Jon Ivar Salem in realtà era un idraulico, ma ovviamente non era per quello che lo conoscevano a Ullersmo. Era stato condannato alla pena massima di vent’anni, stava dentro da sei, ora ne aveva quarantadue, ed era uno di quelli che stavano al secondo raggio da più tempo. Già quello gli dava sufficiente autorità perché gli altri prigionieri lo lasciassero in pace. Finché era arrivato il gruppo dei kosovari albanesi. Quegli idioti, al posto di guardare la tv, credevano di poter fottere il sistema. Facevano i gradassi. Stabilivano chi doveva fare che cosa. Ma un bel giorno Jon Ivar Salem decise che era giunto il momento di muoversi.
In realtà lui se ne fregava. Di solito non si immischiava nelle questioni di giustizia interna a Ullersmo, per la semplice ragione che in genere gli altri detenuti non osavano alzare un dito contro di lui o negargli qualsiasi cosa. Difficile da capire per la gente normale, forse. Che uomini adulti tatuati dalla testa ai piedi potessero fare a botte per una cosa banale come un pacco di salsicce o l’accesso alle docce, ma lì dentro funzionava così. Doveva scontare ancora quattordici anni. Poteva chiedere la condizionale dopo aver scontato due terzi della pena, ma mancavano ancora sei anni, quindi non c’era motivo di comportarsi bene.
Non ancora.
Presto sarebbe tornato il fuoco, e se ne rallegrò.
Era più vecchio della maggior parte dei detenuti e si considerava come una specie di padre. Il cibo che servivano là dentro era pessimo come ci si sarebbe aspettati, se gli davano il lapskaus, una zuppa di carne e patate, o qualcosa che ricordasse il pesce, potevano dirsi fortunati. In genere servivano pietanze che sembravano uscite dal didietro di un cammello. Per fortuna avevano la possibilità di ordinare quello che volevano, a proprie spese, ovvio, e lui aveva preso l’iniziativa e se ne era assunto la responsabilità. Aveva radunato un gruppo di compagni fidati, si era appropriato della cucina e adesso si sentiva quasi come un cuoco con il proprio ristorante. Serviva ogni giorno piatti che, se non proprio buoni, erano almeno commestibili, con il denaro di cui gli altri si erano privati quasi volontariamente.
Ah, le fiamme.
Come un uomo nel deserto.
Molti anni senza acqua.
Ma presto sarebbe tornato a bere.
I kosovari albanesi. Ce n’erano solo tre, condannati per contrabbando e traffico di stupefacenti, e gli idioti che governavano quel manicomio li avevano messi tutti nella stessa ala. Nient’altro che dei ragazzi. Poco più di vent’anni, grugni da bifolchi con i tatuaggi di ordinanza. Ma niente nomi femminili sul braccio, no, dovevano essere teschi, oppure lacrime in mezzo alla faccia, se necessario tutto il collo tatuato, ovviamente con qualcosa anche sulle dita: LOVE-HATE, KILL-FUCK. All’inizio Salem si era limitato a ignorarli, così come faceva con tutte le signorine lì dentro, quelli sarebbero rimasti meno di dieci anni, ma poi ci erano andati pesante con un paio di ragazzini nel sottopasso. Li avevano picchiati a sangue con pugni e scatolette di tonno dentro i calzini, avevano acquisito il controllo delle docce, della cucina e a quel punto era venuto il momento di rimetterli al loro posto.
Le fiamme.
Strisciano dentro di lui.
Gli solleticano le dita dei piedi.
Salgono fino al cavallo.
Non dormiva da giorni.
Quegli idioti si sarebbero risparmiati parecchio se solo avessero guardato la tv al momento giusto. Se avessero saputo chi era. Quanti guai avrebbero evitato. Forse in quel caso avrebbero potuto anche festeggiare il trentesimo compleanno. Ma ovviamente non era andata così. Un po’ perché non parlavano il norvegese, ma forse soprattutto perché nel 2006, mentre le cose prendevano una brutta piega, quegli idioti avevano solo tredici-quattordici anni. Si accorse che stava sorridendo, dovette sforzarsi per restare a mente fredda.
Ah, come sarebbe stato bello.
Le fiamme.
Finalmente.
Quasi non riusciva a respirare.
Fu svegliato dal cigolio del carrello della posta, poi lungo il corridoio vide il volto sorridente di Muffins. Uno dei suoi compagni più stretti lì dentro. Tatuato, di Trøndheim, stava lì per le stesse ragioni della maggior parte dei giovani che si trovavano in prigione, droga, violenza, spesso entrambe le cose.
«Per me?» domandò Salem sorpreso guardando il pacco che Muffins gli aveva appena consegnato.
«Yess» sorrise l’altro pulendosi i denti con un dito sozzo. «Che hai, una donna?»
«Non che io sappia» sorrise Salem un po’ incuriosito.
Non ricordava più quand’era stata l’ultima volta che aveva ricevuto qualcosa.
Il pacco era aperto, ovviamente, ma non riusciva a vedere che cosa ci fosse all’interno. L’avevano richiuso e avevano scritto sopra come al solito CONTROLLATO con goffe lettere blu sulla carta marrone.
«’sto pacco ha quasi fatto impazzire le guardie» sogghignò Muffins, guardandosi intorno nel corridoio.
«Ah, sì?»
«Hanno discusso per un bel po’ prima di decidere di consegnartelo.»
«Allora, che cos’è?»
«E che ne so, credi mi lascino guardare? Io consegno e basta. Siamo d’accordo, tra l’altro?»
L’ultima domanda la bisbigliò a labbra socchiuse guardandosi le spalle. Non che ce ne fosse bisogno, in corridoio non c’erano guardie. Era raro ce ne fossero laggiù, a meno che bisognasse aprire o chiudere o qualcuno dovesse andare al cesso dopo l’orario di chiusura.
Le risorse del regno venivano impiegate altrove.
Lì dentro regnava una selvaggia libertà.
Non poteva andargli meglio.
Era tempo di agire.
Fiamme sulla pelle.
«Sì, assolutamente» disse Salem senza distogliere lo sguardo dal pacco.
«Dopo pranzo? Nel sottopasso?»
«Sì. Quei cretini giocano a basket fino all’una. Li becchiamo dopo.»
«Bing-bing, sarà un divertimento, fin dove ci spingiamo, finiamo al P o cosa?»
Salem lanciò un’occhiata severa al giovane di Trøndheim.
«Fino in fondo, ovviamente.»
«Cazzo, Jon, mi mancano solo sedici mesi, non posso commettere un omicidio, lo capisci, vero?»
«Chi ha detto che devi compierlo tu?»
Il giovane pusher spalancò gli occhi.
«Te ne occupi tu?»
«Voi fate la guardia, al resto ci penso io.»
«Fantastico!» sorrise Muffins alzando la mano di slancio per quello che sicuramente doveva essere un high-five o qualche altro saluto idiota che i ragazzini si scambiavano tra loro, ma Salem non lo degnò di uno sguardo e la mano rimase ferma per aria.
«Voi vi farete un paio di giorni al P, al massimo.»
«Li reggeremo, dov’è il problema?»
«Ehi, cazzo, Muffins, che state facendo lì, vi state sposando? Vieni, dai!»
Grida impazienti in fondo al corridoio. Era la vigilia di Natale per la maggior parte dei detenuti al secondo raggio, quando arrivava il carrello della posta.
«Tranquilli, vengo, per la miseria.»
Muffins sospirò, ammiccò un’ultima volta e proseguì verso gli altri detenuti in attesa.
Un pacco?
Salem chiuse la porta della sua cella e si sedette fremente sulla sedia della piccola scrivania. Aprì cauto l’involto, ma non capì granché quando vide quello che c’era dentro. Un anello d’oro e una breve lettera.
Caro Jon Ivar Salem, tu non mi conosci, ma ti chiedo ugualmente se puoi farmi un favore. Conserva questo anello, presto verrà qualcuno a prenderlo. Sarai ricompensato. Grazie per l’aiuto.
Nessuna firma.
Che diavolo era? Strano. Se non ci fosse stato scritto sopra il suo nome sarebbe stato certo che si trattasse di un errore. Salem estrasse l’anello dalla minuscola scatola, scintillava debolmente sotto la luce della lampada della scrivania. Girò e rigirò la carta entro cui era stato impacchettato, ma dentro non c’era nient’altro. Strano. Ma chi se ne importava. Certo che poteva badare a un fottuto anello. Un compenso in cambio? No problem.
Presto brucerà di nuovo.
Domattina presto.
Jon Ivar Salem sorrise tra sé, infilò l’anello d’oro sotto il cuscino e si stese sul letto per riposare un po’.