53

Si era vociferato a lungo di un nuovo centro di intervento top secret. Il mondo era cambiato. Il pericolo non veniva più da un luogo preciso oltrecortina, dove si annidavano temibili generali con le dita puntate su bottoni rossi, ma da azioni terroristiche realizzate con bombe di chiodi fatte in casa, aerei dirottati, camion rubati scagliati sulla folla. Obiettivi civili, una cosa impensabile solo qualche anno addietro, il che peraltro implicava l’impossibilità di difendersi. Anche se finora la Norvegia era stata risparmiata da azioni di presunta matrice islamica, l’attacco ai palazzi del governo e nondimeno la tragedia al campus di cui Munch non riusciva nemmeno a parlare, avevano spinto persino gli ingenui politici norvegesi a comprenderne la serietà. Munch in realtà non credeva che avessero fatto davvero qualcosa. Come al solito si erano limitati alle chiacchiere, a discutere piani di azione a tavolino nei comitati parlamentari che lavoravano a rilento, ma quando uscì dall’ascensore per entrare nell’ipermoderna sala operativa, dovette ammettere di essersi sbagliato.

Al di sotto dei locali del dipartimento di Giustizia in Myntgata 1. Con misure di sicurezza che non aveva mai visto prima. Se non fosse stato così freddo e fondamentalmente scettico nei confronti dei signori che stavano in alto, in realtà si sarebbe spinto ad ammettere che era impressionato. Ascensori con codici lunghissimi. Check point con perquisizioni. Porte con ulteriori codici, metaldetector sorvegliati da giovani soldati in uniforme. Infine raggiunsero una grande porta in metallo in cui furono invitati a deporre il cellulare, cosa che irritò Munch, ma ovviamente non si poteva che obbedire. Un giovane elegante digitò un nuovo codice su un pannello su cui ora lampeggiava una luce verde, e infine entrarono.

Un grande tavolo ovale. Uomini dai volti seri, qualcuno in uniforme, la maggior parte in completo, cravatte neutre su camicie bianche e azzurre. Munch passò rapidamente in rassegna la stanza per vedere se conosceva qualcuno, ma non riconobbe nessuno dei presenti.

«Generale Edvardsen» disse un uomo ritto e distinto con i capelli brizzolati avanzando verso di loro.

Una grande mano che si sollevava, una stretta decisa.

«Siete Munch e Goli?»

Munch annuì. Anche Anette Goli. Se Anette si sentiva a disagio nell’essere l’unica donna nella stanza, non lo dava a vedere. Le donne generalmente erano rappresentate in tutte le alte cariche del paese, ma la parità di diritti a quanto pareva non era arrivata alla cantina di Myntgata 1. Il generale fece un rapido cenno in direzione del tavolo e diede avvio alla riunione, tornando al grande schermo che copriva l’intera parete alle sue spalle. FST. PST. Un rappresentante dell’ufficio del premier. Diversi generali di svariati rami della Difesa. Munch si sentì all’improvviso un po’ a disagio. I suoi pantaloni di velluto erano macchiati in diversi punti e il suo montgomery aveva visto giorni migliori.

«Signori» esordì Edvardsen mentre venivano smorzate le luci nella grande stanza, «sapete tutti perché ci troviamo qui. Alcuni hanno maggiori informazioni, e continuerà a essere così, inutile dire che tutte le informazioni in questo caso sono NTK. Se ci sono domande, le porremo alla fine, prima vorrei ripercorrere il corso degli eventi come si è svolto durante la giornata e le diverse iniziative che abbiamo messo in atto.»

Segni di assenso intorno alla tavola.

Sull’enorme schermo apparve una fotografia.

«Oggi, poco dopo le ore undici, abbiamo ricevuto un avvertimento da parte di quest’uomo, Erik Rønning, dell’Aftenposten. Per nostra fortuna questo giornalista aveva la testa a posto, è stato contattato immediatamente il dipartimento e nell’interrogatorio a riguardo ci ha detto che l’informazione non è arrivata ai suoi superiori del giornale. Sembra dunque che per il momento abbiamo noi il controllo. Non è necessario sottolineare quanto ciò sia importante, come vi ho detto è tutto NTK, e faremo il possibile per tenere fuori i cittadini. Ciò che non sanno, non può far loro del male. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno adesso è il panico nelle strade.»

«NTK?» bisbigliò Munch chinandosi verso la Goli.

«Need To Know» mormorò Anette senza guardarlo.

«Rønning è stato contattato da quello che abbiamo ragione di considerare uno dei nostri uomini e gli è stata consegnata una lista di cinquanta nomi.»

Nuova immagine sullo schermo e movimento intorno al tavolo mentre venivano distribuiti dei fogli. Munch guardò curioso lo schermo e poi la lista che aveva davanti. Cercò immediatamente i nomi che conosceva, ma fortunatamente non li vide. Miriam Munch. Marion Munch. Egoistico e non professionale, forse, ma gli era venuto d’istinto.

«Come tutti ben sapete, nell’ultima settimana sono avvenuti dei fatti che consolidano l’autenticità di questa lista. I nostri amici della Omicidi di Mariboes gate lo sanno meglio di chiunque altro, è appunto per questo che sono qui, nel caso qualcuno di voi si stesse chiedendo perché abbiamo a questo tavolo la polizia di Oslo.»

Rapidi sguardi rivolti a loro. Munch fece un cortese cenno di assenso col capo.

«Magari possiamo avere un rapido aggiornamento per tutti coloro che non conoscono i dettagli di questi omicidi?»

Edvardsen li guardò.

«Sì» disse Munch e si schiarì la voce.

Valutò un istante se alzarsi, ma rimase seduto, il generale sembrava già fin troppo impaziente.

«Abbiamo tre vittime» cominciò Munch e si schiarì nuovamente la voce. «Vivian Berg. Ventidue anni, ballerina. Trovata in un lago di montagna dopo qualche ora.»

«Con un numero, è corretto?»

«Esatto» disse Munch. «Il numero quattro, inciso nella...»

«Come potete vedere» lo interruppe Edvardsen, «questa Berg è la numero quattro della lista.»

«Sì» continuò Munch. «Le altre vittime sono Kurt Wang...»

«Numero sette della lista» confermò Edvardsen. «E l’ultima?»

«Ruben Iversen, quattordici anni. Trovato nel bagagliaio di un’auto alla Caserma di Skar.»

«Con il numero?»

«Tredici» rispose Munch.

«E anche questo corrisponde a quanto è stato consegnato a Rønning» disse Edvardsen guardando lo schermo. «Avete trovato qualche connessione tra le vittime?»

«No» disse Anette Goli. «È stata questa la cosa che ci ha sorpresi di più. La casualità. Fino a che...»

Fece un cenno col capo verso il foglio che aveva davanti.

«Cinquanta nomi» disse Edvardsen deciso. «Civili a caso, cittadini norvegesi. Tre di loro già uccisi. Non c’è quindi ragione di credere che questa minaccia non sia reale, e per ordine dell’ufficio del primo ministro abbiamo preso dei provvedimenti.»

Il generale bevve un sorso dell’acqua che stava davanti a lui sul tavolo e proseguì.

«Secondo la dichiarazione di Rønning, l’assassino indossava abiti in parte militari, ha nominato Lashkar Gah, in Afghanistan, e pare che il movente sia chiaro. Si tratta molto verosimilmente di una vendetta, tornerò a breve sulle cause, ma sono felice di potervi dire che abbiamo già identificato un sospettato.»

Edvardsen si voltò mentre appariva sullo schermo una nuova fotografia.

Un sospettato?

Di già?

Munch si girò verso la Goli, che sollevò le sopracciglia. Non gli piaceva quella gente, doveva confessarlo, ma in quel caso non c’era che da togliersi il cappello. Erano trascorse solo poche ore da quando Rønning si era risvegliato a casa.

«Torno a ricordarvi che stiamo parlando di un’informazione estremamente sensibile. È top secret, al massimo grado, nessuna pubblicità. In nessuna circostanza, ripeto, in nessuna circostanza, ciò che sto per dirvi deve uscire da questa stanza.»

Edvardsen non guardò loro direttamente, ma era evidente a chi si stesse rivolgendo.

«Abbiamo forze attive in Afghanistan? Ufficialmente no. I nostri uomini partecipano soltanto a operazioni di sostegno alle Nazioni Unite. Non ufficialmente? Sì. Non stiamo a guardare mentre i nostri alleati sono in guerra. Ripeto: quanto vi sto dicendo non deve uscire da questa stanza, è chiaro?»

Edvardsen alzò lo sguardo come per accertarsi che avessero capito che stava parlando seriamente. Goli annuì in risposta e alla fine, controvoglia, lo fece anche Munch.

«Bene» brontolò il generale mentre appariva una nuova immagine.

Un giovane in uniforme che guardava il fotografo con gli occhi socchiusi. Armato fino ai denti. Sullo sfondo, un paesaggio desertico.

«Riteniamo che questo sia il nostro uomo» proseguì Edvardsen.

Nuova immagine. Lo stesso soldato, questa volta un ritratto d’archivio.

«Si chiama Ivan Horowitz» disse Edvardsen alzando lo sguardo. «Nato nel 1988 a Gjøvik. Ha cominciato la sua carriera militare nel battaglione del Telemark e in seguito è stato reclutato negli Alfa. Per chi di voi non sappia che cosa si intenda per Alfa, ve lo spiego nel modo più semplice. Gli americani hanno i Berretti verdi, i russi gli Specnaz, noi gli Alfa.»

Il generale non riuscì a nascondere del tutto l’orgoglio nella voce quando proiettò la nuova immagine sullo schermo.

«Afghanistan. La regione Nord. Gli americani avevano messo in atto un’operazione in grande stile detta Endurance, e noi eravamo coinvolti con una piccola squadra di sei soldati, tutti Alfa. Uno di questi era il nostro uomo, Ivan Horowitz. Non entrerò nei dettagli, come vi dicevo prima sono informazioni NTK, ma comunque vi è ragione di credere che ciò che è accaduto lì sia all’origine della situazione di crisi che oggi stiamo affrontando. Un’azione di vendetta, per una sorta di odio nei confronti della nazione norvegese.»

Edvardsen bevve un altro bicchiere d’acqua.

Ancora paesaggio desertico. Cime brunastre.

«Primavera 2010. Gli Alfa erano impegnati in quella che doveva essere un’operazione di routine, quando all’improvviso sono caduti in un’imboscata. Ne abbiamo perduti cinque. L’unico sopravvissuto è stato Ivan Horowitz. Non è ancora del tutto chiaro quel che è accaduto, ma secondo il racconto dello stesso Horowitz, è stato svegliato da un’esplosione improvvisa. Schegge di bomba nel petto e nello stomaco e una gamba rotta. I dieci giorni successivi li trascorre in una grotta nelle montagne. Beve la propria urina. Mangia, forse, questo non è sicuro, comunque alla fine riesce a trascinarsi su una strada nelle vicinanze, dove viene raccolto da una pattuglia.»

Edvardsen guardò serio l’assemblea, poi proseguì.

«Dopo un debriefing e una permanenza all’ospedale da campo, è stato rispedito in Norvegia, dove la sua carriera militare attiva è finita. Gli diamo una medaglia, cerchiamo di aiutarlo nella transizione lavorativa, gli offriamo un impiego in un ufficio, ma Horowitz non è più lo stesso. Vuole contattare la stampa, si sente vittima di un’ingiustizia, ha perduto tutti i suoi amici, la gente deve sapere quello che sta succedendo: avete capito. Alla fine dobbiamo licenziarlo. Lo seguiamo da vicino per aiutarlo in caso di bisogno, ovvio, ma anche per tenerlo d’occhio.»

Edvardsen pigiò di nuovo il pulsante.

«2011. Horowitz viene ricoverato nel reparto psichiatrico del Blakstad. Viene dimesso all’inizio del 2012. E fa sparire le proprie tracce. Nessun prelievo dal suo conto. Nessuna transazione elettronica. È come se Ivan Horowitz non esistesse più. Qualcuno ipotizza che si sia tolto la vita, ma il corpo non viene ritrovato. Chiudiamo il fascicolo. E arriviamo ai giorni nostri.»

«Nuova identità?»

Una voce tagliente sopra una cravatta blu.

«Molto probabile» disse Edvardsen.

«E l’odio è reale, incontenibile...»

Una nuova voce tranquilla, cravatta grigia.

«Temo proprio di sì» disse Edvardsen. «I rapporti dei nostri psicologi mostrano che già subito dopo il rientro a casa aveva dato segni di un preoccupante comportamento distruttivo.»

«Il tempo è poco. Procediamo» disse all’improvviso un uomo anziano dall’altro lato del tavolo facendo un cenno quasi impercettibile a Munch e alla Goli.

«Già» mormorò Edvardsen. «Munch e Goli, giusto?»

Munch annuì.

«Ovviamente abbiamo dato il via a un’azione di ricerca di Ivan Horowitz in piena regola, ma ora entrate in scena voi.»

Un cambiamento nella voce, un ordine, all’improvviso. A Munch non piacque, ma non disse nulla.

«Diamo la foto di Horowitz in pasto alla stampa. È il sospettato numero uno del caso, ma non facciamo menzione del suo passato.»

«Ascolti...» cominciò Munch, ma fu interrotto.

«Bene» disse una bocca al di sopra di un’altra cravatta. «Qualcuno dovrà averlo pur visto. Anche se si nasconde... Nessuno può essere completamente invisibile, voglio dire, magari ha un nuovo lavoro, amici, vicini?»

«Appunto» disse Edvardsen. «Ciò che speriamo è esattamente questo, che qualcuno lo riconosca. Se siamo fortunati succederà in breve tempo, prima che lui riesca a pescare un altro nome dalla lista.»

«Metteremo qualcuna delle potenziali vittime sotto protezione?» disse un uomo con gli occhiali sollevando il foglio. La prima osservazione che recasse tracce di umanità.

«Ovviamente ci abbiamo pensato» rispose Edvardsen. «Ma come? Vedete, la maggior parte dei nomi sono assolutamente comuni. Nils Olsen, Janne Andersen, di quante possibili vittime stiamo parlando? Non abbiamo i mezzi. Purtroppo. A quanto pare non si può fare.

«Allora» continuò gettando uno sguardo su di loro, «per quanto riguarda la polizia: Ivan Horowitz è ufficialmente il sospettato. È tutto ciò che possiamo rendere noto senza destare il panico. Sospettato di triplice omicidio. È per questo che lo stiamo cercando. Il discorso regge. E forse ci procurerà quel che ci serve per trovarlo. Abbiamo impiegato tutte le nostre risorse nel caso, naturalmente, ma questo è il prossimo punto. Tutto chiaro, Goli?»

Anette annuì.

«Vi manderemo quello che vi serve. Per il resto business as usual, ok?»

Anette annuì di nuovo.

«È opportuno che informi la mia squadra su quanto ci siamo detti?» domandò Munch.

«Solo sul fatto che lui è il sospettato.»

«Come faccio a...»

«Ci penserete voi» tagliò corto Edvardsen chiaramente già con la testa al prossimo punto dell’agenda.

Il giovane che li aveva accompagnati entrò quasi impercettibile nella stanza.

«Vi accompagno fuori.» Sorrise con gentilezza accennando alla porta aperta.