27

Gabriel Mørk aveva dormito sul divano del locale cucina e fu svegliato quando Ludvig Grønlie entrò per farsi un caffè.

«Che succede?»

«C’è la KRIPOS. Munch comincerà un briefing adesso. Non credo sia necessario che partecipi anche tu. Sono più o meno le stesse cose che ci siamo detti qualche ora fa.»

«Ah, ok, verrò comunque» rispose Gabriel, soffocando uno sbadiglio. Aveva fatto un sogno stranissimo. Era un postino. Su una barca a vela. Doveva consegnare una grossa lettera. C’era scritto «Tove» ed «Emilie» sulla lettera. Aveva visto un’isola in lontananza, ma per quanto cercasse di guidare la barca nella giusta direzione, non vi si avvicinava. Restava lontanissima. Si intravedevano i volti tristi. La lettera diventava sempre più grande, alla fine l’aveva trascinato con sé tra le onde.

Un segno di qualcosa, forse?

Sua madre aveva sempre dato grande importanza ai sogni. A quello che significavano. Molto più di quello che pensiamo. Era diventata un po’ New Age negli ultimi anni. A Gabriel non erano mai piaciute quelle idee balzane, in genere si limitava a dire «sì» o «interessante» mentre la madre ripercorreva quel che aveva sognato nel corso della notte, ma ora aveva la sensazione che la sua mente stesse cercando di dirgli qualcosa.

Aveva lavorato talmente tanto negli ultimi giorni che era riuscito a malapena a rispondere ai messaggi di casa. Non diventare come Munch. Naturalmente ci aveva pensato quando era arrivata la telefonata della Goli.

Alla polizia finanziaria era stato tranquillo. Dalle nove alle quattro. Un lavoro d’ufficio. Pranzavano insieme, lui e Tove, cenavano insieme, si abbarbicavano l’uno sull’altra ogni sera.

Adesso?

Non proprio.

Gabriel si strofinò gli occhi per scacciare il sonno e si accorse di essere madido di sudore.

Il postino.

La realtà nel subconscio.

Era solo un ragazzino all’epoca, ma lo ricordava ancora bene.

Klaus Heming.

Che aveva tenuto prigioniere le sue vittime, giocando con loro come fossero bambole e poi aveva spedito le foto alle famiglie.

Uno shock nazionale, la gente non aveva voluto crederci, un fenomeno di rimozione collettiva davanti agli schermi tv, mentre vi scorrevano i dettagli del macabro caso.

L’ingenua Norvegia.

Proprio in piena Oslo.

No, non poteva essere possibile.

Nessuno era così malvagio.

Doveva essere un caso accaduto negli USA.

Nel mondo fuori.

Non era uno dei nostri.

Non poteva succedere qui a casa nostra.

Sua madre era poi caduta in una specie di depressione. I vicini pure. Volti cupi sulle scale che avevano solo il coraggio di aprire le cassette della posta a capo chino prima di svanire rapidi dietro porte chiuse a chiave.

Gli oltraggi del tempo.

Era tutto passato.

La quotidianità era tornata alla routine.

Una cosa tipicamente nordica.

Noi perdoniamo.

Scegliamo di credere nel bene.

Ma la cupezza adesso era tornata. L’aveva vista in tutti i colleghi della squadra, anche Munch, che era in fondo un bonario orsacchiotto, avanzava trascinando i piedi con uno sguardo fosco e assorto e le sopracciglia corrugate.

Chiama casa.

Gabriel soffocò un altro sbadiglio, tirò fuori una Coca-Cola dal piccolo frigorifero e stiracchiò leggermente il corpo indolenzito avviandosi in corridoio.

Munch era già in piedi accanto allo schermo quando Gabriel entrò in sala riunioni.

«Gabriel Mørk» disse Munch secco. «Tech, database, social media.»

Lui ricambiò il cenno di saluto degli altri tre volti che non aveva mai visto prima e prese posto nelle sedie in fondo alla sala, accanto a Mia.

Due uomini e una donna. C’erano stati dei borbottii in corridoio durante la notte, e una piccola discussione ad alta voce tra Anette e Munch, ma ora sembrava che quest’ultimo ritenesse buona cosa che fossero lì, anche se era stato Mikkelson a organizzare tutto.

Altri uomini?

Perché no?

Gabriel non aveva afferrato il problema.

Accapigliarsi per chi fosse il migliore?

In un momento come quello?

Per poco non era intervenuto, ma aveva lasciato perdere.

«Vuoi dire qualcosa sul nome?» disse Munch guardando Mia Krüger, che rimase seduta.

«Karl Øverland» rispose lei. «Ci ho messo un po’, scusatemi, ma togliete la r del cognome e guardate la l di Karl come due lettere.»

I tre della KRIPOS, curiosi, si voltarono verso di lei.

«Karl Øve...» disse la donna un po’ confusa.

«Karl Løve» la corresse Mia che sembrava molto sveglia nonostante lo sguardo cupo. «Errore mio, scusatemi, avrei dovuto notarlo subito.»

«Ok» disse uno degli investigatori della KRIPOS.

Capelli chiari. Baffi.

Aspetto insignificante, come tutti quelli del suo tipo.

«Allora, un altro collegamento con I fratelli Cuordileone?»* disse l’altro investigatore della KRIPOS.

Capelli scuri. Barba.

Ancora, avrebbe potuto essere chiunque.

Forse era per questo che avevano ottenuto il lavoro. Per la capacità di scivolare inosservati in mezzo alla gente senza essere notati.

«Sì» disse Mia. «Jonatan e Karl Løve. All’inizio eravamo un po’ incerti, ma ora sembra non ci siano dubbi. Che utilizzi volutamente questo nome, che stia giocando con noi.»

«E chi era questo Karl, scusate?» domandò la donna.

«Il fratellino sopravvissuto» rispose Mia. «Jonatan lo salva. Ma muore durante il salvataggio. Il piccolo Karl vive con la sensazione che il mondo circostante avrebbe preferito che fosse stato lui a morire.»

«Quindi non esiste un reale Karl Øverland?» chiese il biondo, stavolta girato verso Munch.

«Non a Oslo» intervenne Ludvig Grønlie guardando i propri appunti. «Ne abbiamo uno a Stavanger, ma nessuno qui in città, a quanto ho appurato.»

«E Raymond Greger?» chiese la donna, ora rivolta a Munch.

«Stiamo ancora cercando» sospirò Munch. «Purtroppo è stata una sventura, ovvio, che qualche idiota giù a Larvik sia riuscito a dare il nome alla stampa, ma pazienza. Magari potrebbe renderci le cose persino più facili. Più gente è a conoscenza della ricerca, più occhi che guardano, vediamola così.»

«Ma l’ipotesi a cui lavorate è che il caso abbia a che fare con Klaus Heming?»

Il moro, questa volta.

«Non ne siamo certi» rispose Munch, portandosi una mano alla barba.

Occhi rivolti di nuovo verso Mia.

«La macchina fotografica che punta i cadaveri» disse Mia. «L’indirizzo di Bergensgata che ha lasciato. Ci ho riflettuto un po’ e credo sia possibile vederla in due modi.»

Silenzio nella sala adesso, mentre tutti si limitavano a restare in attesa di quello che stava per dire.

«O Klaus Heming è ancora vivo» disse Mia.

«Impossibile» intervenne Munch. «Ho visto il rapporto.»

«Oppure il nostro uomo vuole dirci che gli somiglia.»

«Somiglia?» ripeté il baffo biondo.

«Che Heming è qualcuno a cui si paragona: ’Prendetemi sul serio’, capite?»

Nuovo silenzio in sala, mentre metabolizzavano le parole di Mia.

«Heming non aveva parenti, vero?»

La donna questa volta.

«No» rispose Munch. «Né moglie, conviventi, figli, nemmeno fratelli e sorelle.»

«E sappiamo per certo che è morto?»

Il baffo biondo. E la domanda rimase sospesa nella sala come un soffio d’aria gelida con il quale nessuno sembrava voler avere a che fare.

Non Gabriel, almeno.

Klaus Heming?

Vivo? No... è...

Sebbene non fosse stato condannato a morte, la Norvegia intera aveva emesso un sospiro di sollievo il giorno in cui si era saputa la notizia. Klaus Heming si era tolto la vita. Si era impiccato con i lacci delle proprie scarpe nel reparto d’isolamento.

Giustizia era fatta.

Era così che era stata percepita la cosa.

«Per lo stato norvegese e tutti coloro con cui ho parlato, Klaus Heming è morto e sepolto per sempre nel cimitero del Nostro Salvatore» disse Munch.

«Ma...» riprese il moro.

«Ci atteniamo alla teoria due» lo interruppe Munch secco. «Sta usando Heming per dirci qualcosa. Sta cercando di mostrarci che fa sul serio.»

«Sì, ma...» proseguì il biondo.

Munch lo ignorò e prese a sfogliare gli appunti che aveva davanti. Si passò una mano sulla fronte, all’improvviso apparve stanco.

«L’impresa di pulizie» venne in aiuto Mia.

«Sì, ecco, appunto» disse Munch. «Il misterioso Karl Øverland è stato uno di quelli che chiamano ’lavoratori giornalieri’. Se l’escalation continua e ci sono altre vittime, può darsi che siano scelte in base ai luoghi in cui ha lavorato. Può essere così oppure no, non è detto.»

Rifletté un istante.

«Magari non sono le vittime a essere prese da lì, ma possono comunque essere utilizzati i luoghi, in un certo modo.»

«Anche il lago di montagna?» obiettò il moro con tono dubbioso.

«Stiamo pensando più che altro all’Opera» intervenne Mia. «Quella ditta faceva le pulizie all’Opera? Non abbiamo controllato, vero Holger?»

«Lo facciamo ora, senz’altro» mormorò Munch massaggiandosi lievemente gli occhi.

«Sappiamo che uno dei clienti era l’Hotel Lundgren. Magari anche l’Opera? Altri luoghi? Siamo in grado di individuare e proteggere eventuali nuove vittime?»

Mia gettò un’occhiata verso il moro, che annuiva.

«Sono assolutamente d’accordo.»

«Bene» disse Munch, guardando l’assemblea. «Ludvig?»

«Identikit di questo Karl Øverland, all’Hotel Lundgren e all’impresa di pulizie.»

«Ottimo, Ylva?»

Munch si guardò intorno, ma lei non c’era.

«Sta dormendo» intervenne Anette. «Ma l’ho messa a controllare tutte le telecamere, in tempi rapidi dovremmo per forza trovare qualcosa, quest’uomo non è un fantasma.»

«Bene» disse Munch. «Gabriel?»

«Il telefono di Kurt Wang e il pc, controllo tutto anche su Vivian Berg, social network eccetera.»

Munch appariva davvero stanco adesso, sembrava quasi non aver afferrato quanto era stato detto.

«Ok, bene, Jon?»

Silenzio.

«È un po’ che non abbiamo notizie di Curry» disse Anette. «Non ho idea di dove sia. Riproveremo.»

«Va bene, devo fumare. Anette è il nostro snodo. Tutto quello che troviamo passa attraverso lei fino a me, intesi?»

Segni di assenso nell’assemblea mentre tutti cominciavano ad alzarsi.

Gabriel entrò nel suo ufficio, stava per chiudere la porta quando all’improvviso Mia si infilò nella stanza.

«Ho bisogno di una cosa da te.»

«Certo, che cosa?»

«Lo psichiatra. Ritter. Ho bisogno di accedere al suo database.»

«Che vuoi dire?»

Mia abbassò la voce e si guardò alle spalle.

«Tutto quello che ha. Tutti gli altri. Gli altri pazienti. Ce la fai?»

«Intendi hackerare il suo sistema?»

«Sì...»

«Non lo so» rispose Gabriel mentre un esausto Munch passava alle loro spalle con una sigaretta all’angolo della bocca. «Hackerare l’ospedale psichiatrico di Blakstad? Eh, ciao! Infrangere tutte le regole stabilite dal Garante per la protezione dei dati personali? Probabilmente perderei il lavoro e mi beccherei dieci anni di prigione, oltre al fatto che Munch mi ammazzerebbe. Non possiamo limitarci a cercare per le vie consuete?»

«Tu credi» ribatté Mia, «che ci daranno l’accesso?»

«No» rispose Gabriel.

«E comunque non si tratta di Blakstad, non ti chiederei mai una cosa simile.»

«Ah, no? E allora?»

«Ha uno studio privato su a Ullevaal Stadion. Mi basta che recuperi i suoi pazienti là.»

«Non Blakstad?»

«No, solo il suo studio privato.»

Mia sorrise reclinando il capo.

«Sì, ma... cazzo, Mia...»

«Grazie» ammiccò Mia, accarezzandolo sul braccio. «Mi chiami quando ci sei?»

«Sì, ma, per la miseria, non si può...» cominciò Gabriel, ma Mia aveva già tirato fuori il telefono dalla tasca del giubbotto di pelle e stava uscendo dalla stanza.