo chiusa. L’odore greve di pakalolo alla buona e pieno di semi entra da lì e mi si diffonde nel naso. È mamma. Seduta su una sedia, con le gambe al petto. Il grosso corpo ripiegato su se stesso, i gomiti posati sulle ginocchia. Tiene pigramente una canna fra due dita. Dalle braci si alza un filo di fumo.
«Non riuscivi a dormire?» le chiedo.
Lei muove la testa. «Questa casa è minuscola, e comunque non ti sento mai arrivare» dice. «Sono appena tornata dal lavoro».
Faccio scorrere la portafinestra alle mie spalle, chiudendola. «E quando arrivi a casa non hai dove andare» dico.
«Ecco, parole sante».
Mi metto seduta come lei, piegata in due. Mi abbraccio le ginocchia. «Fammi fare un tiro».
Mamma mi guarda. Apre dolcemente la bocca e un velo di fumo le si alza piano piano dalle labbra. Le rotola sopra il naso e gli occhi arrossati. «No» dice. «Ancora non sono abbastanza fatta».
Ok, sto per levarle la canna di mano e ficcarmela tutta quanta in bocca, compresa la punta accesa, ma lei si mette a ridere. Me la passa. «Dovevi vedere la faccia che hai fatto» dice. «Pareva che stessi per puntarmi un coltello alla giugulare».
Inalo il pakalolo, me lo lascio scendere lungo il tubo della gola. Riscaldo le sacche dei polmoni e faccio espandere tutto. Rendo tutto più leggero. Più dolce.
«Sei sempre stata una gran tita» dice mamma, riprendendosi la canna. «Almeno una cosa l’ho fatta bene».
Poi fa un bel tiro, ok? La punta della canna passa dall’arancione al bianco all’arancione, la fiamma respira da sola. Le rane coqui continuano il loro fischiettio sdolcinato in mezzo al verde.
«Sai una cosa?» dico. «Mica lo sapevo che fumavi».
Lei ridacchia. «Ci sono un sacco di cose che non sai di me» dice. Si fa uscire dal naso due zanne di fumo.
«Non sei l’unica» dico.
«Davvero?» fa lei, fingendosi scioccata. Mi ripassa la canna. «Mia figlia ha dei segreti?».
«E come mai ’sta cosa?» le chiedo.
«Quale cosa, il fatto di avere dei segreti?».
Io indico col mento la canna che ho in mano. «Il fatto che fumi».
«Ho cominciato per i ragazzi». Ride. «Avevo quindici anni, ero a vedere una partita di football. Nel parcheggio con due mie amiche e i tipi con cui uscivano, e tutti i loro amici. Mi sa che ero l’unica a non aver mai provato». Si piazza le mani in cima alla testa, ok? Si appoggia all’indietro, mettendo in equilibrio la sedia sulle gambe posteriori. «Lì in mezzo c’era un ragazzetto surfista che passava una canna. Oh Signore, bastava vederlo da dietro per arraparsi. Non sai che chiappe».
«Mamma, Cristo santo» dico io. «Non voglio sapere quand’è che hai cominciato a fumare, comunque ok, perfetto, che bello immaginarti fare sesso da minorenne. Volevo dire, come mai ti sei messa a fumare stasera?». Ma in realtà non ho davvero bisogno di chiederglielo. Accanto ai piedi ha l’ukulele di Nainoa. Io faccio un altro bel tiro dalla canna e sento che le dita mi si scaldano. Gliela ripasso.
«Tuo fratello ci ha mandato dei soldi» dice.
«Dean?» chiedo. «Dei soldi? Ma se è...».
«Sei una ragazza sveglia, Kaui» dice. «Pensaci un attimo».
Mamma riappoggia a terra le gambe della sedia. Guarda fuori da un lato del lanai, un tuffo nel buio e dei fari di macchina che ogni tanto scorrono a mezz’aria in lontananza, sulla strada, con le gomme che lasciano lunghi sospiri sull’asfalto. Gli alberi vicino a noi si piegano e frusciano.
«Come genitori non siamo stati all’altezza» dice. «Per niente».
«Non è vero» dico io.
«Invece sì» ribadisce lei. «Pensavo che magari, se riuscivamo a mandarvi tutti al college... Se riuscivamo a mandarvi tutti sul continente». Fa un gesto vago con la mano sinistra nella direzione di tutto ciò che abbiamo alle spalle. Nell’altra mano, la canna. «E invece guarda».
«Magari non c’entrate niente voi» dico. «Ci pensi mai?».
Lei sbuffa. «No, neanche da strafatta. Di tutto quello che siete adesso, la responsabilità è nostra».
«Lo credi davvero?».
«Sì» dice. «Dean è riuscito a diventare solo un giocatore di basket. Non l’abbiamo spinto abbastanza a fare di più. Noa è morto perché» si schiarisce la voce, «non abbiamo capito di cosa aveva bisogno. Quando è tornato a casa... Forse non l’abbiamo capito mai».
La canna ormai sta finendo. Lei quasi non se ne accorge.
«E io?» le chiedo.
«Tu sei qui» dice lei, come se fosse ovvio. «A prenderti cura dei tuoi».
«Solo finché le cose non vanno meglio» dico.
«Secondo me» dice, «le cose già vanno meglio».
Scoppio a ridere. «In che senso, ora, così di botto?».
«Sono un sacco di soldi quelli che ci ha mandato Dean» dice. «Non abbastanza per comprarci una casa, certo. Ma per un po’ le bollette le riusciremo a pagare. Quando comincia il prossimo semestre? Potresti seguire un po’ di corsi di recupero quest’estate...».
«Io lì non ci torno» dico.
Lei ci riflette per un attimo. La canna ormai le starà cuocendo le unghie. «Forse me lo dovevo aspettare» dice. «È la stessa cosa che ha detto tuo fratello».
«Tanto figuriamoci se capisci» sbotto.
«Be’» fa lei, «allora spiegamelo tu».
«Magari non ho voglia di parlartene» dico.
«Non è che sia facile» dice mamma, «vederti qui a casa. Abbiamo fatto tutti i sacrifici possibili e immaginabili, per mandarvi a studiare sul continente».
Io non rispondo, ok? Resto zitta per un sacco di tempo. Non saprei da dove cominciare. Anche se i ricordi non mi paralizzassero la mascella, come invece stanno facendo. «Ho lasciato da sola un’amica» riesco a dire. «L’ho lasciata da sola in una brutta situazione».
Mamma annuisce. Dice ok. Dice che lo capisce. Intanto io sto seduta lì, a cercare di resistere agli spasmi dei singhiozzi che continuano ad arrivare e che provo a reprimere. Le racconto della festa. Di Van. Ma una volta che inizio, una volta che mi apro, non riesco più a chiudermi: le racconto del tunnel, di come ci ammucchiavamo a dormire nello studentato. Le serate perfette di alcol e droga, balli e urla. Tutte le nostre gite in montagna, la morsa friabile e gelida delle cime all’alba. La polvere calda ed eterna dei canyon dorata dalla luce del sole presa in trappola. La roba che ci spingeva a fare Van. Le sfide, la velocità, le scalate, i rischi. Ma nella mia testa quello che torna continuamente è il ricordo della festa, e allora le racconto anche di quella sera lì. Della festa, della stanza.
«L’ho voluta lasciare lì» dico. «L’ho voluta lasciare lì. Le ho voluto fare del male».
Intorno a noi la casa emette piccoli rumori, scricchiolii, schiocchi. Fuori è tutto blu e nero. Chiedo a mamma se l’amore l’ha mai fatta sentire sola. Se le è mai sembrato di morire di fame in una stanza piena di roba da mangiare.
Lei si mette a ridere. «Praticamente tutti i giorni». Si allunga verso di me, chiude la distanza che ci separa toccandomi un lato della testa con la sua. Ecco, sento l’osso del cranio, la frizione dei capelli contro i capelli. Ci poggiamo ancora di più una sull’altra, scaricando il peso. Io sto tipo piangendo come una matta, mi sa. Grondo di lacrime. Lei mi dice qualcosa sottovoce, ma io non sento le parole.
«Non ho mai pensato di essere il tipo di persona capace di fare una cosa del genere» dico. «E invece adesso è proprio quello che sono. E lo sarò per sempre».
Mamma annuisce. «È sempre così».
«Che intendi?» le chiedo.
«Ogni volta che nella vita ho fatto una scelta, una vera scelta...». Si stacca dalla mia testa. Mi tocca la spalla per un attimo. «Dopo che faccio una scelta, sento sempre le cose che cambiano. Le versioni migliori di me che svaniscono, e non le posso più recuperare».
È esattamente come mi sento io. Quindi non c’è altro da dire. Mi struscio l’avambraccio sul naso. Mi asciugo gli occhi coi palmi delle mani.
«Io perdo continuamente versioni migliori di me stessa» dice. «Non lo so. Bisogna solo continuare a provarci».
Poi è lei che piange. Per qualche minuto piangiamo tutte e due. «Dio, basta, sono stufa di piangere» dice alla fine. Si alza e allunga la testa verso la cucina. «Ti va una birra?».
«Me ne vanno quindici» dico ridendo. E mi strofino di nuovo la faccia. «Dividiamocene una». Va a prenderla. Sento il bacio dell’anta del frigo che si apre e si chiude. Mamma torna e mi posa una birra accanto alla caviglia, poi prende con delicatezza l’ukulele e se lo mette in grembo.
Mi chiede se ci penso mai alla morte. A cosa c’è dall’altra parte.
«Certo» rispondo. «Specie dopo Noa».
«E?».
La risposta non mi esce pronta quanto vorrei. «In genere ho la sensazione che dopo non ci sia niente» dico.
«Di quello non m’importa» dice mamma. «O insomma, non mi spaventa. L’idea che ci sia o meno qualcosa dall’altra parte. È l’arrivarci, capisci? L’attimo in cui te ne stai andando, che sei ancora vivo ma il mondo ti si sta chiudendo addosso. Quella parte la devi affrontare da sola».
Non ho niente da dire.
«Ci ho pensato a farlo, sai» dice. «Quando Augie stava proprio male male, subito dopo Noa».
«Mamma, cazzo» dico io.
«Eh sì» fa lei. «Rasoi, pasticche. Il fucile da caccia di Kimo. Una fune appesa al soffitto».
È come se stesse nominando dei vecchi amici, gente con cui ha passato un sacco di tempo. Una parte di me vorrebbe sapere fino a che punto è arrivata. Se quegli oggetti li ha tenuti in mano. «Sono contenta che non l’hai fatto» dico.
Lei ride. «Meno male, grazie». Cambia posizione sulla sedia e l’ukulele per poco non le cade, ok? Deve fare un mezzo salto per riacchiapparlo.
Io lo indico col mento. «Lo suoni mai?» le chiedo.
Lei esamina l’oggetto che ha in mano. Come se l’idea non le fosse neanche passata per la testa.
«So solo un paio di canzoni» dice. «È più bravo tuo padre».
«Ma lui dorme» le faccio io. «E comunque non penso che vogliamo veramente sentire quello che gli va di suonare di questi tempi».
Mamma sta pensando. Scommetto che prova la stessa sensazione che provo io. Che qualcosa fra noi si sta schiudendo. Quello che siamo l’una per l’altra. Malgrado tutto il tempo che sono stata via, comunque per me l’isola non può essere altro che casa, e io non posso essere altro che sua figlia.
Comincia a suonare l’ukulele.
Il pezzo alterna suoni secchi e più morbidi. Gli accordi sono un po’ sghembi. È lento e triste. O almeno dà questa sensazione: ma lei va avanti a suonare e la musica mi prende alla gola, alle dita e ai fianchi. Mi alzo in piedi e comincio: una danza hula. Non capisco cosa sta succedendo. Il mio corpo non mi sembra più mio, mi sembra di viaggiarci dentro come fossi chiusa in un guscio. Il pezzo che sta suonando mamma non è fatto per l’hula, è troppo lento e sincopato. Perdo il ritmo, vado in controtempo e poi torno sul tempo e mi perdo di nuovo. Ma c’è qualcosa che non mi fa smettere di muovermi. Ferma, vorrei dire a mamma, ma non mi escono le parole di bocca. Muovo le mani, le ondeggio, le contraggo. Dondolo i fianchi con le ginocchia piegate. Colpetti sulle corde. Le dita di mamma stanno accelerando, aggiungono seconde e terze note agli accordi, e dall’ukulele si alza qualcosa di denso e intricato.
Non capisco, vorrei dire di nuovo, ma ancora non riesco a parlare, mi spiego? C’è qualcosa che mi risucchia i suoni dalla gola.
Mamma passa da un pezzo a un altro. Comincia a battere un ritmo sul corpo dell’ukulele. Ci batte sopra le dita e ci tamburella con le nocche come fosse un ipu. Poi si rimette a improvvisare qualche accordo. Colpisce le corde così forte che ho paura che si spezzino. Poi mentre le note risuonano ancora nell’aria torna a battere sul corpo dell’ukulele, con le dita, col palmo, con le nocche.
È diventato un pezzo in stile kahiko. La forma di hula più antica.
In testa mi si formano immagini: acqua che si apre la strada dalla cima delle fessure scavate dalla pioggia nelle montagne alle foglie verdi del kalo in fondo alla valle. Fino alla terra assetata. Vedo pesci, distese di fiori e simbiosi. Le mie mani che affondano in quella stessa terra, alterandone leggermente l’equilibrio, e il verde che torna su con prepotenza.
La canzone chiede di nuovo: cosa ci facciamo qui. Prendi l’equilibrio che stiamo costruendo alla fattoria, dico. Lo dico con le mani e i fianchi, danzando. La canzone fa una domanda e io rispondo. Appiattisco i palmi delle mani e li premo verso il basso mentre dondolo il bacino e faccio dei passi lenti, poi mi giro. Non sto facendo movimenti faticosi ma mi gira la testa, ho il mal di mare. Sento qualcosa dentro. Mamma ci dà giù sempre più forte. Batte e bussa sul corpo dell’ukulele. Suona accordi e note su tutte le corde, ok? È la fattoria, rispondo, è la terra, quello che possiamo essere e quello che le isole possono diventare. Danzando faccio il gesto di cogliere qualcosa a mezz’aria come se cogliessi del kalo. Mi passo le mani lungo il corpo dall’alto in basso come pioggia che scende sulla terra e sui fiumi. Di nuovo le vecchie tradizioni, nutrirsi della terra, mangiare la terra. Quell’antico brusio. Ruoto sui talloni. Mamma continua a suonare, il pezzo si gonfia di un uragano di note e il ritmo si trasforma sotto i nostri occhi. Non l’ho mai vista suonare così, tanto veloce e precisa: non è più un pezzo triste. Mentre le faccio scorrere dall’alto in basso mi guardo le mani. Le mie mani. Di nuovo macchiate fin sotto le unghie, stavolta di terra invece che del gesso da arrampicata di cui erano sporche a San Diego. Ondeggio il bacino e allungo i piedi avanti e indietro al ritmo della musica. Mi metto in ginocchio e giro le braccia da una parte e dall’altra prima di lasciarle cadere. Faccio un inchino. Mamma suona le ultime note, più veloci di quelle con cui ha iniziato.
Poi c’è un’ondata di silenzio. Io risbatto il sedere sulla sedia. Che tipo la rompo, quasi cado per terra. Ricomincio pian piano ad avere il senso di dove mi trovo. Le ranocchie coqui gracidano.
«Mamma?» chiedo. «Ma che è successo?».
Lei ha gli occhi più grandi e più bianchi di prima. «Non lo so» dice. «Non ho mai suonato così in vita mia». Si posa di nuovo in grembo l’ukulele. Apre le mani e muove le dita. Come per assicurarsi che ci siano ancora.
Le chiedo se ha visto anche lei quello che ho visto io. Se l’ha sentito.
«Sì» risponde.
Penso a quanta hula ho avuto dentro in questi anni. Da quella prima sera dentro la mensa, fino al college e a Van, e adesso questo momento qui. Sono vivo vivo vivo, dice il mio cuore.
«Kaui» dice lentamente mamma, «ma che succede lì alla fattoria?».