Battiamo i nostri passi sulla strada, e la strada ribatte colpo su colpo. Il ritmo cadenzato delle scarpe da corsa sull’asfalto, io e papà al dodicesimo chilometro, e ad ogni passo la terra ci riverbera nelle ossa e nei muscoli. La canna da zucchero e gli eucalipti ci scorrono accanto e in lontananza, nei campi, di tanto in tanto si vedono mulini divorati dalla ruggine e capanni zincati mezzo inghiottiti dalle foglie. Una distesa di terra incolta, coperta da ciuffi di arbusti, digrada verso le scogliere. Ecco, e ancora più lontano c’è il mare blu su cui luccicano le creste bianche delle onde sollevate dagli alisei. Continuiamo a correre e continuiamo a soffrire, ok? Dolore che sale dall’alluce. Lungo i nodi dei polpacci e le fasce rigide delle cosce. I colpi della strada li sentiamo fin dentro la pancia. Tff tff tff, il rumore è questo. Adesso a ogni passo ci esce dalla gola una specie di respiro strozzato. Scommetto che non è il modo giusto di correre, così col fiatone. Ma non mi importa di fare le cose nel modo giusto. O di avere il fiatone. Voglio solo andare avanti.
Ok, ancora corriamo, io e papà, proprio come facevamo all’inizio quando sono tornata a casa. Quando pensavo che magari il semplice fatto di correre gli avrebbe fatto bene. Se uno corre abbastanza forte e abbastanza a lungo, tutto quello che ha dentro viene coperto dal torrente del corpo che smista sangue e ossigeno, e la testa gli si accende. Quando sono tornata a casa, all’inizio ero pronta a perdermi nel nulla insieme a papà. E certi giorni lo facevo. Certe notti.
Poi il dolore si è sbloccato, come papà e come la terra. Adesso passano giorni interi in cui papà è lo stesso di prima. Niente borbottii, mi spiego? Niente occhi fissi, vuoti come i capanni arrugginiti davanti a cui passiamo. Non si fa più la cacca addosso né si mette a gironzolare nel verde di notte. No. Adesso è tutto con noi: Tirami il dito, ha ordinato sabato a cena. E ieri mattina, dopo la nostra corsa, ha detto: Sto correndo così tanto che a tua madre le prenderà un colpo.
E a proposito: mamma. È dai tempi dell’hanabata che non la vedevo così. Per un po’ una parte di lei si era arresa. Aveva perso tutto e continuava a svegliarsi la mattina solo perché l’aveva sempre fatto. Oppure pensava che ci fosse qualcosa in me e Dean per cui valeva la pena stare al mondo. Non lo so. Però so che Noa sarà sempre il suo preferito: in realtà non era neanche Noa in sé, o almeno non lui come persona. Per mamma, Noa era un figlio ma erano anche le leggende che lo accompagnavano. E grazie alle quali tutto quello che ci faceva soffrire – gli anni di miseria, il trasferimento in città, i lavori di merda che doveva fare nostro padre – si riduceva a un unico scopo a cui puntare. E quello scopo era così grande che lei non doveva neanche capirlo per sapere di avere un ruolo importante. Un grande destino è qualcosa di cui ci si può ubriacare.
Tff tff tff. Io e papà ancora a battere i piedi sulla strada. Al nostro passaggio qualcosa si muove e scrocchia in mezzo agli alberi, dove i cespugli e i rami sono spinosi e bassi. Il sudore mi bagna le ciglia, mi fa il solletico sui muscoli della nuca, e la strada scavalca le colline, scende giù e fa una curva. L’ultima luce arancione. Continuiamo a correre.
Ecco, adesso quando corriamo è tutto diverso. Adesso non cerco di perdermi nel nulla. Cerco di espandere quello che ho costruito. Lo chiamo un nuovo ahupua’a: l’antico sistema che risorge. Come quando l’isola era tutta divisa fra i vari ali’i in strisce che andavano dalla montagna al mare, e tutto ciò che si produceva veniva destinato a qualcos’altro: i pesci del mare scambiati con patate dolci delle pianure coltivate con l’acqua delle montagne. Solo che io e Hoku abbiamo racchiuso tutto quanto in uno spazio più piccolo, applicandoci anche il fotovoltaico e il riuso delle acque. È tutto un sistema fatto di scambi che si autoalimenta, capito? Il kalo, i pesci e i fiori. Tanta roba su poca terra. Questa cosa cambierà le isole da così a così, giuro. Appena abbiamo cominciato a parlarne. Appena sono usciti gli articoli sul giornale e sulla rivista di bordo della compagnia aerea, la gente ha cominciato a venirci a trovare. Certe tita fricchettone con le unghie che parevano tegole spaccate e sotto le ascelle ciuffi di pelo grossi come vana, tatuaggi di carpe koi, e costruivano intere fattorie, proprio come noi. Ragazzi coi dread lunghi fino a mezza schiena, petti abbronzati che sono lastre di muscoli. Ma non venivano perché ci avevano visti sul giornale. Anche loro avevano ricevuto una chiamata, così dicevano. La stessa voce, quella che a me arrivava come una danza hula, che dentro papà scorreva come un fiume. Tutta la gente che veniva da noi la sentiva. Una voce che li spingeva a fare quello che avevano fatto. Insomma, siamo tutti Kānaka Maoli e con tutto ’sto chiasso che succede? Cominciano ad arrivare anche persone importanti: In fondo, ha detto con sufficienza una del consiglio della contea, con tutta questa terra qualcosa dobbiamo farci. E io che intervengo alle udienze legislative, nelle università, insieme ad altri agricoltori e pescatori e gente che parla dei metodi tradizionali.
«Ecco, vedi» ha detto Dean ieri sera al telefono. Come se mi fossi appena resa conto di qualcosa che lui aveva sempre saputo.
«Oh Cristo, Dean» ho fatto io. «Vedi che?».
«Noa aveva ragione, no?» ha detto lui. «Non era una cosa che riguardava solo lui. Anche dalla tomba, deve fare il saccente».
Non sono riuscita a trattenermi, ho riso.
E tu invece, gli ho chiesto a quel punto. Adesso la senti anche tu questa chiamata?
«Sai una cosa» ha detto. «Vuoi parlare di chiamate? Ascolta questa roba qua». E poi all’altro capo della linea si è sentito un colpo, un tonfo, un suono come subacqueo. Ho capito che stava spostando il telefono, e poi si stava muovendo lui. Poi un’ondata di rumori della città così assordanti che formavano quasi una bufera di rumore bianco: clacson, sirene, lo scricchiolare di pedane di legno e sportelli. Un boato di oggetti pesanti rovesciati dentro un cassonetto. Il lungo stridio dei freni e il rombo del motore di un autobus. Fischi, roba sbattuta. Voci. Poi tutti quei suoni sono scomparsi e c’è stato un altro tonfo, il telefono si muoveva di nuovo. Si è sentita una voce che usciva dalla tv, parlava di mercati e di aspettative di crescita nel prossimo trimestre, di previsioni sull’andamento dei prezzi, poi al telefono è tornato lui, ok? Il suo respiro. «Hai sentito, sì?».
«Ho sentito del rumore» dico. «Non è di questo che stavo parlando».
«Rumore» fa lui. «Guarda che quel rumore sono soldi» dice. «Sono io che trovo modi di farne».
E man mano che li faceva ce ne mandava sempre di più, accrediti che comparivano regolarmente sul conto di mamma e papà. Mamma non chiedeva mai come li guadagnava, quei soldi, e io nemmeno. Scommetto che la risposta era meno brutta di come ce l’immaginavamo. Ma non facevamo domande, per paura che fosse anche peggiore.
Al suo capo del telefono si è sentito lo scricchiolio di un oggetto in pelle, il rumore di qualcosa che si chiudeva. Per tutto il tempo che abbiamo parlato, sono sicura che non è stato mai fermo. Non sta mai fermo, Dean. Chissà se per lui è stata quella la parte peggiore della galera, il non avere libertà di movimento.
«Papà e mamma come stanno?» mi ha chiesto.
«Ogni giorno stiamo meglio» ho risposto. «Tutti quanti».
«Guardati» ha fatto lui. «Forse Noa non era l’unico supereroe».
«Ma lui non è mai stato un supereroe, Dean» gli ho detto. «È proprio questo il problema. Basta vedere salvatori da tutte le parti, ok? Questa è semplicemente la vita».
«Eh» ha fatto. E poi: «Sai, io ci penso ancora a Waipi’o». Mi è parso quasi di sentirgli scuotere la testa, dal telefono. «Sono rimasto laggiù per un sacco di tempo dopo che erano tutti tornati a casa. Via gli elicotteri, via i cani, solo io a scarpinare per trovare Noa. Su e giù per tutti quei sentieri. Mi pareva in continuazione di sentirlo lì a due passi. Poco più avanti di me. Proprio come quando eravamo ragazzini, lui era sempre un passo avanti a me. Fino all’ultimo: come fosse caduto perché era arrivato più lontano di dove camminano tutti gli altri.
«Una parte di me resterà lì nella valle per sempre. Continuerà a cercarlo. C’è una parte di me che non tornerà più su. Capisci?».
Mentre parlava, io giravo per la piccola casa che abbiamo adesso, sul terreno di zio Kimo. Sono uscita dalla porta laterale sul lanai. Mi è sembrato che le felci hapu’u e i banani e la casuarina avessero tipo creato una loro atmosfera. Ed era diversa da quella che c’era a San Diego. Ma in un attimo, di colpo, mi sono ritrovata di nuovo lì. Van e tutte quelle feste, quei giorni passati ad arrampicare. I viaggi in macchina e le falesie e i tunnel. E Van. E Van.
«Sì» ho detto. «Capisco esattamente cosa intendi».
Lui zitto.
«Non è che stai tornando a casa, vero?» ho detto.
«Casa» ha fatto lui. Come fosse una parola che aveva già sentito ma che ancora non capiva. «Quando stavo alle Hawaii» ha detto, «incontravo continuamente gente che mi diceva: “Mi ricordo quando ne hai fatti 35 contro Villanova, quel canestro pazzesco all’ultimo secondo”, oppure: “Quando giocavi per la Lincoln mi ricordo che venivo a tutte le partite”.
«Le Hawaii per me adesso sono solo questo, ok? Sono la versione di me che ero prima. C’è questo, poi c’è la valle, e dappertutto c’è Noa. Non ce la faccio, sorellina. Ecco, le Hawaii sono questo. E io non ce la posso fare».
Dagli un’altra chance, questo gli ho consigliato. «Non hai idea» ho detto, «di cosa può farti questa terra».
«Ormai non mi sorprende più niente» ha detto lui.
Oddio, Dean. Che testa di cazzo, ancora e sempre. Un tempo mi sarei imbestialita, ok? Ma ho capito che in quel momento gli serviva una dimostrazione di stima. Farlo sentire per un attimo il migliore di tutti.
«Ehi Dean» ho detto. «I soldi che ci hai mandato, quella prima volta. Sono arrivati proprio quando mamma ne aveva più bisogno. Ti giuro, le servivano davvero. Stava più di là che di qua. Lo sapevi?».
Lui ha preso aria dal naso. Un risucchio breve, secco. Poi quando ha parlato aveva la voce un po’ rotta. «Ah» ha detto. «Ok».
«E me lo ricordo quel giorno a Portland» ho proseguito. «Mi ricordo chi è che si è messo al volante. Alla fine.
«Ma quello che stai facendo adesso non serve che continui a farlo» ho detto. «Noi ce la caviamo».
«Ah sì?» ha fatto lui. «E tutte quelle coltivazioni che hai messo su adesso? Mica costerà poco, provare a trasformarle in una cosa grossa».
Ok, aveva ragione: anche volendo ipotizzare degli investimenti da parte della contea o dello stato, di fatto l’amministrazione pubblica non stanziava mai i soldi veri per quelli come noi. Questo gliel’ho detto. E già mi pareva di sentire i suoi soldi che correvano sul filo. Come una robusta corrente oceanica.
«Ecco» ha fatto. «Vedi? È questo che dico. Non andiamo comunque bene. Ancora non andiamo bene».
Ho capito che sarebbe sempre stata questa la differenza fra me e Dean. Dopo tutto quello che era successo alla nostra famiglia. Dopo tutto quello che avevamo visto e sentito da Noa. Gli echi che ne portavamo dentro... io volevo soltanto, una volta per tutte, capire. I soldi poi potevano arrivare o meno, mi spiego? Ma non c’era verso di chiuderla così, per Dean. No, doveva essere la sua mano, a raccogliere tutti i soldi che secondo lui servivano per cancellare le cose che ci erano successe prima. Per stare sicuri di essercele lasciate alle spalle. Ma per quello non sarebbero bastati tutti i soldi del mondo.
«Ne posso fare ancora un sacco, eh, i soldi ci possono uscire dall’okole» ha detto. «Che ne pensi?».
«Penso che mamma voglia rivedere l’ultimo figlio maschio vivo che le resta» ho risposto io.
«Fammici pensare» ha detto. «Intanto io continuo a mandarvi i soldi. Ma un sacco, vedrai. Adesso devo andare».
Avrei voluto dirgli di no un’altra volta. Che non volevamo altri soldi, volevamo lui. Che lo aspettavamo, appena era pronto. Ma aveva già riattaccato.