Venerdì 30 gennaio, mattina
Uscita di Bolzaneto, poi un breve tratto lungo il Polcevera. All’altezza di Ponte Ciai, c’è il bivio. Un SUV bianco ma molto infangato è fermo in modo da non essere di ostacolo.
L’altezza e la corporatura sono quelle delle foto sulla documentazione, ma il viso è scarno. Mi avvicino. – Signor Natoli? Sono il commissario Mariani.
Non degna di un’occhiata il tesserino che gli ho mostrato. – La precedo. – Senza dire altro, entra in auto e avvia, ma per muoversi aspetta che anch’io sia pronto. Ogni gesto dichiara che è sfinito.
Una curva, una seconda. Siamo sulla riva di Levante del Polcevera, è mattina e sono i giorni della merla. C’è freddo. Alberi spogli e tracce della pioggia dei giorni scorsi. Ma salendo tanta apertura di cielo che, pur invernale, ha il suo fascino. Un cartello segnala che più avanti c’è una trattoria, perché questi sono posti da pranzi fra parenti e da cene fra amici. Poco dopo, Natoli rallenta e mette la freccia a sinistra.
Lo seguo nella deviazione. Strada stretta. Se due auto si incontrassero, una dovrebbe fare retromarcia fino al primo slargo. Eppure, Natoli procede sicuro come se sapesse che nessuno può arrivare nel senso opposto al nostro.
La strada finisce davanti a una costruzione a due piani, chiamarla villetta è fuori luogo. È una delle tante case semplici e di poche pretese sparse nel nostro immediato entroterra. Classico rosso genovese, gelosie verdi e finestre bordate di giallo. A dirsi sembrerebbe pacchiano, ma si intona bene con la nostra luce sempre un po’ sbieca, radente.
Davanti alla casa uno spazio aperto, a sinistra una zona a prato, con due panche e un tavolo di legno. Un’altalena.
È sceso dall’auto. Lo imito. Ha gli occhi arrossati e un leggero tremito alle mani.
D’impulso mi scuso per averlo fatto venire qui…
– No. Sto male ovunque. Mi dicono di farmi forza. – Volta il viso. – Ha bisogno di vedere dentro?
– Sì. Mi sono state consegnate le foto, ma dovrei vedere. Se non si sente di entrare, posso farlo da solo. E parliamo quando esco.
– No! – e subito mitiga con tono meno brusco. – Sono entrato quel giorno e ne non sono ancora uscito. Sono qui, ogni istante da quel giorno. Perché non mi sono preoccupato non sentendola? Ma cosa sarebbe cambiato? Mi hanno detto che è successo quella mattina stessa, poco dopo che sono andato via.
Apre la porta, accende la luce. Si appoggia con le spalle alla parete. Barcolla leggermente mentre chiude gli occhi. D’istinto faccio il gesto di sorreggerlo. Riapre gli occhi e mi guarda come se non mi riconoscesse. Poi abbozza un sorriso stento.
– Mentre era a Piacenza non ha chiamato a casa? – perché nella documentazione non ho trovato cenni al riguardo.
– No. Sapevo che se avesse avuto bisogno di parlarmi avrebbe telefonato… – Esita. – Avevamo fatto parole, non una lite ma un po’ di attrito. Musi.
Si è passato una mano sugli occhi. Se fossi un buon questurino, approfitterei del momento di debolezza e insisterei a chiedere, invece evito di guardarlo e faccio qualche passo avanti.
Oltre una porta lasciata aperta c’è la stanza in cui Natoli aveva trovato i corpi. Sarebbe un normale soggiorno se non ci fossero ancora i segni lasciati dalla Scientifica. E tracce di sangue che nessuno ha ripulito. Avanzo. Dietro di me i passi di Natoli.
– Non riesco più a vivere qui. Ho affittato una camera in una pensione. Dovrei far rimettere in ordine, non ne ho la forza. In ordine non sarà mai più.
Continuo ad andare, ora sono al centro della stanza. Il divano a penisola, ancora incrostato di sangue, ha lo schienale alto: secondo i colleghi della Scientifica era stato usato per tenere il corpo della donna nella posizione migliore per far defluire il sangue. Per il bambino era stato più semplice.
– Posso? – La domanda è superflua, il mio lavoro è ficcare il naso nelle vite altrui, quindi anche nelle loro case, ma qui e ora il suo dolore è un muro contro cui continuo a sbattere.
Ottengo soltanto un assenso. Resto fermo perché il suo pallore mi fa temere che si stia sentendo male. In silenzio lo tengo d’occhio poi, vedendo che si è ripreso, entro nel vano accanto: un’ampia cucina. Sarebbe pulita se non ci fosse uno strato di polvere. Ricordo quello che ho letto nella documentazione. Non sono state trovate impronte di persone diverse dai tre abitanti abituali, però sul lavello tracce di sangue delle due vittime, l’ipotesi è che l’assassino si sia lavato le mani dopo il macello. Ma il suo DNA? Niente.
A terra? Impronte compatibili con scarpe di tipo comune anche in possesso di Ernesto Natoli. Ma sono state controllate, e non ho motivo di dubitare dell’accuratezza dei colleghi; soltanto in un paio c’erano tracce di sangue, quelle che indossava quando tornando a casa ha trovato moglie e figlio uccisi. Potevano essersi sporcate quando era entrato e si era avvicinato… Ha anche dichiarato di aver toccato i corpi, di averli abbracciati entrambi.
Nascondendo tracce? In modo involontario o volontario?
Solo in un altro ambiente c’erano state manomissioni, a quanto aveva dichiarato Natoli: nella camera. Entrando con i carabinieri aveva trovato aperti e in disordine i cassetti del cassettone. Ma ancora nessuna impronta. E sembrava che niente fosse sparito.
Cosa aveva cercato chi aveva ravattato fra gli oggetti personali di Diletta? O era stato Natoli stesso per confondere le acque? Vedo biancheria semplice: magliette, slip e reggiseni. Una scatola di latta. La apro. Un braccialetto d’argento, alcune foto, direi di quando lei era bambina. Un tesserino con la custodia trasparente e la molletta per fissarla al taschino. Sul tesserino una sua foto, nome e cognome, la qualifica di infermiera. Un ambulatorio di Alessandria.
Tutto è già stato registrato e analizzato, lo so, ma la prendo con cautela e la inserisco in una delle buste di plastica che porto sempre con me.
Un rapido giro. Una seconda camera, forse per quando il bambino sarebbe stato più grande, perché in quella matrimoniale ho visto un lettino con le sponde.
Un bagno. L’ultima stanza è adibita a studio. Sugli scaffali molti testi tecnici, qualche romanzo, libri di medicina. Due poltrone, quindi usavano quella stanza anche insieme. A terra un plaid con giochi di bimbo.
Ritorno al piano terra.
Natoli è dove l’ho lasciato. Mi avvicino. – Come si sente? – Anche se so che è domanda senza senso, ma le regole vanno rispettate.
Mi guarda, smarrito.
– Si sente? Avrei alcune domande. – Ho la sensazione che le mie parole gli rimbalzino contro. – Anche fuori, se preferisce. – L’ho aggiunto perché provo oppressione anche se questa non è la mia casa e le vittime non sono la mia famiglia.
– Va bene. – Ma invece di andare verso la porta, tende una mano verso di me, come se fosse cieco. – Le chiederei un piacere.
– Mi dica.
– Vorrei rifare un giro, anche su. Da solo…
Annuisco. – Certo, può andare perché tutti i rilevamenti sono già stati fatti. Io la aspetto qui, non ho fretta. Faccia con calma.
Fa segno di no. – Le chiedevo se può salire con me. Da solo non mi sento. So che la vita deve continuare.
– Nessun problema, signor Natoli. Come le ho detto, non ho fretta. Ho bisogno di capire.
– Grazie. – Comincia a salire le scale, parla senza guardarmi. – Lei è un uomo strano. Spero che riesca a scoprire chi li ha uccisi e perché. – Continua dopo una pausa. – L’unico possibile colpevole, secondo i suoi colleghi, sono io. In certi momenti ero così confuso che avrei voluto esserlo.
Siamo al primo piano. Indica la camera matrimoniale. – Sono entrato insieme a un agente per prendermi qualche indumento, in bagno per portare via il necessario per radermi e lavarmi. Là – alza la mano verso la singola. – Là non riesco a entrare. Pensavamo di tinteggiarla. A Corrado piaceva l’azzurro.
– Sapeva che sua moglie era incinta di due mesi?
– Da… Durante le indagini.
– Sua moglie non le aveva mai detto nulla?
Fa segno di no. – E non mi ero accorto di nulla perché ero spesso via. Forse se non avessimo fatto parole me lo avrebbe detto. – Mi posa una mano sul braccio. – Usciamo. Fuori potrà chiedermi quello che vuole. Qui mi manca l’aria.
Appena siamo fuori lo guardo ben bene. Il suo pallore non mi piace. – Salga in auto con me, poi la riporto qui, non tema, signor Natoli.
– Io…
– Non è in condizione di guidare. – Entro in auto e dall’interno gli apro la portiera. – Forza. Ho bisogno di un caffè. – Ed è vero, perché sento in bocca l’odore e il sapore del sangue sparso. Devo liberarmene.
Scendiamo fino al bivio, ma invece di svoltare a destra verso Bolzaneto saliamo verso il centro di Cremeno. Giorno feriale, quindi trovo posto abbastanza facilmente nella piazzetta della chiesa, una specie di balcone sulla vallata.
Bar non ne vedo, ma c’è un ristorante. Busso, tenendomi vicino Natoli. Mi apre un cameriere. – Siamo chiusi.
Ha lanciato un’occhiata all’uomo che ho accanto, forse la sua faccia non gli è sconosciuta ma sembra che non riesca a piazzarla. Prima che ci chiuda la porta in faccia mostro il tesserino. – Commissario Mariani, Questura di Genova. E ho bisogno di un piacere.
Si scosta per farmi entrare, mentre arriva un altro e dall’atteggiamento lo direi il proprietario. Infatti, è così che si presenta e subito aggiunge: – Cosa possiamo fare?
– So che siete chiusi, ma gradirei del caffè, se la macchina è già in pressione. Se ci fosse, anche qualcosa da mettere sotto i denti.
Poco dopo siamo in un locale con ampia vista sulla vallata. Natoli è più pallido della tovaglia candida. – Da quando non mangia?
– Ieri. Forse l’altro ieri. I giorni sono tutti uguali.
L’ho costretto a prendere cappuccino e focaccia, ho ringraziato e pagato. Il sagrato della chiesa, decorato da un rustico rissêu di ciottoli bianchi e neri, è chiuso da una semplice balconata. Ed è a quella che mi dirigo.
Mi appoggio con le reni e faccio segno a Natoli di mettersi accanto a me. Prendo il pacchetto e glielo porgo.
Fa segno di no e aggiunge che ha fumato troppo negli ultimi tempi e ormai non aiuta neppure più.
La sua faccia ha ripreso un po’ di colore.
– Si sente di parlare un po’?
Annuisce. – Mi sento un po’ meglio. Ma per un interrogatorio non devo venire in Questura?
– Ho detto “parlare” e questo posto è più confortevole del mio ufficio. Affrontiamo subito il problema sgradevole così ce ne liberiamo, altrimenti l’avremmo come una spada di Damocle. Avete dei nemici? C’è qualcuno che può aver fatto questo? – e con un gesto vago indico in direzione della sua villetta che non è visibile ma ho un discreto senso dell’orientamento. – Non sarebbe la prima volta, sa.
Tace e continuo: – Uomini che sospettano, a torto o a ragione, una sua relazione con la loro moglie o compagna. Colleghi invidiosi… Non sarebbe la prima volta. Gelosia e invidia sono moventi antichi, ma ancora potenti. – Parlo e continua a fare segno di no. – Debiti non saldati.
– Non un’altra donna, neppure per scherzo. Tutto il tempo libero lo trascorro… lo trascorrevo con Diletta e Corrado. Colleghi invidiosi? Sono un semplice supervisore, prendiamo appalti e dirigo i lavori. Debiti? Mi basta il mutuo per la villetta. Lei. Lei voleva che il bambino vivesse dove c’era il verde. Vivere in città non le piaceva.
– Come mai qui? Parenti? Amici?
– Un annuncio. Sono sempre stato di gusti poco costosi, avevo qualcosa da parte, una banca mi aveva concesso il mutuo. La posizione era comoda, in pochi minuti arrivavo all’uscita di Bolzaneto e da lì mi si aprivano tutte le direzioni possibili. Meglio che se avessimo trovato casa in centro città. Qui costava anche meno, c’era verde e c’era spazio. Un buon posto per crescere un bambino.
Prendo un po’ di tempo, poi gli chiedo i motivi dei contrasti di cui hanno parlato a chi aveva indagato prima di me.
– Era cominciato quando avevamo preso il lavoro a Piacenza.
– Era la prima volta che si allontanava da Genova?
– No! La primavera scorsa ero stato via ancora di più. Per tre mesi a Mantova, venivo a casa il venerdì sera e ripartivo il lunedì all’alba.
– Una pausa. – Da qualche settimana era nervosa, quando le chiedevo il motivo, si chiudeva. – Noto che mi guarda la sinistra. – Non è sposato?
– Lo sono da tanti anni, ma né io né mia moglie portiamo la fede. Non ci serve. – E spero che sia ancora vero. Devo allontanare la mia vita privata: – Forse aveva scoperto di essere incinta e ne era preoccupata.
– Un secondo figlio l’avremmo voluto. Entrambi figli unici, non volevamo per i nostri figli lo stesso effetto solitudine. – Annuisco. L’avevamo pensato anche noi. Sì, Ludo era stata concepita fra una crisi e l’altra, ma fortemente voluta. – Era altro a turbarla. Sa cosa mi fa star male? Che non sia riuscita a dirmelo. Nel nostro rapporto non c’erano zone d’ombra.
Questa è una sciocchezza, ognuno di noi tace qualcosa anche a sé stesso. Ho mai detto a Fran della paura di dipendere troppo dal nostro rapporto? E perché mi sta lontana se non per nascondere qualcosa? Ma devo ascoltarlo, ho un’indagine. A neppure un chilometro da qui una donna e un bambino sono stati sgozzati, l’uomo accanto a me è stato marito e padre. E, secondo i miei colleghi, è il colpevole più probabile.
– Anche della sua famiglia mi aveva raccontato. E con molta pena. L’aveva fatto quando ci eravamo conosciuti da poco, ma avevo già capito che per lei era una cosa seria e sarebbe potuto essere un ostacolo a una nostra vita insieme.
Un lungo silenzio ma non gli faccio fretta, capisco che sta cercando il modo giusto per dirmi qualcosa che ritiene difficile. – Me ne aveva parlato poco più di quattro anni fa, per la precisione quattro anni e due giorni, quando lei abitava ancora ad Alessandria e io qui. Non qui a Cremeno… – Con un gesto indica il fondovalle. – Sampierdarena, vicino all’uscita dell’autostrada. Comodo per la mia vita. Il 28 gennaio ci eravamo sentiti per telefono. Da un mese era diventato normale chiamarci ogni sera per raccontarci la giornata. Le avevo detto che ero stato alla manifestazione per il Giorno della Memoria, anche se non ero ebreo. Non aveva commentato. Ma la mattina dopo, prima delle sette, ero stato svegliato dal campanello.
Capisco che non è più qui con me. È là, con lei, quattro anni e due giorni fa.
– Avevo guardato dallo spioncino. Era lei. Avevo aperto di slancio e avevo cercato di abbracciarla. Si era ritratta e mi ero spaventato. Le avevo chiesto cosa c’era e aveva risposto che doveva dirmi una cosa. Avevo pensato che fosse accaduto qualcosa di terribile, che avesse incontrato un altro. Le avevo detto di entrare. Ma aveva fatto soltanto un passo e aveva aggiunto che sarebbe entrata per non parlare sul ballatoio. E mi aveva guardato e aveva cominciato…
Ormai immagino cosa stia per raccontare, ma capisco il suo bisogno di aprirsi e taccio.
– Cosa mi aveva detto? Quando era morto suo padre, aveva dovuto riordinarne i documenti e aveva scoperto perché da anni non aveva più rapporti con la famiglia di origine e anche l’aveva spinta a stare lontana da Torino, pur non impedendole di frequentare i nonni. Ricordo le sue parole: “Mio nonno era stato un milite fascista e la bella casa in cui avevo vissuto per anni era stata una ricompensa per i servizi resi alla Patria.” Mentre parlava, avevo cominciato a capire perché ritenesse importante per il nostro rapporto la storia della sua famiglia. Le avevo chiesto se nel dopoguerra… Mi aveva interrotto. Ricordo le parole. “Prima ci sono state le protezioni, poi un colpo di spugna pacificatore.” E subito dopo: “Ora sai che schifo c’è nel mio sangue, Ernesto”. Ma io non credo in quella sciocchezza del sangue, non credo che i figli siano responsabili delle colpe dei padri, devono già scontare le proprie.
Ed è la mia stessa opinione. – Perché me l’ha raccontato, signor Natoli? Ne aveva parlato ai miei colleghi?
Fa segno di no. – Lei è diverso. E quello sporco articolo non era ancora uscito. – Fa una pausa. – Sporco non perché accusasse la famiglia di Diletta… Non so come dire. Insinuante. – Di nuovo si interrompe. – Ho una camera in una pensione e, saranno dieci giorni fa, la proprietaria mi mette davanti la rivista ben aperta. E poi arriva lei, commissario… – esita. – Mi scusi, si è presentato ma il suo nome non lo ricordo.
– Mariani. Mariani Antonio.
– Poco dopo l’articolo-spazzatura, l’indagine sull’omicidio di mia moglie e di mio figlio viene tolta a un commissario e affidata a un altro, a lei. Sono un ingegnere, tendo a collegare i fatti secondo la logica di causa ed effetto.
Ha sbagliato, non è stato l’articolo a farmi subentrare nell’indagine, ma è vero che ho chiesto di averla spinto dal passato di Diego Baldi. Da come mi guarda capisco che aspetta una risposta. – Dalla metà di novembre sono stato in congedo per motivi di salute. Ho appena ricominciato. – Ma qualcosa devo aggiungere: – Ho chiesto quest’indagine prima di aver letto l’articolo. L’articolo ha rafforzato la mia decisione di occuparmene e di trovare chi li ha uccisi e per quale motivo.
– Grazie.
– Non lo faccio per lei.
– Lo so, è il suo lavoro. Ma grazie ugualmente.
– È stato interrogato dal mio collega, il commissario Apolloni?
– Mi pare una volta, poi più spesso da un ispettore…
Mi ha guardato con l’incertezza di chi non ricorda un nome.
– L’ispettore superiore Paciani?
Annuisce. – Sì, mi ha interrogato più volte. – Lo dice con un tono di voce che chiarisce bene come l’esperienza sia stata pesante. – Ho capito presto che secondo lui ero il colpevole. Con tutto il dolore che mi opprimeva.
Me l’aveva già detto, con parole diverse, quindi è probabilmente vero. – Ha mai parlato del passato di Diego Baldi con Apolloni o Paciani? – Gliel’ho già chiesto, ma insistere fa parte del mio mestiere.
Un’occhiata perplessa. – No, gliel’ho detto, non ce n’era il motivo. Nessuno mi aveva chiesto nulla.
– Ha parlato con qualcuno, estraneo alle indagini, di quello che le aveva raccontato sua moglie?
– No. Lei è l’unica persona con cui ne ho parlato. Anche fra noi non abbiamo mai più affrontato l’argomento.
– Neppure noi ne parleremo se non sarà necessario per le indagini. – Guardo la valle, sta cominciando a piovigginare, quasi caligine che si sfalda fra i rami degli alberi spogli. – Si sente di tornare giù?
Annuisce.
Lo precedo fino all’auto, entro, gli apro. Guido fino alla sua villetta. Quando mi fermo, gli chiedo se ha tempo di seguirmi in Questura.
– Lei vada, io la raggiungo. Mi trattengo ancora un po’. Devo salutarli.
– Con comodo. Oggi pomeriggio verso le tre, le va bene?
Fa segno di sì.
Pomeriggio
Tornando verso il centro mi sono fermato per un boccone prima di arrivare in Questura, perché non ho tempo da perdere.
Passando in corridoio vedo la Petri al lavoro. Alza gli occhi, accenna ad alzarsi. Con un gesto le comunico che ci vedremo dopo. Annuisce. Ormai ci capiamo al volo.
Chiudo la porta, apro la finestra. Accendo una sigaretta e prendo la cartellina CREMENO. In un foglio bianco scrivo quello che mi ha raccontato Natoli Ernesto. Quando ho concluso, spengo bene il mozzicone, chiudo la finestra e chiamo la Petri.
– Hai trovato qualcosa?
– I colleghi di Torino devono ancora inviare le informazioni che ho richiesto. Ho fatto uno schema cronologico di quello che ho ricostruito. – Legge lentamente: – Diletta Baldi nasce a Torino nel 1984, ma otto anni dopo è già ad Alessandria; nel 2004 si trasferisce a Genova dove frequenta l’Università, Scienze infermieristiche, nel 2007 consegue il diploma di laurea. – Alza gli occhi verso di me. – Breve, non magistrale.
– Genova? Aveva lasciato il Piemonte?
Annuisce. – Ma dopo la laurea ha trovato lavoro in una Clinica privata di Biella. Nel 2010 l’ha lasciata per l’ambulatorio di Alessandria.
Quello in cui ha conosciuto Ernesto…
– Alla fine del 2012 si licenzia e viene ad abitare a Genova Bolzaneto, località Cremeno. Era già incinta e non ha neppure sfruttato il periodo di maternità. Pochi mesi dopo, sposa Ernesto e nasce Corrado. – Una pausa. – Non molto, commissario.
– Vero.
– Mi sono chiesta perché da Alessandria è venuta a Genova, invece di andare a Torino, per l’università. Avevo già dato un’occhiata ai profili dei genitori e dei nonni. Tutti di Torino. I genitori erano morti, ma il nonno paterno era ancora vivo. Molto anziano ma vivo. – Mi guarda e si stringe nelle spalle. – Lo so, avrei dovuto procedere in modo metodico, esaminare la vittima, poi i genitori e quindi i nonni. Ma quando ho trovato “Genova”, non ho resistito e sono saltata a dare qualche occhiata anche veloce agli altri parenti. Nessuno di Genova, anche nessuno di Biella. I nonni materni e la nonna paterna deceduti da anni, ma nonno Diego era vivo. Soprattutto benestante. Proprietario di uno spazioso appartamento, di discreto valore.
– Hai fatto in fretta a consultare la documentazione.
– Non ne ho avuto bisogno. Ho vissuto a Torino per trent’anni, la conosco. È una via di palazzi signorili in un quartiere signorile.
– Quartiere nuovo?
– No, bei palazzi solidi degli anni Trenta, quasi tutti ristrutturati. Appartamenti spaziosi. Sarebbe stato più ragionevole frequentare l’università a Torino, anche cercare il primo lavoro in quella città. Se non aveva motivi validi per tenersene lontana. – Mi guarda come per chiedere spiegazioni. – Però che abbia frequentato a Genova può esserci utile, commissario. Non sono trascorsi tanti anni…
Fatico a seguirla.
– Non sono trascorsi tanti anni da quando ha frequentato l’università. Ho letto la documentazione, uno dei problemi maggiori è stata l’assenza di parenti stretti, di amici e di conoscenti della coppia. Hanno interrogato i vicini, ma hanno ottenuto solo pettegolezzi. I colleghi di lui, ma della moglie sapevano poco.
Si è interrotta e ora capisco cosa vuole dirmi.
– Proponi di cercare chi aveva frequentato con lei.
– Se non avremo trovato altro di valido, commissario.
– Ottima idea, ispettore.
– Prima della laurea ha avuto esperienze lavorative. Forse per mantenersi, forse per incrementare quello che le era stato lasciato dai genitori…
– Che lavoro facevano?
– Dipendenti del comune, entrambi ragionieri.
– E lei?
– Dai documenti risulta cameriera in un bar di San Martino, l’Europeo.
Mi ha girato il foglio. Conosco il locale perché ci passo davanti ogni mattina quando evito la strada a mare e percorro corso Europa.
– La sua vita sembra liscia come l’olio, lineare ma qualcosa mi lascia perplessa, commissario. Si era sacrificata per prendere la laurea in scienze infermieristiche, lavorando. E poi… – Batte le mani palmo contro palmo. – Poi ha conosciuto quest’uomo, ci ha fatto un figlio e ha abbandonato il lavoro.
È strano ma ho la sensazione che, parlando delle scelte di Diletta Natoli, valuti cosa fare della propria vita. Mi passo una mano fra i capelli. – Capita di conoscere una persona e di capire che è quella giusta. – A me è capitato con Francesca, forse a lei con me, spero.
– Ma perché lasciare il lavoro, commissario? È difficile conciliare famiglia e lavoro, ma chi smette di lavorare è quasi sempre la donna anche se un figlio si fa in due.
Guardo l’ora, fra poco arriverà Natoli. Devo valutare se chiedere alla mia ispettrice di essere presente… No, è troppo fragile, troppo fragile è il rapporto di fiducia che sto costruendo con lui. E ho bisogno che la Petri continui a scavare. – Tutto quello che puoi.
Si è alzata, è quasi alla porta quando le dico: – Recupera quello che puoi sull’appartamento dove abitava il nonno. Controlla da quando era della sua famiglia.
Ha un’espressione strana ma annuisce e dice che va bene.
Pochi minuti prima delle tre sento bussare. All’agente che ha guidato Natoli fino al mio ufficio dico di farlo entrare.
È ancora pallido, ma non sembra più prossimo a un collasso. Gli indico una delle due sedie e prendo posto dietro la scrivania. – Ha mangiato un boccone?
Fa segno di sì.
– Allora possiamo cominciare.
Un altro assenso.
– Dalla documentazione… – mi interrompo e lui sembra sorpreso. – Ho bisogno che mi dica se quello che le chiederò è una novità.
– Se mi è già stato chiesto? Ho capito.
– Dalla documentazione risulta che sua moglie abbia frequentato l’università qui a Genova. È rimasta in contatto con qualche amico, con amiche?
– No. Anche al matrimonio. Ci siamo sposati qui, in Comune. Testimoni? Un mio collega e la moglie. Eravamo in quattro, noi due e i testimoni. Era incinta, ma non ci siamo sposati per quello. Corrado – nel dirne il nome la voce si spezza. – Corrado è nato pochi mesi dopo. – Una lunga pausa. – Le avevo chiesto se voleva invitare qualche amico, aveva risposto che non ne aveva. Soltanto conoscenti. – Si protende verso di me. – Ho cercato di spingerla a frequentare qualche amica, anche i vicini, le mogli di colleghi. Temevo che si sentisse sola. Diceva di no. Che era la vita che aveva sempre voluto. E negli ultimi mesi usciva sempre meno volentieri.
– Timida?
– No.
– Pensava di riprendere il lavoro quando vostro figlio fosse stato più grande?
Un altro no deciso. – Non sono stato io a impedirle di lavorare e di vedere altre persone. – Una lunga pausa. – Non ero il suo carceriere. Non sono quel tipo d’uomo. Diceva che quel lavoro era stato un errore. Diventare medico era stata una fantasia di quando era bambina, ma medico era troppo e aveva ripiegato su infermiera; ormai era contenta di smettere. Perché neppure medici e infermieri avevano le mani pulite. Tanti, sì, sembravano convinti che fossi io a tenerla prigioniera, ma era lei che voleva vivere così, commissario!
Sulle ultime parole la sua voce è salita. Gli poso una mano sul braccio. – Le credo.
– È… Era stata lei a non volere il suo cognome da nubile sulla cassetta della posta. – Si passa una mano sul viso. – Ho pensato che fosse per la storia del nonno.
Annuisco. – Mi ha detto che parlavate molto fra voi.
– Sì. Stavamo bene insieme. – Si ferma e ho la sensazione che cerchi le parole giuste. – Ha chiesto di un’amica… Le avevo risposto di no, perché l’amicizia si era rotta quando Corrado era appena nato, ma prima era venuta qualche volta a trovarci. Il cognome non lo so, il nome è Camilla. Erano cameriere nello stesso locale. Ma lei non studiava da infermiera.
– Penso di riuscire a rintracciarla. Sa perché l’amicizia si era rotta?
È strano vederlo arrossire.
– Perché avevo fatto una cazzata. Era venuta a trovarci, Diletta aveva appena partorito. No, aspetti. So che era venuta quando ero via, quella era la seconda volta che la vedevo. Camilla era molto vivace, espansiva. – Una pausa. – Non il mio tipo ma piuttosto bella. Un abbraccio era diventato un po’ più caloroso di quanto avessi voluto. Mi stavo staccando quando era arrivata Diletta. Non c’erano state parole, ma mentre la salutava mia moglie le aveva detto di non venire più. No, non ne avevo parlato ai suoi colleghi. – Passa una mano sul viso. – In realtà mi vergognavo. Mi vergogno.
– Comunque la rintraccerò. Non perché sospetti un suo coinvolgimento nell’omicidio, ma spero che mi dica qualcosa su sua moglie, sul suo passato. Stiamo cercando di ricostruirlo, ma abbiamo pochi elementi.
– Ha condotto una vita molto semplice, normale.
So che quello che sto per dire gli farà male, ma è il mio mestiere. – Mi ascolti bene, signor Natoli. Ci sono soltanto tre possibilità. La prima è che sua moglie e suo figlio siano stati uccisi senza alcun motivo.
Mi interrompe: – Da un pazzo?
– Mettendo da parte la mia convinzione che in ogni assassino ci sia una buona percentuale di pazzia, sono d’accordo. La seconda possibilità è che siano stati uccisi per ferire lei, signor Natoli.
– Non ho nemici.
Non replico, so che ogni essere umano ha nemici. Continuo il mio elenco: – La terza e ultima è che il movente sia nascosto nel passato di sua moglie. O in quello della sua famiglia. Ci stiamo muovendo in tutte le direzioni. Vorrei che mi dicesse quello che ricorda sul passato di sua moglie, diciamo quello che le aveva raccontato e anche quello che ha ricostruito assemblando dettagli. – Non dice nulla e continuo. – È un ingegnere, dovrebbe essere abituato a valutare i dettagli e la visione d’insieme. – Ancora silenzio. – Capisco che sia difficile, doloroso. Procediamo così, le farò delle domande, per cominciare, domande… – sto per dire “neutre”, ma ripiego. – Domande semplici, non intime.
Annuisce.
– Ha conosciuto sua moglie ad Alessandria, per caso. Poi avete preso casa a Genova. Quando ha saputo che lei aveva abitato qui mentre frequentava l’università?
– All’IKEA. Ci siamo trovati a faccia a faccia con… Con Camilla. Era la prima volta che la vedevo. Alla caffetteria dell’IKEA. Si sono salutate, scambio di numeri di telefono, ma poi Camilla doveva lavorare. Sì, era banconiera. Mentre uscivamo, Diletta mi aveva detto che avevano lavorato insieme mentre lei studiava a Genova, Scienze infermieristiche. Avevano lavorato insieme, ma non alla caffetteria dell’IKEA. Una pausa. – Non mi aveva mai detto di aver vissuto a Genova. E Camilla? L’avevamo incontrata là, per la prima volta. Qualche settimana dopo, rientrando, l’ho vista a casa nostra. Avevo capito che si erano viste abbastanza spesso. Poi è andata come è andata.
Non so cosa dirgli.
– Anzi avevo avuto l’impressione che avesse colto l’occasione per rompere un rapporto che la infastidiva.
– Può essere più chiaro?
– Commenti frammentari… Camilla invadente e impicciona. Che voleva sapere cosa aveva fatto negli anni in cui non si erano frequentate. E a Diletta non piaceva parlare del passato, neppure con me. Prima che incontrassimo Camilla all’IKEA ero convinto che mia moglie avesse studiato soltanto ad Alessandria, ero tutto scemo. Forse a Torino i pochi anni dell’università. Quando era venuta a Genova per vedere alcune case, si orientava benissimo e non è semplice per chi ha vissuto in città di pianura e con pianta regolare. Una sera scorrevano i servizi di un telegiornale, mi pare che parlassero di un pirata della strada, a Torino. Inquadravano i palazzi e lei ha commentato che aveva abitato lì, da bambina.
– Quando gliel’ha detto?
Sembra che cerchi di acchiappare ricordi. – Allattava… Sì, tre anni fa.
– Come erano i palazzi?
Si stringe nelle spalle. – Non saprei.
– Grandi o piccoli, recenti? Periferia?
– Ha presente il Quadrilatero? Tutti alti uguali. E credevo che avesse abitato sempre ad Alessandria, invece quella sera le è scappato detto che era stata a Torino, in quella bella via, fino agli otto anni. Ma ho capito che parlarne la faceva star male. Eppure, proprio in quell’occasione mi aveva detto che là era cominciata la sua passione per la medicina, nella casa del nonno.
Forse era stato l’appartamento di Samuele Pinto, studente di medicina, e di suo padre, noto pneumologo. Forse nell’appartamento erano rimasti libri… Ma Diletta era andata via a otto anni! Presto per leggere libri di medicina.
– Le ha mai parlato di Biella?
Fa segno di no. – È strano, ho sempre creduto che fra noi non ci fossero ombre, angoli bui e silenzi, invece ora mi accorgo quante parti della sua vita aveva tenuto nascoste. È come perderla una seconda volta. Peggio, non averla mai avuta.
– Forse voleva dimenticare. Torino doveva essere legata ai trascorsi del nonno.
– Ma Biella? Sapevo che aveva lavorato in una Clinica privata, ma non sapevo dove. A quanto avevo capito ad Alessandria era brava nel suo lavoro. Stimata. Eppure, aveva lasciato un buon posto, infermiera di sala operatoria, per uno meno qualificato. Infermiera generica in un ambulatorio di pronto soccorso.
– Forse desiderava ritornare dove aveva vissuto per anni.
– Dove non aveva amici, commissario. Allora non mi ero posto domande, ero felice che senza esitare mi avesse raggiunto a Genova. Quando siamo felici, non ci facciamo domande. Ero, no, sono ancora, un solitario, avevo trovato una persona con cui stavo volentieri. L’avevo sentito subito.
Lo capisco, avevo provato la stessa sensazione con Fran.
Lascio depositare il silenzio, poi ritorno commissario. – Devo chiederle qualcosa di personale. – Vedo il suo assenso e continuo: – Relazioni precedenti di sua moglie? Può dirmi qualcosa?
– Ha accennato soltanto a un uomo, ma in modo obliquo. Mi aveva chiesto di non farla soffrire come l’altro, quello di prima. Mi ero fatto anche l’idea che fossero colleghi e che avesse lasciato il lavoro precedente per allontanarsi da lui. Vorrei essere stato uno di quelli che vogliono sapere tutto sulle relazioni precedenti delle loro compagne. So quello che mi ha raccontato di sua iniziativa…
Forse avrò abbastanza elementi per rintracciare Camilla e l’uomo con cui aveva avuto una relazione. Sperando che serva. – Sua moglie non aveva mai parlato di riprendere il lavoro?
– Aveva uno strano rapporto con il suo mestiere. A volte pensavo che le piacesse, altre che lo odiasse. Eppure, conservava i suoi libri, alcuni erano proprio vecchi e ingialliti, rilegati con carta gialla.
– Li ha ancora?
– Le sue cose sono tutte come le ha lasciate. Hanno perquisito, non penso che abbiano asportato qualcosa. Io ho preso soltanto i vestiti per il funerale.
– Darei un’occhiata.
Mette una mano in tasca e ne toglie un mazzo di chiavi. – Le mie. Può tenerle. Io ho quelle di Diletta.
Restano sul tavolo fra di noi. – Dovrei chiederle ancora una informazione, signor Natoli. Chi sapeva che in quei giorni sarebbe stato lontano da casa?
Invece di rispondere, sfiora con le dita quel mazzo di chiavi. – Pensa che chi li ha uccisi sapesse che ero via? – Continua in fretta: – Sì, è possibile. Pensa che abbia approfittato dell’occasione. I miei colleghi e quelli dove andavo a lavorare. Alcuni erano là con me.
Gli porgo il mio biglietto in cui c’è mail e numero di telefono.
– Se ricordasse qualcosa, mi chiami a qualsiasi ora.
Resta per un po’ in silenzio, poi si alza. – Lei non crede che sia stato io a ucciderli?
– Non escludo nessuna possibilità. Troverò chi li ha uccisi.
È uscito. Ho chiamato la Petri e l’ho aggiornata. Come sempre si è avvicinata alla lavagna bianca su cui scriverà qualche appunto, che seguiremo per modo di dire. Si gira verso di me: – Da cosa partiamo, commissario?
– E tu cosa ne pensi?
Prende il pennarello e scrive:
1) CAMILLA
2) RELAZIONE PRECEDENTE
3) COLLEGHI DI NATOLI.
– Al punto 3 aggiungerei chi sapeva che Natoli sarebbe stato via, quindi anche quelli di Piacenza, commissario. EDM è il nome dell’impresa. Ha sede legale qui a Genova. Alla Fiumara.
– Avevi già fatto ricerche?
– C’era nella documentazione, commissario. Tutte le pagine introduttive. – Non aggiunge che sono quelle che io salto sempre perché le ritengo noiose e inutili. – EDM è un’impresa di media grandezza, con alcuni dipendenti fissi e altri assunti a tempo determinato. È specializzata in interventi di ristrutturazioni di strutture sanitarie.
– Anche a Piacenza la EDM era impegnata in un ospedale?
– Una Clinica privata. Ristrutturazione dell’atrio: reception, caffetteria, sala medici. Natoli era il supervisore.
Ho una strana sensazione che non riesco ad afferrare, come quando accendo l’autoradio e, per errore, capto un canale che trasmette canzonette: certe melodie mi ricordano qualcosa che continua a sfuggire e mi rende nervoso. Per questo motivo la mia autoradio potrebbe essere finta per quanto la uso.
– Ottimo lavoro, ispettore, come sempre. Una proposta per come suddividerci le ricerche?
Invece di una risposta operativa mi sento dire che deve parlarmi.
Un attimo di panico. Spero soltanto che non mi voglia parlare del suo rapporto con Nazareni, è stato già abbastanza imbarazzante ascoltare lui!
– È questione delicata, commissario.
– Togliamoci il dente, dimmi, Petri. Ti ascolto.
– Ho sbagliato, commissario, ho fatto quello che non avrei dovuto come ha segnalato l’ispettore superiore.
Si è interrotta e tiro un respiro di sollievo, non mi chiederà consigli sulla sua vita privata, ma su cose di lavoro. – Dimmi, senza problemi.
– L’omicidio di Cremeno era del commissario Apolloni che aveva richiesto in squadra, come supporto, l’ispettore superiore, non me. Ma io…
– Hai indagato.
– So che non dovevo, ma sembravano tutti convinti della colpevolezza di Natoli. Ma erano state fatte indagini sul passato della vittima? Lei ha sempre detto che la vittima deve essere il punto di partenza.
E se ora esce il nome Pinto? Annuisco per chiederle di continuare, evitando parole che potrebbero rivelare troppo.
– Avevo letto i verbali degli interrogatori, numerosi, a Natoli. Sempre aveva insistito sulla riservatezza della moglie, sul non voler frequentare nessuno. Sul non avere relazioni di buon vicinato. Non è normale, commissario. Tutti pensavano che fosse lui a mentire e mi sono chiesta se invece fosse il contrario. Che lei volesse vivere appartata. Come se nella sua vita ci fosse qualcosa da nascondere.
Sento il nome Pinto avvicinarsi sempre di più.
– Avevo ferie arretrate, qui non servivo. Anzi, sembrava che dessi noia. Avevo chiesto di recuperarle. Ero andata dove lavorava prima di trasferirsi a Genova. Era molto stimata, la rimpiangevano. – Esita. – Avevo lasciato intendere di essere impegnata nelle indagini in veste ufficiale e nessuno si era stupito perché ero la prima a interrogarli. Lo so, commissario, non dovevo.
– Non preoccuparti, Petri.
– È giusto che lei lo sappia, commissario.
– Hai scoperto qualcosa?
– Anche allora era molto riservata. Poi sono andata a Biella: nella Clinica Serenitas di Biella sono stati più reticenti. Ho saputo soltanto che si era licenziata senza spiegazioni. Sono riuscita a parlare con una collega. Anche lei l’ha descritta come molto riservata, ma ha aggiunto una motivazione. “Aveva una relazione con uno sposato. Da poco dopo il suo arrivo.” Ho provato a parlare con la direzione, ma non hanno risposto. Come prevedevo. – Una pausa. – Come è giusto. Non agivo in veste ufficiale, anche se mi ero qualificata come ispettore.
Come ho fatto ad Alessandria, a “Le Querce”. Annuisco. – Scoperto altro?
– Avevo finito le ferie. Paciani… L’ispettore superiore mi ha visto riordinare gli appunti e mi ha ricordato che quel caso non mi riguardava. Quando lei mi ha chiesto di raccogliere informazioni sulla vittima, molte le avevo già, commissario.
– Niente di grave, ispettore. Hai soltanto anticipato le mie istruzioni, come hai fatto spesso. Quando sei andata ad Alessandria e a Biella?
– Dal 6 al 12 dicembre, commissario.
– Mi scrivi due righe, per me, non per la documentazione. – Una pausa. – E ora riprendiamo dove ci siamo interrotti. Tornando a casa mi fermerò al bar dove Diletta e Camilla lavoravano da cameriere.
– E l’IKEA?
– Domani mattina andrò a Cremeno perché vorrei rivedere la villetta in cui c’è stato l’omicidio e al ritorno mi fermerò all’IKEA. Prendi un appuntamento con il proprietario della EDM, abbiamo bisogno di dati ma soprattutto di sapere che tipo è Natoli.
– Sono soltanto un ispettore, c’è Paciani…
– No. Sei un ispettore. Io ti incarico di parlare con quelli della EDM, è un ordine. E continuerai le ricerche sul passato di Diletta. Organizzati come ritieni meglio. Domani sera ci aggiorniamo.
– A che ora?
– Le diciotto? – Lei fa segno di sì. – Dovresti avvisare Nazareni, così facciamo il punto.
– Va bene, commissario.
Verso sera
Di solito, dopo il lavoro, preferisco tornare verso casa percorrendo la strada a mare, perché l’apertura dell’orizzonte allontana dolori e miserie che nella giornata mi hanno stretto d’assedio. Oggi no, oggi ho scelto di percorrere corso Gastaldi; arrivato dove diventa corso Europa comincio a cercare un posto per l’auto. Lo trovo all’altezza della sede RAI Liguria e ritorno indietro fino all’incrocio con via Antonio Pastore. Vent’anni fa il bar Europeo, che faceva anche cucina ed era noto per gli aperitivi, aveva un piccolo dehors. Ora ce ne sono due.
Entro, scelgo un tavolo d’angolo e ordino un caffè. Al cameriere chiedo di poter parlare con il proprietario o il gestore.
– Ci sono problemi?
– No, sono un commissario di polizia. – Tolgo dalla tasca il tesserino. – Sto cercando di rintracciare una persona.
– Per il gestore deve tornare lunedì, ma io lavoro qui da dieci anni.
– Ha tempo di parlarmi?
Si guarda attorno. Ci sono soltanto due clienti a un tavolo, ma c’è un altro cameriere. – Sì, se non arrivano altri. Fra una mezz’ora c’è più gente.
Gli indico la seconda sedia. Dalla tasca del giaccone tolgo alcune foto che poso fra di noi. Solleva una, poi l’altra. Appoggia la schiena alla spalliera. – Povera Dilla.
– Dilla?
– Diletta, ma il suo nome non le piaceva. “Diletta non sono mai stata per nessuno”, così diceva. Ha lavorato qui per tre anni, mentre frequentava l’università.
– Che tipo era?
Resta in silenzio per un po’. – Seria, puntuale, lavoratrice. Seria – lo ripete e annuisce. – Non musona, ma anche nello scherzo a un certo punto si fermava. Ho letto che è stata uccisa, con il suo bel bambino. – Una pausa. – Ora che aveva trovato la serenità.
– L’aveva vista dopo il matrimonio?
– Sì, forse l’anno scorso. Sì, l’anno scorso a quest’epoca. Mi aveva detto che passava e le era venuta voglia di salutarmi. Aveva portato il bambino al Gaslini per un controllo. Non la vedevo da anni ma l’avevo riconosciuta. Mi scusi – si alza e si dirige alla cassa per far pagare la coppia.
Quando torna si rimette seduto. – Era cambiata. Non di aspetto. Sorrideva, sorrideva davvero. Prima aveva una tristezza dentro. – Mi guarda. – Non so se vale, ma io passo il tempo a vedere gente.
– Sa se aveva qualche storia?
– Storie? Se le aveva avute, le aveva tenute ben nascoste. Lavorava e studiava, studiava e lavorava.
– Mentre Diletta lavorava qui, avevate una cameriera, forse si chiamava Camilla…
Non mi lascia concludere. – Camilla Sorresi. Lei sì che aveva storie! Lavorava e si divertiva. Molte volte avevo visto qualche cliente aspettarla a fine turno. Eppure, quelle due vivevano insieme. – Si blocca. – Insieme nel senso che dividevano un appartamento. Qui sotto. Da via Donghi.
– Da quando non lavora più qui?
– Dopo che Dilla è andata via è rimasta pochi mesi. – Si guarda attorno, sono arrivati dei clienti che si stanno avvicinando al buffet degli aperitivi.
Mi alzo, mi imita. Lo ringrazio ed esco.
Riaccendo il cellulare e chiamo la Petri. Risponde quasi subito.
– Abbiamo il cognome di Camilla. Camilla Sorresi. Domani mattina mi fai una ricerca veloce su di lei.
– Posso farla ora, sono ancora in ufficio. – Una pausa e poi, esitante: – Per l’IKEA sarebbe meglio informarci se lavora ancora lì. Se c’è ancora serviranno i suoi orari.
Sono impiccione se mi chiedo perché è ancora lì e non ha raggiunto il suo Nazareni? Ho la sensazione che ci sia un po’ di tensione fra loro. – Vai a casa. Domani mattina fai la ricerca e mi mandi con calma, all’IKEA vado nel pomeriggio.
– Va bene, commissario.
Sono appena arrivato a casa e ho tolto il giaccone quando prendendo il cellulare mi accorgo che Torrazzi ha lasciato un messaggio: MI CHIAMI?
È stata una lunga giornata, ho assoluto bisogno di una doccia, ma scorro i contatti fino al nome del mio medico legale preferito. Risponde subito: – Tutto bene?
– Sì. Sto cercando tracce.
– Domani è sabato.
Non capisco perché sia un’informazione importante.
– Preferirei non disturbare Issel di sabato, probabilmente è ebreo osservante. Pensavo di prendere un appuntamento per domenica e vorrei chiamarlo questa sera, non domani.
– Ti mando un messaggio con il numero di telefono. No, lo chiamo e ti dico. Che orario preferisci?
– A sua scelta. Non ho impegni. – Una pausa. – Stai trovando qualche traccia?
Seguo l’istinto. – Domani cosa fai? Lavori urgenti? Famiglia?
– Niente lavori urgenti e di stare in famiglia ho poca voglia, perché?
– A pranzo insieme, ma in un posto buono. E mi dai una mano.
A volte ho avuto il sospetto che leggesse nella mia testa, oggi è una di quelle, perché lo sento dire: – La trattoria di Cremeno? Non ci sono mai stato. Dicono che si mangi bene.
– Quando passo a prenderti?
– Nove e mezza, un quarto alle dieci. All’angolo fra via Cadorna e viale Brigata Bisagno.
Ho chiamato Issel, è d’accordo per domenica. Gli dico che accompagnerò il dottor Torrazzi, il medico legale che ha effettuato le autopsie.