Kurt Wang non aveva mai udito una voce come la sua. Su disco sì, ovvio, ma mai nella realtà. Billie Holiday. Radka Toneff. Amy Winehouse, forse. Quando la piccola ragazza sorridente dai lunghi capelli rossi andò al microfono e la voce suadente si diffuse per l’auditorium che fungeva anche da sala prove, fu come se il tempo si fermasse. Come se le nuvole svanissero. Come se il freddo inverno si tramutasse in estate. Come se il mondo fuori non esistesse. Kurt in realtà non sapeva se fosse della voce o della ragazza stessa che era innamorato.
Lei. Lei. Lei. Ovvio che era lei. Non riusciva a dormire. Non riusciva a respirare. Quasi non riusciva a portare il sassofono alla bocca.
Nina Wilkins Quartet.
Si erano incontrati al corso a indirizzo jazz del conservatorio di Trondheim. Il miglior istituto di formazione del paese per giovani musicisti del suo calibro. Ammesso al primo tentativo. Quanti sassofonisti ci avevano provato? Tanti. Tantissimi. E chi era entrato subito? Chi aveva superato le tre prove, con facilità, leggerezza, ottenendo quasi una standing ovation? Lui. Kurt Wang. Il ragazzo timido e dinoccolato di Manglerud, Oslo, dove i maschi erano considerati tali solo se giocavano a hockey, cazzo, avrebbe dovuto esplodere per l’autostima. Fregarsene di una cantante jazz mezzo svedese, ce n’erano un’infinità lì a Trondheim, di ragazze affascinanti e piene di talento che cantavano, ma niente da fare. La prima volta che Nina Wilkins aveva aperto bocca, le ginocchia gli erano diventate di gelatina, e da allora stava da cani. Be’, non proprio come un cane, oddio, padrone di se stesso lo era, soltanto un po’ fiaccato. Non in condizione di pensare con lucidità.
Lei aveva proposto che si trasferissero a Oslo, l’intero gruppo, e lui aveva accettato, naturalmente.
Anche se stava più che bene lassù. L’appartamento di Møllenberg. I locali. Nove musei. L’antiquariato. Le compagnie scaltre. Trondheim. Una città veramente bella. Con una scena jazz pazzesca.
Lei aveva proposto che sostituissero Mulle con un altro trombettista, un portoghese di cui lui non aveva mai sentito parlare. Sì, sì, certo, Nina, se è quello che vuoi.
Sebbene lui e Mulle suonassero insieme da sempre, fossero come gemelli, improvvisassero come due teste in sincronia sullo stesso corpo.
Lei aveva proposto a lui che cominciasse a suonare di più il sax soprano, che mettesse un po’ da parte il tenore, suonasse un’ottava più alta, più luminoso, più folle, più spiritato, come John Coltrane alla fine del periodo con Miles Davis. Ma certo, Nina. Naturalmente sapeva suonare il soprano, si era sempre considerato adatto, sul serio, non era così?
Anche sua madre la pensava così. Jan Garbarek in vinile nel salotto su a Manglerud, anche se a lui era sempre piaciuta di più la pienezza del tenore.
No, cazzo, doveva affinarsi adesso. Così non andava più. Nina Wilkins Quartet. Nina. Nina. Nina. La voce che gli riempiva la testa ovunque si trovasse.
In ogni caso dopo che il portoghese era arrivato a Oslo... bravo, per carità, non era questo il punto. Tecnicamente in gamba. Morbido. Ma migliore di Mulle? No, questo non gli pareva proprio. Merda, quanto era stato imbecille. Avrebbe dovuto accorgersene a chilometri di distanza. Nina e il portoghese. Avvinghiati sul divano. Baci ardenti durante le prove. Mano nella mano lungo la strada per il club Blå.
Avrebbe dovuto darci un taglio. Dire che adesso ne aveva abbastanza. Eccome se avrebbe dovuto. Se fosse stato un uomo. Ma per la miseria, come poteva?
Quella voce.
Dio Santo, che voce.
Come miele e carta vetrata.
Come la risposta a un segreto.
Ogni volta che apriva bocca.
E così era rimasto.
Imbecille.
Nina Wilkins Quartet.
Per fortuna erano partiti. Il Vossa Jazz l’anno precedente. Avevano suonato in uno dei palchi più piccoli, ma ottenuto le migliori recensioni. Il pubblico era impazzito. Poi il Kongsberg Jazzfestival. Lo stesso lì. Visibilio. La gente aveva fatto a pugni per i biglietti. Da programma avrebbero dovuto suonare solo due sessioni, ma il pubblico non se ne voleva andare. Estasi pura. Lui aveva sputato sangue, non si era più sentito le labbra per diversi giorni, ma ne era valsa la pena. Adesso dovevano suonare a Molde. La ciliegina sulla torta. E non in uno di quei localini, certo che no, nientemeno che nel duomo di Molde. Se sua madre fosse stata ancora viva sarebbe impazzita d’orgoglio.
«Oggi non mi sento granché» mormorò Nina, allontanandosi dal microfono.
Si portò le mani alla gola, gettò uno sguardo di sfuggita verso la batteria ed ebbe in risposta un cenno d’intesa.
Di nuovo.
Ormai sempre più spesso, e la cosa non gli piaceva.
Billie Holiday lo faceva.
Charlie Parker.
Coltrane.
Miles.
Ma che razza di argomento era quello?
Non ci sta scappando la mano, Kurt, che diavolo ti prende?
Una dose blanda o niente.
Siringa o canna.
Sì, era innamorato.
Sì, lei aveva la voce di un angelo.
Ma l’eroina?
No, cazzo!
Non aveva neanche il coraggio di restare nella stanza. Usciva sempre in strada quando cominciavano. Poi tornava su da quegli sguardi galleggianti, quei sorrisi che erano totalmente altrove. Non suonavano neanche meglio, anche se in realtà loro credevano di sì. Si sentivano meglio, era l’unica cosa, ma la musica non aveva un bel niente a che fare con quella roba. A lui piaceva di più la voce di Nina quando era pulita. E il portoghese? No, non gli andava neanche di cominciare. Sempre mezza battuta dietro. O un quarto avanti.
No, ora basta. Dopo Molde.
Aveva altri progetti. Molti, in realtà.
Dopo tutto lui era Kurt Wang.
Stava di nuovo davanti allo specchio in corridoio, dopo che Nina e il portoghese erano sgattaiolati in cucina, di nuovo mano nella mano, lei che ridacchiava con la bocca contro la guancia di lui. Si guardò allo specchio, scosse la testa e si allacciò la sciarpa intorno alla gola. Maledizione. Era una serata fredda fuori, ma non sopportava quell’odore. Eroina bruciata sulla carta stagnola. No, per la miseria, aveva quasi vomitato la prima volta che il portoghese aveva fatto scattare l’accendino contro il malloppo marrone all’interno del foglio.
Maledizione.
Si accese una sigaretta e sentì che quella volta aveva davvero deciso. Non ne poteva più. Basta, cazzo. In malora la voce. L’amore anche. Sarebbe finita, non era così? Cinque anni... Basta prove, avrebbe telefonato a Mulle. Avrebbe rimesso in piedi il trio. Se Mulle gli avesse dato retta. Quattro mesi senza un cenno, una parola. Sarebbe stato comprensibile, senza dubbio. Nina. Nina. Nina.
Era uscito furioso dalla sala prove quasi con la schiuma alla bocca.
Merda, se faceva freddo. Ed era buio. Ma non doveva essere primavera? Kurt Wang si allungò le maniche del maglione fin oltre le dita e gettò la sigaretta sull’asfalto quando all’improvviso apparve una figura davanti a lui.
«Scusa? Sei tu... Kurt Wang?»
Era un giovane della sua età, un volto nascosto dentro un grande cappotto, un parka.
«Sì...» rispose Kurt tirando fuori dalla giacca il pacchetto di sigarette per accendersene un’altra.
Come faceva quel tipo a sapere il suo nome?
Un fan?
Sorrise e in realtà si sentì un po’ gratificato, anche se aveva deciso da tempo che non si sarebbe curato di quelle cose.
La musica prima di tutto.
«Dov’è il tuo sassofono?» domandò l’uomo sotto il cappuccio guardandolo con curiosità.
«Che vuoi dire?» sorrise Kurt.
Un fan, evidentemente. Non avrebbe dovuto, ovvio, ma pensò che fosse un bene proprio in quel momento. Essere riconosciuti. Per strada. Quindi aveva fatto qualcosa di buono. No, dannazione, ormai aveva deciso.
Quando è troppo è troppo.
«È là di sopra, in sala prove» rispose Kurt, sempre sorridente. «Non so, vuoi un autografo o che cosa? Scusami, ma sono un po’ occupato in questo momento, quindi se...»
«Va bene. Io ne ho uno che possiamo usare» dissero gli occhi dentro il cappuccio della giacca.
«Che intendi dire?»
Non andò oltre.
Kurt sentì all’improvviso qualcosa di bagnato sul viso.
«Non prenderla sul personale» disse la voce che nel giro di qualche secondo sembrò lontanissima.
Ma che cazz...
Kurt poteva vedere la sua sigaretta distintamente adesso, ma non era più nella sua mano.
Aveva messo le ali e stava volando verso il quarto piano. Ancora fumante batté contro la finestra e finì per entrare in cucina, dove andò a mischiarsi con la carta argentata e divenne una canna fatta a origami che somigliava a un colibrì che si posò su un albero pieno di miele e carta vetrata, prima di cominciare a cantare a pieni polmoni.
Con le labbra che parlavano portoghese.