Hege Anita aveva solo sette anni, ma della vita aveva già capito molto di più di quanto gli adulti credessero. Gli assistenti sociali della Protezione dell’infanzia, per esempio, erano persone pericolose. Rubavano le bambine alle loro mamme. Quando arrivavano bisognava rimanere in silenzio assoluto e non aprire, non importava quante volte suonassero. Se le cose si mettevano male, come a volte poteva capitare, bastava infilarsi le dita nelle orecchie e pensare a qualcosa di bello. Per esempio al gatto bianco che girava sempre nel parco giochi davanti al condominio, oppure canticchiare a mente una filastrocca. Magari Oh che bel castello oppure Tu scendi dalle stelle, anche se mancava ancora un bel po’ a Natale e allora sarebbero andati dalla nonna, anche se la mamma l’aveva detto pure l’ultima volta, però poi non se n’era fatto nulla.
Quel giorno il maestro l’aveva di nuovo fatta fermare dopo la scuola. Gliel’aveva chiesto ancora, ma Hege Anita aveva imparato che cosa doveva rispondere, quindi per fortuna era andata bene anche questa volta. Il maestro si chiamava Tore e aveva una specie di malattia, perché i capelli gli crescevano solo al di sopra delle orecchie e non sulla sommità della testa, però era molto simpatico. Hege Anita non riteneva che fosse una bella cosa mentire, ma non si può sempre avere ciò che si vuole in questo mondo, lo sapeva benissimo, bastava aspettare che tutto passasse.
Potresti dire alla mamma che vorrei parlare con lei?
Annuire, sorridere gentili e dire di sì.
Non è venuta all’incontro con i genitori, capisci, e non risponde al telefono.
Annuire ancora, grattarsi un po’ la gamba, forse, pensare ad altro, magari ai compagni bambini che si vedevano dalle finestre della classe mentre tornavano a casa, dove abitavano sia le mamme sia i papà, che non erano sempre via né dormivano durante il giorno.
Le hai consegnato la lettera che ti ho dato?
Contorcersi leggermente sulla sedia, magari fingendo che scappi la pipì, di solito funzionava.
Hege Anita prese le chiavi che teneva appese al collo e si chiuse nell’appartamento.
«Ciao...?»
Non un fiato.
Ma c’erano le scarpe di mamma e la giacca che usava sempre era sul pavimento, così si sentì comunque felice.
La mamma era in casa.
Urrà, avrebbe voluto gridare, non troppo forte, ovvio, alla mamma non piaceva essere svegliata quando dormiva, cosa che faceva spesso se non era al lavoro. Forse non era proprio un lavoro, ma faceva comunque delle cose per soldi, era per quello che era sempre stanca e a casa non la trovavi quasi.
C’era stato l’incontro con i genitori a scuola non molto tempo prima e le altre mamme avevano chiacchierato del loro lavoro. Una faceva il medico e salvava la vita alle persone che erano malate. Una era dentista e aiutava i bambini che avevano le carie. Un’altra lavorava con i computer, una come lavoro stava a casa, allora aveva pensato che era quasi come la sua mamma. E che la mamma avrebbe potuto essere lì anche se invece aveva detto di no e se l’era quasi presa con lei quando gliel’aveva chiesto.
«Ciao...?»
L’aveva bisbigliato, cauta, togliendosi gli stivali. Aveva corso lungo il corridoio fino al salotto, ma non c’era nessuno.
La porta della camera da letto era chiusa.
Non disturbare.
Lo sapeva benissimo, ma quel giorno? Magari quel giorno avrebbe potuto farlo visto quello che era successo.
Tore le aveva fatto i complimenti. Aveva mostrato il suo disegno a tutta la classe e parlato così bene di lei che era quasi arrossita. Aveva disegnato il nonno in macchina con la nonna seduta accanto. E il cane, naturalmente, e dietro, sul mare, aveva disegnato un peschereccio e un gabbiano. In realtà non le era sembrato granché finché il maestro non si era avvicinato al suo banco.
Stellina gialla.
Quasi non le era sembrato vero.
L’avevano detto anche gli altri in classe.
«Wow, che bello!»
«Wow, come sei brava.»
«Wow, insegni anche a me? A disegnare così?»
All’intervallo poi tutti avevano voluto giocare con lei, cosa che di solito non succedeva. L’avevano fatta stare per prima quando avevano giocato a Calcia il barattolo e in più era stata nominata capitano di una delle due squadre di baseball.
Che splendida giornata!
Il disegno era nello zaino.
Hege Anita lo tirò fuori con cura e tornò davanti alla porta.
È per te, mamma, prendilo!
Lasciò perdere.
Forse era meglio.
Hege Anita ripose il disegno nello zaino, andò in cucina e sorrise quando vide cosa c’era sulla panca. Gli Honey Smacks! C’era anche il latte in frigorifero. Mamma aveva di nuovo dei soldi, sicuramente glieli aveva dati l’uomo con la giacca militare, quello che non entrava mai, ma stava fuori in corridoio: non c’era da stupirsi allora che fosse stanca. Prese soddisfatta latte e cereali, andò in salotto e accese la tv.
Edizione straordinaria, c’era scritto in alto sullo schermo.
Hege Anita versò il latte nella scodella e alzò il volume.
«La polizia ha diffuso oggi le foto del principale sospettato del triplice caso di omicidio...»
Apparve sullo schermo l’immagine di un uomo.
Odd Squad era il programma che le piaceva di più. E il cartone animato delle bambine con i cavalli.
Non c’era nessun cavallo adesso, solo l’immagine di un uomo con un fucile e un elmetto in testa.
Aprì il pacco rosso e versò gli Honey Smacks nel latte, era divertente così, perché poteva spingere i cereali nel latte e fingere che fossero barchette con tanti passeggeri che lei avrebbe salvato con la bocca.
Infilò il cucchiaio nella ciotola quando all’improvviso apparve sullo schermo una nuova immagine che le fece spalancare gli occhi.
«La polizia sta cercando anche questa donna...»
Cosa?
Davanti a lei sullo schermo c’era l’immagine della...
Mamma?
No...
Prima una.
Poi un’altra
Sì, era proprio lei...
All’uscita da un negozio.
Con il cappellino verde.
L’annunciatrice del telegiornale stava ancora parlando, ma lei non riusciva più ad ascoltarla.
Adesso un identikit.
E poi un’altra foto.
Ma perché...?
Hege Anita si alzò di scatto e si mise a correre quanto più velocemente i calzini le consentissero sul pavimento scivoloso. Si fermò immobile davanti alla porta con il cuore che le batteva all’impazzata sotto al maglione, poi si decise e prese a bussare forte contro la porta chiusa della stanza da letto.