Mia fu svegliata da una voce nota che cantava e si trascinò sbadigliando dal letto estraneo alla cucina.
«Raggio di Luna» sorrise Charlie Brun stringendola in un forte abbraccio. «Ma guarda, questo sì che si chiama sonno. Colazione?»
«Che diavolo mi hai dato?» Mia sbadigliò lasciandosi cadere di peso su una sedia.
Charlie era gongolante, come al suo solito, e quel giorno indossava un lungo abito verde svolazzante con sopra un grembiule dove c’era scritto KISS THE CHEF.
«Uova? Bacon?» Sorrise, fascinoso, sollevando la padella dal fuoco.
«No, per me no» mormorò Mia. «Che ore sono?»
«Niente cibo? Ma dovrai pur mangiare qualcosa! Non hai quasi carne nelle gambe.»
Charlie si mise a danzare davanti a lei riempiendole un piatto.
«Ho anche delle salsicce. Ne vuoi?»
«Per colazione?» Mia sbadigliò.
«Perché no? Gli inglesi ne vanno pazzi. Ti ho detto che sono stato a Londra la settimana scorsa? A un musical? Lion King. Un capolavoro. Fantastico. Dio, quanto ho pianto. Non è bizzarro come succedano queste cose?»
«Cosa?» disse Mia infilando in bocca una fetta di bacon.
«Che degli adulti piangano per cose che in realtà sono state scritte per bambini!»
«Con te non c’è da stupirsi di nulla, Charlie.» Mia sentiva che stava lentamente tornando al mondo.
Qualcosa per dormire.
Si era precipitata attraverso le porte del suo club, alla disperata ricerca di qualcosa con cui stordirsi, un drink, qualsiasi cosa, e lui parlando pacifico l’aveva distolta da quell’idea.
Per fortuna.
Non una goccia di alcol.
Qualcosa per dormire, semplicemente.
Mia allungò le braccia contro il soffitto e lasciò vagare lo sguardo nel piccolo e confortevole appartamento.
«Hai dato una ripulita?»
«Sì...» rispose Charlie con un sorrisone. «Tutto nuovo. Moquette, mobili, nuovo colore alle pareti. Feng shui. Ogni tanto bisogna cambiare quello che ci sta intorno, altrimenti si muore dentro, tu non credi?»
Charlie, in piedi accanto al frigorifero, si portò un dito contro la tempia.
«Con che cosa vuoi accompagnare il bacon? Vediamo, ho succo, smoothie...»
«Solo dell’acqua, grazie. Se non hai un po’ di caffè...»
«Caffè? Ah, indovina un po’? Una macchinetta nuovissima. Ultramoderna. Io e George Clooney, sai? Lui è un uomo che potrebbe piacermi. Sapevi che in realtà gli piace vestirsi come me?»
Charlie sollevò prontamente davanti a lei un vassoio di capsule.
«Arabica? Linizio? Kazaar?»
«Qualcosa di forte» mormorò Mia.
«Ristretto» disse Charlie. «Con una combinazione dei migliori chicchi di arabica sudamericani e un po’ di robusta per un’intensità extra.»
Tenne sollevata la capsula davanti a lei in una posa plateale protendendo lievemente le labbra.
«Le vendi?» chiese Mia infilando una fetta di pane sotto l’uovo al tegamino.
«Il nuovo volto della Nespresso» disse Charlie inclinando il capo. «Che te ne pare?»
«Perfetto» ridacchiò Mia.
«George e io» disse Charlie sollevando seduttivamente le sopracciglia.
«Te lo sei inventato, vero?»
«Che cosa?»
«Che anche a lui piace vestirsi da donna...»
«Nei miei sogni, Mia» ammiccò Charlie pigiando il pulsante della macchinetta del caffè. «In ogni caso me lo piglio volentieri così com’è. Acqua, hai detto?»
«Sì, grazie» mormorò Mia.
Aveva la bocca asciutta. Anche un velo dietro agli occhi, ma stava per andarsene.
Lui l’aveva distolta.
Qualcosa per dormire, nient’altro.
Grazie a Dio.
Charlie Brun era un angelo.
«Hai portato anche la famiglia, vedo» disse Mia mentre le veniva servito il caffè.
«Già» rispose Charlie, un po’ triste, guardando la parete alle spalle di lei. «Non è stato così facile per loro, tutto questo. Il piccolo Charlie, un bambino così promettente, sai che giocavo a hockey su ghiaccio?»
«Tu?» esclamò Mia.
«Sì, certo. Storhamar. Attaccante. Ero anche bravo.» Quattro fotografie, ben incorniciate. Volti di adulti sorridenti, un bambino rotondetto nel mezzo, da un tempo che non c’era più.
«Bei ricordi» disse Charlie un po’ assente.
«Hai ancora contatti con loro?»
«Ho scritto una lettera a mio padre qualche tempo fa. È anziano adesso, sai com’è. Gli piace ricevere la posta. Credo, almeno. Non che lo volessi sapere, ormai è passato qualche anno.»
«E?»
«Nessuna risposta purtroppo» sospirò Charlie. «Ma valeva la pena tentare. Buono il caffè?»
«Perfetto» rispose Mia guardando l’orologio sopra i fornelli. «Ah, cazzo!»
«Che c’è?»
«Quasi l’una e mezzo?»
«Sì...?» disse Charlie.
«È tardissimo» disse Mia alzandosi di scatto. Si batté la tasca dei pantaloni, ma lì non c’era.
«Il mio telefono?»
«Ce l’ho qui» mormorò Charlie e scomparve.
Maledizione.
Aveva dormito così tanto?
Finì il caffè in piedi mentre Charlie tornava.
«Indaffarata?»
«Purtroppo» mormorò Mia.
Un sacco di chiamate.
Gran parte di Munch.
Pigiò rapida su una di esse.
«Mia?» rispose il barbuto brontolone dall’altra parte. «Dove sei?»
«Scusa» mormorò Mia. «Ho dormito. Sto arrivando.»
«No, no» disse Munch. «Vengo io.»
«Cosa?»
«Vengo io» ripeté Munch con uno strano tono nella voce. «Dove sei?»
«Qual è l’indirizzo qui?» domandò Mia con una mano sopra il ricevitore.
«Tøyenbekken 9.»
«Tøyenbekken 9» disse Mia.
«A Grønlandsleiret?»
«Sì. È successo qualcosa?»
Munch non rispose.
«Holger?»
«Vengo lì, ok?»
«Ok.»
«Sono per strada» disse Munch, e riagganciò.
«Già te ne vai? Ma se non hai quasi toccato cibo...»
«Devo scappare» disse Mia infilandosi il telefono in tasca.
«Promettimi di non far passare di nuovo tutto questo tempo, allora.»
Charlie la afferrò leggermente per le spalle e le diede un bacio su ogni guancia.
«Va tutto bene, Raggio di Luna? Lo sai che sono sempre qui, se hai bisogno di qualcosa...»
Ora la guardava con uno sguardo un po’ preoccupato, non voleva mollare la presa.
«Sto bene» disse Mia. «Mille grazie per ieri, Charlie. Sei un tesoro, lo sai?»
«Ah, ci provo...»
«Il mio giubbotto?»
«In fondo al corridoio. Chiamami, ok? E fa’ attenzione, là fuori.»
«Lo farò, mamma, grazie ancora.» Mia sorrise abbracciandolo di nuovo con forza, poi voltò i tacchi e corse giù per le scale.