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Ellen Iversen sedeva nella sua auto fuori della scuola media Morellbakken pentendosi di aver invitato così tanta gente. Quarant’anni. Davvero era una ricorrenza da festeggiare? Guardò rapidamente la propria immagine riflessa nello specchietto e si sentì vecchia. Sembrava così stanca, le borse sotto gli occhi, la pelle era quasi grigia, gli occhi rossi agli angoli. Sembrava che non dormisse da una settimana. Porca miseria, perché mi sono impelagata in questa storia proprio adesso? Stavo così bene, no?

L’aveva incontrato al negozio. Uno degli insegnanti della scuola. Non ci aveva fatto molto caso, un giorno normale, un cliente come tutti gli altri.

«Come posso aiutarti?»

«Sto cercando delle sedie da cucina.»

«Hai già in mente qualcosa in particolare?»

«Magari Arne Jacobsen, le avete?»

«Certo.»

«Ma quelle che sono in vetrina, di chi sono?»

«In realtà quelle le ho disegnate io.»

«Davvero?»

Adulazione. Era così semplice? Gli erano piaciute le sue sedie. E il tavolo da salotto che aveva fatto lei. Anche le lampade. Aveva comprato quasi tutta la sua collezione.

Con uno stipendio da insegnante? All’inizio ci aveva pensato, doveva riconoscerlo, le sue creazioni non erano a buon prezzo. Ma poi lui aveva detto che era morta sua madre e che aveva ereditato del denaro e allora lei si era sentita in colpa per essere stata così meschina.

Buon Dio, adesso ripigliati.

Basta.

Così non va.

Ellen Iversen gettò uno sguardo all’orario sul telefono e sentì che cominciava a irritarsi. L’una e quaranta? L’appuntamento dal dentista era di lì a venti minuti, e ci voleva almeno un quarto d’ora per arrivare. Si erano detti alle tredici e trenta? Prese l’iPhone e provò a chiamarlo. Di nuovo. Ancora nessuna risposta. Quanti messaggi gli aveva inviato? Cinquanta? Risposte? Zero.

Gli adolescenti.

Suo figlio Ruben aveva appena compiuto quattordici anni, aveva implorato finché era riuscito a farsi regalare l’ultimo costosissimo modello di smartphone, e adesso non era neanche capace di rispondere quando lei lo chiamava? No. Non riusciva a mantenerlo carico a sufficienza perché lei potesse contattarlo? Non riusciva a pagarsi le ricariche come si erano accordati? No. Riusciva almeno a tenere in ordine la sua camera, aiutare a casa, portare fuori la spazzatura, fare qualsiasi cosa in modo da non farla sentire un’idiota quando gli dava del denaro? No.

Scrollò la testa e provò a richiamarlo, ancora invano.

Gli adolescenti.

Il dentista. Perché non poteva andarci da solo dal dentista?

«Com’è andata oggi dal dentista, Ruben?»

«Dentista?»

Stesso dialogo due settimane dopo.

«Com’è andata oggi dal dentista, Ruben?»

«Eh, cosa?»

Prendo un permesso al lavoro.

Vengo a prenderti a scuola.

Abbiamo appuntamento alle due.

Ancora?

Devo scrivertelo sulla mano?

Ellen Iversen sospirò e tirò fuori il rossetto dalla borsa. Era un capello grigio quello che aveva visto allo specchio? Un altro? Doveva tornare dal parrucchiere? Ci era appena stata. In realtà se ne infischiava di qualche capello grigio. Erano pure belli. Naturali. Anche il rossetto, che però non usava mai molto. Le sue labbra erano bellissime così com’erano. Si fece coraggio. Sono seduta fuori dalla scuola per prendere mio figlio e me ne sto qui a farmi bella perché lui lavora lì dentro? Non è da te, Ellen. Sei sposata. Sei felicemente sposata.

Be’, felicemente fino a un certo punto. Ellen Iversen uscì dall’auto e cominciò a camminare verso l’ingresso della scuola. Non era infelice, no, eppure c’era qualcosa. Noia? Era così semplice?

Tutta la vita era stata così... piatta.

Le mancava la fiamma, la tensione.

Cominciò a piovigginare mentre attraversava il piazzale, bussò alla porta del vicepreside.

«Buongiorno, posso aiutarla?»

«Sto cercando mio figlio, Ruben Iversen.»

«Classe?»

«9 A.»

«Vediamo. Hanno inglese con Heidi Laukvan, aula 104.»

Ellen Iversen ringraziò e si avviò lungo il corridoio. Bussò e fece capolino dalla finestrella sulla porta. Heidi Laukvan le andò incontro e mise la testa fuori della porta.

«Buongiorno, come posso aiutarla?»

«Ruben è qui? Dobbiamo andare dal dentista e a quanto pare se l’è scordato.»

La Laukvan aggrottò le sopracciglia.

«No, Ruben oggi non è a scuola.»

«Dice sul serio?»

Ellen Iversen sentì salire la rabbia con una forza tale che dovette stringere i denti.

Quel disgraziato.

Marinava la scuola?

Qualche sospetto l’aveva avuto, però...

Proprio quel giorno?

Quando dovevano andare dal dentista?

E lei si era presa un permesso?

Ma cosa credeva?

No, questa volta aveva superato la misura...

Vide Martin all’interno, attraverso il vetro.

«Posso scambiare due parole con Martin?»

La Laukvan fece un cenno e il molleggiato adolescente bighellone uscì in corridoio. Era con lui che di solito stava il figlio.

«Ma Ruben non doveva dormire da te questa notte?» domandò Ellen a denti stretti.

«Sì, ma non è venuto...»

«Mi stai dicendo la verità, Martin?» lo incalzò Ellen posandogli cauta la mano sulla spalla.

Heidi Laukvan tornò in classe e si richiuse la porta alle spalle.

«Ma certo, perché dovrei dirle una bugia?»

«Ma eravate d’accordo che avrebbe dormito da te?»

Il ragazzo annuì.

«Quindi questa parte della storia è vera?»

«Tutto è vero» insisté Martin aprendo le braccia. «Non ho idea di dove sia.»

«Non ti ha telefonato?»

«Nossignora, glielo giuro. Mi deve credere.»

«E non hai parlato con lui?»

«Ho provato un sacco di volte a contattarlo, sia su Facebook che via sms, ma non ha risposto, allora ho pensato che forse...»

«Che cosa hai pensato?»

«Che non aveva avuto il permesso. Sa...»

«Sapere che cosa?»

«No, cioè, voglio dire, lei è una avanti, ma sì, suo padre è pure...»

«Grazie, Martin, mi dispiace. Non è colpa tua, ovvio.»

Ellen Iversen si ricredette e questa volta sfoderò un sorriso smagliante.

«Quindi non sai dove sia?»

«Non ne ho idea» rispose l’adolescente scrollando le spalle.

«Ok, ma dove pensi che sarebbe se voi, sì, diciamo così, un giorno decideste di non venire a scuola?»

Il ragazzo la guardò un po’ incerto.

«A Storo, forse?» mormorò alla fine.

«Al centro commerciale?»

«Sì... oppure non so.»

«Grazie, Martin, se lo senti digli che lo sto cercando, va bene?»

«Sì, signora» disse l’adolescente dinoccolato rientrando in classe.

Centro commerciale Soro, ma tu pensa.

In pieno giorno.

Gliel’avrebbe fatta pagare.

Ellen Iversen sentì montare la rabbia mentre si avviava risoluta lungo il corridoio e camminava in fretta verso la macchina sotto la pioggia.