CAPITOLO 3

Sabato 17 gennaio, mattina

Ho aspettato un’ora decente, poi ho telefonato a Giuditta Cavalieri e le ho chiesto se potessi parlarle ancora. Mi ha risposto che era fuori, ma a casa c’era il figlio maggiore che stava molto con la nonna, quando abitava in famiglia, e forse avrebbe saputo dirmi più di lei. – Comunque arriverò verso le undici. Se vuole può precedermi.

Ringrazio. Scendo, saldo il conto e prendo l’auto.

Via verso Nizza Monferrato. La nevicata, modesta, ha spolverato le colline. È un mondo bianco e nero con improvvisi guizzi di colore.

È tutto scendere e salire, curve a destra e curve a sinistra. Qui c’è ancora traccia dei percorsi antichi degli uomini, di quando ci si adeguava alla terra invece di forzarla sempre. È strano pensare che mia madre abbia pedalato ore e ore su queste strade, scegliendo spesso quelle secondarie. Ha soltanto una foto di quando era ragazza, l’avevo trovata in un cassetto quando aveva avuto l’infarto e avevo dovuto cercare i risultati delle analisi di anni prima.

Magra, non troppo alta. Tutta ginocchia e gomiti puntuti. Calzettoni e scarpe basse. Capelli corti. Non so se riesco a capire del tutto quello ha provato leggendo la lettera di Noemi. La paura che il discendente della vittima fosse diventato carnefice.

A quelle due ragazze rimaste amiche per una vita devo la ricerca della verità. Devo capire perché tanto sangue è stato sparso e se quello di oggi sia conseguenza di quello di allora.

Ormai avanzo sicuro. Suono alle dieci e mezza. Mi apre un ragazzo o forse dovrei dire un uomo di una ventina d’anni. Assomiglia alla madre non nei lineamenti ma nei colori morbidi, autunnali. – È il commissario Mariani?

Annuisco. – Niente commissario, sono qui soltanto perché mia madre e tua nonna erano amiche. Posso darti del tu?

– Sì, certo. Daniele – e mi porge la mano.

– Antonio.

Ha una bella stretta.

– Tua madre ha detto che posso chiederti…

Mi interrompe. – Stavo quasi sempre io con nonna Noemi. Sto volentieri in casa e lei usciva poco. La guardavo cucinare e la ascoltavo. Ma venga.

L’ho seguito, non mi ha guidato nel salotto ma direttamente in cucina.

– Ho conosciuto la signora Emma. Molto lucida, come era la nonna. Anche quando si è trasferita in quel pensionato ad Alessandria ragionava benissimo. Non capisco perché sia andata… – Per la prima volta la sua voce ha ancora qualcosa di infantile. – Anche là era in forma, poi ha avuto l’ictus. A casa sarebbe stata bene. – È di nuovo un giovane uomo.

Quindi sembra che Noemi non sia andata a “Le Querce” per motivi di salute, ma forse il nipote non sapeva tutto. Se però fosse vero, confermerebbe la mia ipotesi che Noemi abbia lasciato la sua casa e abbia scelto di andare proprio in quella struttura per anziani per stare dove lavorava Samuele Pinto.

Per tenerlo d’occhio? Sapeva che Samuele aveva scoperto l’identità dell’uomo che aveva rivelato dove si era nascosta sua nonna? Questo ho dimenticato di chiederglielo ieri mentre percorrevamo le vie vicine a “Le Querce”. In realtà ho chiesto ben poco e ho ascoltato in modo superficiale. Non sono una persona socievole, un “amicone”, ma non ho mai avuto difficoltà a gettare un ponte fra me e le persone che devo ascoltare per lavoro. Guardo Daniele, non più ragazzo e non ancora uomo. Mi sforzo: – Era in buona salute quando è andata via da casa?

– Sì, era una di quelle persone fortissime. – Mi lancia un’occhiata. – Come la signora Emma. Quando arrivava, ridevano che sembravano ragazzine. Io andavo a trovarla in quel posto ad Alessandria e ogni volta le chiedevo di far venire la sua amica genovese, potevo andare a prenderla. Ho la patente – per un attimo la sua voce è gonfia d’orgoglio. – E rispondeva di no.

Perché mia madre aveva già avuto l’infarto o per un altro motivo?

– Rispondeva che Emma la conosceva troppo bene e avrebbe capito.

Sento aprirsi la porta e poi la voce di Giuditta: – Sono arrivata, Daniele. Il figlio di Emma è arrivato?

– È qui, mamma, siamo in cucina.

Arriva, affannata. – Che si debbano passare ore alla posta, perché di sabato è aperto solo un ufficio! Ho anche fatto un po’ di spesa. Daniele, fai il caffè – mentre parla posa le borse, mi porge la mano, suddivide quello che ha comparato e mette i surgelati in freezer. – Mi scusi, ma questa è la mia mattinata libera. Spero che Daniele le abbia chiarito qualche dubbio.

– Sì, è stato molto gentile.

Lancia un’occhiata al figlio che le sta voltando le spalle. – Era legato alla nonna che parlava del suo passato più con lui che con me.

Penso che mia madre faccia altrettanto. – Daniele mi ha detto che Noemi stava bene…

Non mi lascia finire. – Sì. Nonostante l’età e la caduta di tre anni fa che l’aveva costretta all’immobilità per un mese. Per quello ho faticato, tutti abbiamo faticato ad accettare la sua decisione di andare in quel pensionato e lontano da noi. Così bene e in forma che quando mi hanno telefonato per dirmi che aveva avuto un ictus non ci credevo. Era venerdì 21 novembre. Sembrava che si fosse ripresa. Il 27 mi hanno telefonato dicendo che si era aggravata all’improvviso. Quando sono arrivata, era già… – Si lascia scivolare sulla sedia. Posa le braccia sul tavolo fra di noi. – Fatico ancora a crederci. Ero andata da lei due giorni prima dell’ictus, rideva e scherzava. Sono un medico, ho voluto vedere la cartella clinica, sapere cosa avesse fatto… Anche una litigata con altri pazienti poteva essere stata la causa. Tutto in ordine. Sì, sapevo che a volte non sono prevedibili.

Parla di una litigata e penso a un’emozione forte. Ha avuto l’ictus il giorno seguente alla scoperta che Diletta e il figlio erano stati uccisi, il giorno stesso in cui era comparsa la notizia sui giornali.

– Sua madre leggeva i quotidiani?

– Compriamo “La Stampa” da sempre e la leggeva da cima a fondo. Poi la vista ha cominciato a declinare, ma guarda, guardava, regolarmente i telegiornali.

Daniele posa sulla tavola due tazzine e la zuccheriera. – Abbiamo del latte. – Faccio segno di no. – Nonna aveva continuato a guardare i suoi telegiornali preferiti, RAI 2 e RAI 3, soprattutto LA7. Scherzando le dicevo che aveva una cotta per Mentana. Anche nel pensionato li seguiva. Si era portata la sua tv, piccola, una di quelle che chiamano da cucina. Telegiornali e documentari o musica classica su RAI 5. Perché non le piacevano gli spettacoli delle due sale comuni, diceva che facevano vedere solo sciocchezze per rimbambire.

Sono quasi le stesse scelte di mia madre, che sostituisce la musica classica leggendo e rileggendo.

Dalle date è possibile che abbia avuto l’ictus appena ha saputo del duplice omicidio. Immagino il suo timore che fosse stato Samuele a uccidere.

Giuditta riprende il discorso dove il figlio l’ha interrotto: – Per fortuna le si era guastata e da qualche giorno la guardava in una delle due sale comuni. Se si fosse sentita male mentre era sola, non sarebbe sopravvissuta neppure quegli ultimi giorni.

– Quando è successo non aveva guardato la televisione?

– Non so, non immaginavo che fosse importante saperlo. – La sua occhiata è una di quelle che vogliono la verità. – Pensa che si sia sentita male dopo… No, perché aveva visto o sentito qualcosa. Forse il personale del pensionato o gli altri ospiti possono dirle cosa stava guardando.

– Non sono qui in veste ufficiale, soltanto come figlio di un’amica di sua madre. Emma mi ha chiesto di venire, ma non ho l’autorità per porre domande ai dipendenti o agli ospiti.

Rigira fra le dita la tazzina ormai vuota. – Capisco. – Si gira verso il figlio. – Preferirei che tu uscissi, Daniele.

– Ma…

– Esci, per favore.

– No, ho diritto di sapere.

Giuditta si alza. – Mi dispiace, Antonio. – Temo che decida di tacere. – Non è una gran giornata, ma le dispiace se usciamo a fare quattro passi? Sotto i portici non si sta male. O ha fretta?

– Nessuna fretta, Giuditta.

Ho ripreso il giaccone, anche lei si è ben coperta. Stiamo camminando sotto i portici, superiamo la libreria “A pie’ di pagina” in cui ero entrato quando avevo accompagnato mia madre dalla sua amica. Nella vetrina, in una zona, sono esposti romanzi e saggi sull’Olocausto.

Giuditta si ferma e fa un cenno di saluto verso il libraio che occhieggia dall’interno. – Mia madre comprava qui, ci passava ore. Diceva per scegliere. – Una pausa. – Ora che siamo soli può dirmi qualcosa di più e io le dirò quello che ho scoperto nel corso degli anni.

Prendo il pacchetto. – Vuole?

– Non fumo. Ma fumi pure.

Accendo. È strano non doversi chiedere da che parte tira il vento. Lo so, è un modo per prendere tempo. – Alla metà di novembre ho subito un grave incidente in servizio, quando sua madre è morta ero ancora in ospedale, dopo giorni in rianimazione. Non avevo saputo dell’ictus. Non ho ripreso il lavoro, sto un po’ meglio dall’inizio dell’anno. Soltanto l’altro ieri mia madre mi ha mostrato la lettera.

– So che mamma l’aveva scritta da tempo, ma non mi aveva mai concesso di leggerla. Diceva che era meglio che non sapessi. – Abbassa il viso. – Forse temeva che ne parlassi a Daniele o a Lia, la mia più grande.

– Ma lei l’ha letta.

La mia non è una domanda, ma ugualmente mi fa segno di sì. – La teneva nel suo cassetto, quello chiuso a chiave. Un giorno, rimettendo ordine, avevo trovato la chiave nella serratura. Non era stata distrazione, ma un modo obliquo per consentirmi di leggerla. E l’avevo letta. Non era un giorno qualsiasi, era lo stesso in cui doveva venire Emma. – Mi guarda. – Sua madre, Antonio.

Quindi Giuditta sa che, in quella lettera, Noemi accusava Diego Baldi di essere il milite della Littorio che, individuato il nascondiglio di Sarah Pinto e dei suoi due bambini, li aveva denunciati. E che lo stesso Baldi era stato premiato con l’appartamento che i Pinto avevano a Torino.

L’ho vista guardare l’ora. Immagino che abbia fretta e le chiedo se deve tornare.

Annuisce. – Ha mai parlato con sua madre del contenuto della lettera?

– Ho provato. – Una pausa. – È mai riuscito a far dire a Emma quello che vuole tenere per sé?

– No, anche se interrogare è parte del mio mestiere. Ha un’idea di come l’aveva scoperto?

– È quello che volevo chiederle, se mi avesse lasciato parlare. E no, non ne ho nessuna idea, Antonio. Proprio nessuna. Ma da subito mi sono chiesta se avesse saputo di Baldi da tanto, se non da sempre, o se fosse scoperta recente.

Io propendo per la seconda ipotesi, ma per conferma le chiedo da quando Noemi avesse cominciato a scrivere quella lettera.

– Circa sei mesi prima di consegnarla a Emma. – Una pausa. – Erano appena conclusi i giorni del Kippur. – Mi guarda. – Sa quando cade?

La guerra del Kippur… – Settembre? So che è mobile.

Annuisce. – Mi ero anche chiesta se avesse trovato la traccia proprio in occasione della festa.

– Festa?

– Sono i giorni del perdono, quindi sono giorni di festa. Qui non abbiamo la Sinagoga e andiamo a quella di Alessandria, la più vicina. Incontriamo anche amici e parenti. Siamo sempre meno.

– Forse mi sarebbe utile un elenco delle persone che avete incontrato.

Fa un passo indietro, ma più dell’atto fisico mi colpisce la sensazione di improvvisa chiusura, come se fra noi si fosse sollevata d’improvviso una barriera. – Non ci piacciono gli elenchi. Penso che sia ovvia la ragione. – Una pausa. – Se sarà indispensabile.

Faccio segno di sì. – Se sarà indispensabile. Ci sarebbe un’altra cosa…

Da come mi guarda capisco che è ancora sulla difensiva.

– Lei ha visto la cartella clinica di sua madre. Mi ha detto che ha avuto l’ictus mentre era in una delle due sale comuni.

Annuisce.

– Ricorda l’ora, con discreta precisione?

– Poco prima delle tre, delle quindici. In quella saletta oltre a lei c’era soltanto un ospite, gli altri o erano nelle loro camere o guardavano gli spettacoli di canale cinque. Quando si è accasciata, l’altro ha gridato ed è arrivato il personale. Sono stati tempestivi. – Un’occhiata. – Pensa che sia stato qualcosa che ha visto o sentito a provocare l’ictus? – Una pausa. – Sì, è quello che immagina.

Siamo già al portone. Mi porge la mano. – Grazie di essere venuto.

Mia madre voleva molto bene a Emma.

– Ricambiata.

– Diceva che arrivava e portava la vita.

Ho ancora la sua mano nella mia. – Se sarà necessario, visionerò i telegiornali della mattina. Penso che abbia sentito dell’omicidio della Baldi. E del bambino.

Ed è lei ad aggiungere: – E abbia temuto che responsabile del duplice omicidio fosse Samuele.

Pomeriggio

Soltanto quando sono sulla A26, l’autostrada dei trafori, mi rendo conto del percorso che ho scelto. All’andata avevo preso la A7.

Con la A26 mi troverò a Voltri. Sì, questa tratta è saldata alla A10, non dovrò uscire e rientrare, ma da quando la piena del Cerusa mi ha travolto non sono più passato da queste parti. In realtà da allora non mi sono mai mosso da Genova, non ho mai guidato così tanto e le mie ossa gemono per la fatica. Sono stato a casa il più possibile.

Sono trascorsi due mesi abbondanti, dovrei essermi ripreso. È segno dell’età che ogni volta impieghi più tempo? Non devo pensare a dove mi porterà questa strada, in tutti i sensi, e concentrarmi su cosa dire a mia madre.

Ho superato Voltri e ora mi dirigo verso Genova. Potrei uscire a Nervi, l’uscita migliore per arrivare a casa evitando l’attraversamento della città. Ma ho fretta?

Sono alla fine del viadotto sul Polcevera, la linea fra le due corsie è già continua, a destra per chi vuole prendere la A7, a sinistra per chi esce a Sampierdarena. Sono già in quella di destra perché dovrei andare a nord fino a Bolzaneto, quando metto la freccia e cambio corsia suscitando proteste.

Dopo quel mare di colline ho voglia di mare vero, anche se tira scirocco. È un desiderio improvviso. Incomprensibile. Da Voltri a Sampierdarena l’ho costeggiato senza degnarlo di un’occhiata. E ora ne ho bisogno, come aver bisogno di una donna. Non una qualsiasi, quella.

Lentamente percorro la sopraelevata, arrivato alla Foce vedo a sinistra il blocco della Questura. Vinco la tentazione e continuo ad andare verso Levante.

Corso Italia è spazzata dal vento gonfio di scirocco. Accosto all’altezza dell’Abbazia di San Giuliano. Poca gente, distratta. Cammino sperando di ritornare padrone del mio corpo. Passo dopo passo sono arrivato al Garden, il bar addossato al Lido: entro, prendo un caffè e appena fuori accendo una sigaretta.

Ho camminato tenendo gli occhi al mio mare, ora mi rigiro volgendogli le spalle. Guardo il cielo di grigie nuvole dense che tagliano le colline nascondendo i forti. Guardo la città come fosse una donna che devo ritrovare.

Risalgo in auto: via Piave, via Rosselli, via Zara, la strettoia di via Albaro. Di nuovo a sinistra in via Trento. Trovo un posto. Scendo. Qui ho abitato quando Fran e io abbiamo vissuto separati. È qui che voglio tornare? No, ne sono certo.

Dal bianco al nero, tutti i grigi possibili. E il rosso del sangue sparso.

C’è un’umidità appiccicosa che sa di renfrescumme. Ogni luogo ha i propri odori. Avevo scelto di abitare qui perché comodo per la Questura o perché dalle finestre vedevo i forti e la valle del Bisagno? Non avevo Fran e mi ero aggrappato al lavoro e alla mia città.

Se non ricomincio a vivere, è senza senso che non mi sia lasciato trascinare dalla corrente.

Sono tornato all’auto, arrivo a casa che è già penombra. Le avvolgibili di mia madre sono abbassate. Salgo da me. Nessuno. Mia moglie ha chiamato per sapere dove fossi e lei dove è? È diventata sfuggente.

Controllo sul pannello di cucina: non ci sono messaggi.

Mi spoglio, mi infilo sotto la doccia. Poi indosso il giaccone sugli indumenti puliti e raggiungo il terrazzino con l’intenzione di pensare, mi porto anche carta e penna, perché vorrei mettere nero su bianco gli interrogativi.

Comincio a scrivere, per abitudine mi giro verso la posizione che occupa abitualmente mia moglie. Ma sono solo. Poso la penna e chiudo gli occhi.

Arrivano prima le loro voci. Contemporaneamente si accendono le luci da mia madre. Sento abbaiare Bella. Si sono fermate giù, ancora una volta penso che dovrebbero trasferirsi là in pianta stabile. Rientro, non vorrei che pensassero a una spiata.

Più tardi si apre la porta di casa. Mia moglie. – Ho visto l’auto, ho capito che eri tornato.

– Sì.

– Abbiamo comprato la farinata e le figlie si fermano da Emma. C’è il minestrone, lo scaldo.

– Non ho fame e sono stanco. Preferisco coricarmi.

– Stai bene? – ma è voce da infermiera.

– Sì, non preoccuparti.

Forse ero davvero stanco perché devo essermi addormentato, me ne accorgo risvegliandomi e controllando l’orologio. Sono le due di notte. E sono solo. Mi alzo.

La porta della camera delle figlie è socchiusa. Mia moglie è nel letto di Manu. Ormai la conosco abbastanza da capire che sta fingendo di dormire. Entro e mi siedo sul letto di Ludo. – Cosa c’è?

– Niente – ma ha una strana voce strozzata.

– Perché non sei venuta di là?

– Perché preferisco restare sola.

– Perché? – Abbiamo sempre voluto stare insieme, ci piace stare insieme.

La sua risposta è nel gesto con cui si rigira voltandomi le spalle.

– Uscendo chiudi la porta, per favore.

Ritorno in camera. Dovrò ripensare a quel “ci piace stare insieme”? Mi guardo allo specchio e mi chiedo perché non sono morto. È stata la sua voce a darmi la forza di lottare e a uscire dall’auto travolta dal Cerusa esondato.

Se non ricomincio a lavorare, divento matto.