Curry entrò dalla porta del Lindo e Pulito di Sagene ed ebbe un leggero sobbalzo quando un campanello segnalò il suo arrivo. Merda. Non aveva i nervi completamente a posto. Tre birre e un whisky soltanto, la sera prima. Ne era stato anche orgoglioso, ma a quanto pareva il suo corpo non la pensava allo stesso modo.
«Sì?» disse un’anziana vietnamita alzando lo sguardo su di lui da dietro la reception, senza staccarsi dal lavoro a maglia.
«Polizia» dichiarò Curry tirando fuori il distintivo. «Squadra Omicidi. Il direttore responsabile?»
«Già» disse l’anziana senza accennare a volersi alzare.
«Cosa?» ribatté Curry.
«Già stati qui» rispose la signora vietnamita mentre un giovane spuntava dal retrobottega.
«Dice che siete già stati qui» sorrise il giovane ben vestito posando le mani sul bancone della reception. «Come posso aiutarla?»
«Jon Larsen, squadra Omicidi» disse Curry mostrando nuovamente il distintivo. «Mi conferma che avevate un dipendente assunto di nome Karl Øverland?»
La vecchia vietnamita sollevò gli occhi al cielo e bofonchiò qualcosa.
«Non era assunto, no» rispose il giovane ben vestito. «Lavoratore a giornata. Di che si tratta questa volta?»
«Ecco» mormorò Curry infilando la mano nella tasca della giacca.
Solo tre.
O quattro, non erano state quattro?
No, tre, si era calmato, no?
Tre birre alla spina e solo uno, forse due, whisky?
Non riusciva a ricordare bene di essersi infilato sotto il piumone di Luna, in ogni caso lei gli aveva sorriso dal cuscino quando si era svegliato.
Pieno controllo.
«Questi sono gli identikit che abbiamo fatto col vostro aiuto, giusto?»
Spiegò i fogli accartocciati e li appoggiò sul bancone.
«Sì, esatto» disse il giovane. «Perché? È successo qualcos’altro?»
«E questo?» mormorò Curry, e dovette frugare un po’ nelle tasche prima di trovare la fotografia del soldato, Horowitz.
«E questo chi è?» domandò il giovane vietnamita socchiudendo gli occhi mentre guardava il foglio.
«È questo l’uomo che era assunto qui?»
«Bah, diciamo...»
Il giovane aggrottò le sopracciglia e studiò la fotografia per un istante. La vecchia che lavorava a maglia scosse nuovamente il capo dicendo qualcosa che Curry non capì.
«Che ha detto?»
Il giovane sorrise come per scusarsi.
«Dice che è ingrassato.»
«Ah sì? Ma è lo stesso uomo? Quello che avevate... sì, quello che lavorava qui?»
«Lavoratore a giornata» ripeté il vietnamita esaminando la foto un po’ più da vicino. «Sembra più giovane, ma è Karl Øverland, sì, direi di sì.»
«Sicuro?» domandò Curry.
La vecchia alla maglia scosse ancora una volta il capo e disse qualcosa.
«La stessa persona, sì, per quanto posso vedere.»
«Mille grazie davvero» disse Curry rimettendo i fogli nella tasca della giacca.
Il Sagene Lunsjbar?
Non era proprio lì accanto?
Solo una birra piccola?
Per sbloccare la testa?
«Fateci sapere se possiamo fare altro. Sono contento di potervi aiutare.»
«Va più che bene così. Ancora grazie» mormorò Curry e aprì la porta con cautela per evitare il chiasso del campanello.
Ivan Horowitz.
Karl Øverland.
Lo stesso uomo.
Munch era stato di pessimo umore fin dal mattino, era da parecchio che Curry non lo vedeva così, ma almeno adesso la questione era risolta.
Un soldato.
Veterano dell’Afghanistan.
Da dove fosse uscito quel sospettato non ne aveva idea, ma tant’era. Avevano avuto una conferma. Lo stesso uomo. Era stato un po’ sulle spine ultimamente e sentì che quello sarebbe senz’altro stato d’aiuto. Ritornare nelle grazie di Munch. Ne aveva bisogno. Aveva penato un po’ per spiegare il taglio sulla fronte e perché non era stato al lavoro.
Il Sagene Lunsjbar?
Solo un giretto veloce.
Prima telefonare a Munch.
Dargli le buone notizie.
Tirò fuori di tasca il telefono e stava per cercare il numero quando l’apparecchio squillò.
Rimase attonito sul marciapiede quando vide il nome sul display, quasi scordò di dover pigiare il pulsante per rispondere.
«Ciao, Mia» mormorò quando finalmente fu riuscito a muovere le dita. «Dove sei? Ti stanno cercando.»
«Alla tua destra. Cinquanta metri. Proprio accanto alla chiesa. La Subaru grigia. La vedi?»
«Cosa?» mormorò Curry voltando il capo.
«Giacca blu. La vedi?»
«Ah, sì» disse Curry.
«Oltre la strada. Fuori dal 7-Eleven. La donna al telefono. Soprabito grigio. Stivaletti marroni. La vedi?»
«Di che stai parlando?» domandò Curry voltandosi.
«Fa’ finta di nulla. Comincia a camminare.»
«Che vuoi dire?»
«Cammina. Non fargli capire che li hai scoperti. Cammina verso il parco.»
Scoperti?
Curry non capiva nulla, ma fece ugualmente quel che lei gli aveva ordinato. Spostare i piedi giù dal marciapiede.
«Che sta succedendo?»
«Due cabine telefoniche rosse, le vedi?»
«Eh... sì.»
«Una panchina, la vedi?»
Curry capiva ancora meno adesso. Gettò di nuovo uno sguardo alla donna con il soprabito grigio fuori dal 7-Eleven e all’improvviso si accorse che lo stava guardando. Non a lungo. Solo un fugace secondo, poi si girò velocemente verso la vetrina.
«Mia? Ma che sta succedendo?»
«Ascoltami, Jon. Fa’ come ti dico.»
«Ok...» mormorò Curry lasciando che le gambe proseguissero sull’asfalto.
«La panchina. La vedi?»
«Sì...»
«Siedi sul lato che dà verso la chiesa.»
«Eh, ok...»
Curry lanciò un’altra occhiata alla donna con il soprabito grigio. Si era voltata verso di lui e lo seguiva con lo sguardo.
«Ora ci sei. Siediti.»
La Subaru accanto al marciapiede. L’uomo con la giacca blu stava uscendo dall’auto.
«Tasta sotto.»
Automaticamente adesso. Una mano sotto le assi di legno, dove era fissato qualcosa. Un foglio di carta.
«Tra un’ora, intesi?»
«Non capisco...» riprese Curry mentre la donna con il soprabito grigio attraversava tranquilla la strada per andare a mettersi davanti a un’altra vetrina, diritta davanti a lui.
«Entra nel 7-Eleven.»
«Sì.»
«Mostra il tuo distintivo. C’è una porta sul retro. Hai trovato il foglietto?»
L’uomo con la giacca blu stava entrando nel parco.
«Sì?»
«Spegni il telefono. Ci vediamo tra un’ora» disse Mia. Poi svanì.