Mia giaceva nel vuoto tra il sogno e la realtà senza riuscire a trovare pace in nessun luogo. Il suo corpo era sfinito, ma la testa lavorava ancora a pieno ritmo. Aveva rifiutato il magico cocktail soporifero di Charlie, non voleva perdere i sensi. Curry poteva telefonare da un momento all’altro, doveva restare sveglia, presente, trovare una via d’uscita. Munch l’aveva chiamata diverse volte andando a Tøyen, ma lei non aveva risposto. Non la potevano trattare in quel modo. Se ne andassero a quel paese, tutti quanti. Diede un’occhiata rapida ai messaggi che Munch le aveva inviato.
Nuova vittima, Paul Malley, prete. Un’altra macchina fotografica, numero 29.
Quelle parole l’avevano seguita mentre affondava nel cuscino soffice, mischiandosi con il bisogno di riposo del suo corpo.
I numeri. Quattro, sette, tredici, ventinove. Una lista di omicidi? Un po’ troppo semplice, no? Perché tutta quella messinscena della macchina fotografica? Perché incidere il numero sulla lente? Uno nuovo per ogni scena del crimine? C’erano centinaia di altri modi, no? Per segnare un numero. Scriverlo sulla parete. Sul corpo. In un certo senso non sarebbe stato anche più giusto? Perché la macchina fotografica? Stava tralasciando qualcosa di importante, se lo sentiva. I numeri sono... nella macchina fotografica. Ok. No no no. Concentrati. I numeri sono dentro la macchina fotografica. C’è una grande differenza. Sulla lente. Non all’esterno. Dimentica la macchina fotografica. La fotografia. Tieni questo a mente, Mia, non andartene ora. Questo è importante. Se premi il pulsante di scatto, il numero... una parte della foto?
Doveva essersi addormentata comunque, perché all’improvviso c’era Sigrid, sulle strade di Oslo davanti a lei. Un’ombra senza volto, soltanto, ma era lei, il braccialetto tintinnava pesante sul polso sottile, la sorella le faceva lentamente cenno di proseguire sull’asfalto umido. Vieni, Mia, vieni. Un ragazzo con un berretto giallo, all’improvviso, chino su una donna con un piumino rosso, ma poi non c’erano già più, svaniti nella nebbia. Per un istante perse anche Sigrid. Rimase ferma in piedi con il cuore in gola e una voce che non voleva lasciare la sua bocca. All’improvviso l’immagine fuggevole della mamma, poi papà. Davanti alla tomba al cimitero. In lacrime, affranti, ombre, poi all’improvviso le ricompariva davanti Sigrid e a quel punto capì dove si trovava. Era in quella cantina. Il materasso sul pavimento. Il sudicio buco in cui l’avevano trovata. La sorella si adagiava cauta a terra stringendosi il laccio emostatico intorno al braccio sottile. Mia avrebbe voluto correre disperata. Abbracciarla per proteggerla, ma il suo corpo non si muoveva. Le gambe erano bloccate. La sorella sollevava l’ago da terra e la guardava. Mia avrebbe voluto gridare a pieni polmoni, ma non aveva voce. Adesso una figura alle sue spalle. Ce n’erano diverse nella stanza. Braccia che la afferravano, la tenevano ferma, una mano sconosciuta davanti agli occhi. Panico, adesso, mentre la sorella infilava l’ago nella pelle e sorrideva triste nella nebbia.
La morte non è pericolosa, Mia.
Vieni?
Mia si mise a sedere di scatto sul letto ansimando. Il volto coperto di lacrime. Brancolò nel buio per rimettersi in piedi e prese a camminare a piedi nudi. Si trascinò in cucina, ancora con quel sogno che le pesava in corpo. Maledizione. Aprì delirante uno sportello, riempì un bicchiere d’acqua e lo vuotò. Lo riempì di nuovo e rimase in piedi tremante accanto al lavandino mentre lentamente la realtà riprendeva forma intorno a lei. Si lasciò cadere su una sedia e alla fine riaprì gli occhi.
La cucina di Charlie Brun. Ok. Bene. Un posto sicuro in cui sedersi. Era troppo stanca. Non avrebbe dovuto consentire al corpo di addormentarsi. I numeri. Una macchina fotografica. Che puntava la vittima. L’incisione sulla lente. Guarda, Mia, per la miseria, guarda! Guarda attraverso quella lente, cosa vedi, Mia?
Capisci adesso?
Gettò un’occhiata alle foto di famiglia appese alla parete sopra il tavolo della cucina. Povero Charlie. Ricordi di una vita che non era stata così semplice.
Ma...!?
Per poco non le cadde a terra il bicchiere.
Non poteva...?
Sì, cazzo, sì!
Quattro.
Una ballerina.
Sette.
Un musicista jazz.
Tredici.
Un ragazzo in costume da bagno.
Ventinove...
No, miseria, questo...
Mia si alzò così repentinamente che batté il ginocchio contro il tavolo, ma non avvertì nemmeno il dolore che la aggrediva mentre tornava di corsa in camera da letto e si vestiva febbrile. Non ricordava dove aveva messo le chiavi di Charlie, ma non importava. Si infilò di corsa il giubbotto scendendo le scale e lasciò la porta aperta.
Fuori.
Gente.
Taxi...?
Eccolo.
Si lanciò sul sedile posteriore, con uno stivale ancora a metà.
«Sofies plass 3.»
«È a Bislett, no?»
«Parta, parta. È... importante.»
«Va di fretta?»
«Andiamo! Veloce!»
«Ok» disse la voce al volante.
E finalmente svoltò allontanandosi dal marciapiede.