Il ragazzino di dieci anni dai capelli ricci sedeva a poppa della piccola barca a remi cercando di rimanere il più tranquillo possibile. Gettò un rapido sguardo verso il padre posizionato ai remi e si sentì invadere da un’ondata di calore. Di nuovo con papà. Finalmente. Era passato un po’ di tempo dall’ultima volta, dopo che la mamma aveva saputo di quello che era successo lassù. Nella casa di papà, in mezzo al bosco, quasi in montagna, in quella che la mamma definiva una catapecchia. Aveva cercato di spiegarle che a lui non importava che papà non sapesse preparargli i pranzi che faceva lei, che fumasse in casa e tenesse un fucile in salotto. Serviva per sparare alle pernici, mica agli esseri umani, ma la mamma non aveva voluto sentire ragioni. Basta visite al padre, aveva addirittura telefonato alla polizia, o forse non era la polizia, ma in ogni caso era venuto qualcuno che aveva parlato con lui al tavolo della cucina annotando qualcosa su un taccuino e dopo non aveva più visto papà. Fino a quel giorno.
Il ragazzino sentiva il desiderio di raccontargli che aveva letto dei libri dall’ultima volta. Sulla pesca. In biblioteca. Che conosceva molti nomi di pesci adesso, lavarello, salmerino, molva, trota, salmone, e che sapeva che non c’erano i lucci in acque come quelle, perché ai lucci piace nascondersi tra le canne. Lì canne non ce n’erano, crescevano solo nelle paludi, sulla riva, ma non disse nulla, perché ormai aveva imparato. Quando si pesca non si parla, o si parla soltanto a voce bassissima e solo se è papà a cominciare.
«Prima gita a Svarttjønn dell’anno» sussurrò papà sorridendogli tra i baffi e la barba.
«Ogni volta la stessa magia» rispose sottovoce il ragazzino, sentendo di nuovo quella corrente di calore lungo il corpo appena papà gli fece l’occhiolino.
Il ragazzino aveva cercato di spiegarla alla mamma molte volte. Quella cosa con papà. Che gli piaceva così tanto stare lì. Gli uccelli fuori dalla finestra. L’odore degli alberi. Che non era sempre tutto una questione di soldi, che non era colpa di papà se non compravano i suoi disegni, che si poteva anche mangiare senza lavarsi prima le mani, senza la tovaglia sul tavolo, ma lei non voleva ascoltarlo, e a volte era difficile trovare le parole, e così alla fine aveva lasciato perdere.
Stare da papà.
Sollevò lo sguardo verso le nuvole sperando che se ne andassero. Cielo stellato. Era allora che arrivavano i pesci. Tornò a guardare suo padre, le braccia possenti che affondavano placide i remi nell’acqua nera quasi come il carbone, e gli venne voglia di dire che si era allenato e presto sarebbe stato in grado di farcela da solo, di remare, ma non disse nulla. Non si era allenato alla palestra dove andava la mamma, là i bambini non potevano entrare, ma a casa, nella sua stanza, piegamenti e addominali quasi ogni pomeriggio per circa sei mesi, ma i muscoli non si erano ingrossati granché. Comunque aveva ugualmente un piano. L’estate seguente, magari. Allora forse avrebbe funzionato. Se lo immaginava già. Sarebbe entrato dalla porta con lo zaino in spalla, con indosso una di quelle magliette che portavano gli uomini nella palestra della mamma, con le braccia tornite, muscoli possenti che avrebbero potuto remare a meraviglia, così papà sarebbe rimasto seduto a poppa mentre lui spingeva i remi sull’acqua.
«Non è una vera gita di pesca senza una birra» sussurrò il padre ammiccando ancora una volta mentre si chinava tra le gambe per aprire un’altra delle lattine che stavano sul fondo della barca.
Il ragazzino annuì anche se sapeva che quella era una delle cose di cui mamma aveva parlato con quelli che erano venuti in casa, che papà beveva troppo e che era un irresponsabile. Svarttjønn. Le segrete e fresche acque sulla montagna di cui solo pochi sapevano, e adesso c’erano loro due, insieme, così cercò di non pensarci. Che mamma aveva detto che non sarebbe più successo. Andare a trovare papà. Che quella forse sarebbe stata l’ultima volta.
«Primo lancio?» sussurrò il padre tirando i remi in barca.
«Mosca o esca artificiale?» bisbigliò in risposta il ragazzino con i ricci, e sapeva che era una cosa importante, anche se ancora non aveva capito bene perché.
Il padre bevve un altro sorso dalla lattina di birra e gettò uno sguardo verso le nuvole, poi tornò a osservare l’acqua scura.
«Tu che dici?»
«Esca artificiale?» disse il bambino all’inizio un po’ insicuro, ma si sentì formicolare le guance quando il padre annuì con un sorriso e aprì la scatola degli ami che stava accanto a lui sul banco.
«Troppo buio per la mosca, sei d’accordo?»
«D’accordo» disse il ragazzino alzando gli occhi verso le nuvole. Per un istante finse di non aver notato che il cielo non era limpido come avrebbe dovuto essere.
«Qui» disse il padre dopo aver fissato l’amo variopinto all’estremità della lenza.
Un momento solenne, quando le sue mani toccarono la canna che gli aveva dato il padre, e, sebbene il ragazzino sapesse che cosa avrebbe detto subito dopo il genitore, finse che fosse tutto nuovo, qualcosa che stava imparando per la prima volta, quando il padre sussurrò:
«Lanci corti, così non finiamo sul fondo, ok?»
«Ok» rispose il ragazzino facendo oscillare la canna oltre il parapetto della barca a remi.
Tenere il mulinello. Sollevare la canna. Indietro. Lasciar andare la lenza esattamente al momento giusto, e il ragazzino con i ricci sentì ancora una volta quel calore invadergli il corpo quando vide dallo sguardo del babbo che aveva fatto tutto per bene: l’esca colorata volò nell’aria e colpì l’acqua nera con un tonfo quasi impercettibile.
«Non troppo» sussurrò il padre aprendo un’altra birra. «Appena appena. Con attenzione.»
Il ragazzino fece come diceva il padre e all’improvviso sentì l’impulso di dire alla mamma che si era sbagliata. La barca. L’acqua. Avrebbe voluto restare con papà. Non importava quel che dicevano quegli uomini con i taccuini. Magari avrebbe potuto trasferirsi lì di tanto in tanto? Dare da mangiare agli uccellini? Aiutare ad aggiustare il tetto della casa? Riparare le piastrelle delle scale, quelle sconnesse? Era così perso in quei pensieri, perso a immaginare come sarebbe stato bello, che quasi dimenticò che aveva una canna tra le mani.
«Un pesce!»
«Cosa?»
«Hai preso un pesce!»
Il ragazzino si ridestò alla vista della canna che si incurvava. Cercò di avvolgere il mulinello, ma quasi non si muoveva.
«È grosso!» gridò, scordando completamente che sarebbe dovuto restare in silenzio.
«Ma tu guarda!» esclamò il padre spostandosi a poppa. «Al primo lancio, che razza di culo...»
«Non... credo... che...» farfugliò il ragazzino cercando di riavvolgere il mulinello, era così pesante che la barca si spostò lentamente sulla superficie dell’acqua avvicinandosi alla riva.
«Ci siamo quasi» ridacchiò il padre sollevando le braccia oltre il parapetto. «Ma... dannazione!»
«Che cos’è?»
«Non guardare, Thomas!» gridò il padre all’improvviso mentre ciò che stava attaccato all’amo saliva verso la superficie dell’acqua.
«Papà?»
«Stenditi sul fondo. Non guardare!»
Avrebbe voluto starlo a sentire, ma le orecchie non gli funzionavano.
«Papà?»
«Giù, Thomas, non guardare!»
Così guardò ugualmente.
La ragazza nell’acqua sotto di loro.
Il volto bluastro.
Gli occhi spalancati.
I vestiti gonfi d’acqua che indossava, troppo leggeri per camminare nei boschi.
«Papà?»
«Mettiti giù, Thomas! Per la miseria!»
Il piccolo non riuscì a vedere nient’altro prima che il padre si precipitasse oltre i banchi.
Per spingerlo contro il fondo della barca.