Capitolo terzo

Il mio compito fu comunicato da mio padre a Desi, a Thena e a me: rendermi utile. Cosí ogni giorno mi alzavo, come tutta la Servitú, prima dell’alba, e giravo per la casa dando una mano dove potevo: alimentavo i fuochi della cucina per Ella, la capocuoca, andavo a prendere il latte, ritiravo i vassoi dopo la colazione, lavavo e strigliavo i cavalli insieme a Roscoe o innestavo alberelli nel meleto insieme a Pete. C’era sempre qualche lavoro da fare, perché le necessità della casa non erano diminuite, ma la Servitú sí, e capii quindi che anche lí nella casa la Servitú poteva essere spedita verso Natchez. Io ce la mettevo tutta, specialmente quando mi accorgevo che mio padre mi guardava con la coda dell’occhio accennando un sorriso. Aveva trovato il modo di utilizzarmi.

Era l’autunno del mio tredicesimo anno di vita, quattro mesi dopo che ero stato trasferito nella grande casa. Mio padre aveva deciso di dare un ricevimento per celebrare la stagione. Per tutta la giornata una sorta di intima spossatezza si abbatté su coloro che prestavano servizio nella casa. Quel mattino presto portai le uova a Ella, il cui sorriso largo e accogliente ero giunto a considerare una porzione naturale del mattino. Ma quel giorno il naturale ordine delle cose era stato sovvertito, e cosí, quando arrivai col mio cesto di vimini pieno di uova, Ella si limitò a scuotere la testa e a farmi cenno di posarle sul tavolo dove Pete stava scegliendo delle mele da un cesto.

Poi si piazzò accanto a Pete, ruppe sei uova separando l’albume dal tuorlo e poi batté gli albumi. Parlava quasi sussurrando, senza dare libero sfogo ai propri sentimenti. – Loro non pensano a niente e a nessuno, – disse. – Pete, è sbagliato. E tu lo sai che è sbagliato.

– Sí, Ella, – disse lui. – Però ci sono cose peggiori per cui prendersela.

– Non è che me la prendo. Vorrei solo un minimo di considerazione. È chiedere troppo? Quella di stasera avrebbe dovuto essere una cenetta. Com’è che adesso hanno invitato tutta la contea?

– Lo sai come vanno le cose, – disse Pete. – Lo sai come sono messi.

– No, non lo so, – disse Ella. – Hi, prendimi il mattarello. E accendi quel fuoco.

– Ce li hai gli occhi, no? – disse Pete. – Non è piú come prima. La patina d’oro sulla contea non è piú quella che era. Le vecchie famiglie sono andate tutte a ovest. Tennessee. Baton Rouge. Natchez. Posti cosí. Non rimangono in molti. E quelli che rimangono sono tesi. Stanno col fiato sospeso. Adesso per loro una cenetta è una cosa grossa. Non sanno chi sarà il prossimo a trasferirsi. Quello di stasera potrebbe essere il loro addio.

Ella rise tra sé e sé, una risata sfrenata e beffarda, e mi venne voglia di imitarla anche se non stava succedendo niente di buffo. – Hi, quella roba là, piccolo, – disse, indicando gli scaffali. Quando mi chiamava piccolo, mi sentivo caldo dentro. Lasciai stare il fuoco, andai a prendere l’utensile per tagliare l’impasto e glielo portai. Lei stava ancora ridendo. Alzò gli occhi e mi guardò col suo sorriso largo e accogliente.

Poi il suo sorriso si spense e lei mi guardò fisso, mi guardò quasi attraverso, e disse a Pete: – Non me ne importa niente dei loro patimenti. Questo ragazzo se ne intende di addii piú di tutti loro messi insieme. Ed è solo un ragazzo.

Per tutta la giornata ci fu nella Servitú quella stessa tensione che avevo visto in Ella. Ma né mio padre né Desi se ne accorsero o ci fecero caso, e quella sera, quando le carrozze e i calessi degli ospiti cominciarono ad arrivare, noi eravamo tutti sorrisi e ossequi. Io ero stato assegnato alla squadra dei camerieri. A quel punto avevo imparato a lavarmi e strigliarmi fino a risplendere, a tenere il vassoio d’argento nella mano sinistra e servire con la destra, a scomparire nell’ombra di un angolo, venir fuori per spazzare via le briciole e poi dileguarmi di nuovo. Quando la cena si concluse, sparecchiammo e andammo ad aspettare sull’attenti nel salotto rosso ciliegia mentre gli ospiti si accomodavano su divani e poltrone.

Mi guardai intorno, incrociando lo sguardo degli altri tre ragazzi incaricati di soddisfare qualunque eventuale necessità i nostri ospiti potessero avere. Poi osservai gli ospiti, cercando di capire se avessero qualche necessità. Notai il precettore di Maynard, Mr Fields, un giovanotto troppo serio con gli occhi infossati, che sedeva in un angolo sulla sua poltrona. Era difficile restare concentrati. Mi trovai a contemplare l’abbigliamento delle donne: i cappellini bianchi, i ventagli rosa, i riccioli sulla nuca, le margherite e il velo da sposa fra i capelli. Negli uomini c’era meno da vedere: erano tutti vestiti di nero. Tuttavia pensai che erano molto belli, perché c’era della raffinatezza nel modo in cui camminavano, della grazia in ogni loro movimento, come quando aprirono le porte del bovindo e uscirono nel retro, si sporsero verso la Servitú per farsi accendere il sigaro e si misero a parlare di cose da uomini. Mi immaginai fra loro, seduto in poltrona o intento a sussurrare nell’orecchio di una signora.

Giocarono diciassette mani di carte. Bevvero otto damigiane di sidro. Mangiarono cosí tanta torta che quasi non si reggevano piú in piedi. Poi, poco dopo mezzanotte, una donna col cappellino all’indietro si mise a ridere in modo isterico. Uno degli uomini in nero si mise a rimbrottare la moglie. Un altro si assopí in un angolo. La Servitú era sempre piú tesa, una tensione sottile che sicuramente gli ospiti non percepivano. Mio padre fissava il fuoco in silenzio e Mr Fields sedeva in poltrona con l’aria annoiata. La donna smise di ridacchiare e si tolse il cappellino, rivelando una maschera di trucco striata.

Quella donna era una dei Caulley – Alice Caulley –, una famiglia che molti anni prima si era divisa in due. Metà se n’era andata in Kentucky e metà era rimasta. Mi ricordo di lei perché i Caulley che erano partiti avevano portato con sé quelli che li servivano, e fra loro c’era anche la sorella di Pete, Maddie. Io non l’avevo mai conosciuta. Ma Pete ne parlava spesso, e ogni volta che attraverso il passaparola delle persone di servizio che venivano trasferite dall’uno all’altro dei Caulley giungevano notizie su di lei – notizie secondo cui era viva e stava bene, ed era insieme alla sua famiglia – il suo volto si illuminava e rimaneva cosí per tutto il resto della settimana.

– Cantateci una canzone! – strillò Alice e, dato che nessuno rispondeva, andò da Cassius, uno dei camerieri, e gli diede uno schiaffo. Poi strillò di nuovo: – Canta, dannazione!

Era sempre cosí che andavano le cose. Quando si annoiavano, i bianchi diventavano dei barbari. Finché giocavano a fare gli aristocratici, noi eravamo i loro valletti stoici e di bella presenza. Ma quando si stufavano del decoro, emergeva quel che stava sotto. Nuovi giochi venivano escogitati, e noi eravamo i pezzi sulla scacchiera. Era terrificante. Non c’erano limiti a quel che potevano fare quand’erano in quello stato, e neanche a quel che mio padre avrebbe concesso loro di fare.

Lo schiaffo l’aveva risvegliato. Si alzò e si guardò intorno con aria nervosa.

– Su, Alice. Abbiamo qualcosa di meglio che una canzone da negri, – disse voltandosi verso di me, e anche se non aggiunse altro io capii cosa voleva.

Perlustrai la stanza con lo sguardo e adocchiai un mazzo di carte di grandi dimensioni posato su uno dei tavolini. Erano quelle che usava Maynard per imparare a leggere. Su un lato le carte riportavano tutte lo stesso disegno, una mappa del mondo conosciuto. Sull’altro, in ognuna c’era un acrobata che si contorceva in modo da formare una diversa lettera, con una breve rima sotto. Avevo sentito Maynard leggere da quelle carte durante le lezioni col suo precettore. E guardandole con la coda dell’occhio, e studiandole ogni tanto per qualche minuto, le avevo memorizzate, solo perché mi divertivano quelle buffe filastrocche. Ora le presi e mi rivolsi a Alice Caulley.

– Mrs Caulley, vi spiacerebbe mescolarle?

Lei si sporse malferma in avanti, mi prese le carte dalle mani e le mescolò. Poi le chiesi se poteva essere cosí gentile da farmele guardare. Diedi una rapida scorsa e poi gliele restituii e le chiesi di posarle sul tavolo a faccia in giú nell’ordine che voleva. Osservai le sue mani finché il piccolo tavolino non fu coperto di mappe in miniatura.

– E ora, ragazzo? – domandò lei in tono diffidente.

Le chiesi di prenderne una e mostrarla a qualcuno che non fossi io. Lei lo fece e poi si girò di nuovo a guardarmi alzando un sopracciglio. Dissi: – Con due mani e con un piè, ecco a voi la lettera «E».

A quel punto le sue sopracciglia ripresero la loro posizione naturale, e il suo scetticismo si trasformò in stizza. – Di nuovo, – disse, e prese un’altra carta, mostrandola ora a piú persone. Io dissi: – Eccomi qui tutto contorto, come una «S» se non ho torto.

Allora la stizza si trasformò in un accenno di sorriso. Sentii che intorno a me la tensione si stava allentando. Lei prese un’altra carta, la mostrò e io dissi: – Stavolta si è dovuto impegnare, ma la «C» è riuscito a fare.

Alice Caulley scoppiò a ridere, e io vidi che mio padre sorrideva a denti stretti e mi accorsi che sul volto stoico degli altri che quella sera servivano con me, e che pure stavano ancora sull’attenti, non si percepiva piú la paura. Alice Caulley continuava a girare le carte, sempre piú in fretta. Ma io stavo al passo. – Ora attenzione guardate qui, è una cosa nuova la lettera «V»… Mani in aria piedi a terra, è una «H» non si erra.

Una volta terminato il mazzo, stavano tutti ridendo, e ora anche applaudendo. L’uomo nell’angolo non russava piú, ma si guardava intorno cercando di capire il motivo di quel trambusto. Quando gli applausi si esaurirono, Alice Caulley mi guardò con un sorriso un po’ minaccioso e disse: – Cos’altro, ragazzo?

La fissai per un istante, piú a lungo di quanto avrebbe dovuto fare un uomo di servizio, e annuii. Avevo solo dodici anni, ma ero sicuro di quello che stavo per fare, un trucco che avevo provato molte volte giú nella Strada. Essendomi guadagnato la fiducia degli ospiti, chiesi loro di allinearsi lungo una parete del salotto. Andai per primo da Edward Mackley, che portava i riccioli biondi tirati indietro come una donna, e gli chiesi di raccontarmi il momento in cui aveva capito di amare sua moglie. Poi chiesi ad Armatine Caulley, la cugina di Alice, qual era il suo posto preferito al mondo, poi passai a Morris Beacham e gli chiesi di raccontarmi la prima volta in cui era andato a caccia di fagiani. Risalii a questo modo tutta la fila fino ad accumulare una quantità di storie, cosí tante che nessun altro sarebbe stato in grado di ricordare chi aveva detto cosa e ogni singolo dettaglio. Solo Mr Fields, il burbero precettore di Maynard, si rifiutò. Ma quando risalii la fila all’inverso ripetendo a ciascuno la propria storia, nei minimi particolari, ma con piú drammaticità e qualche infiorettatura, vidi che il precettore si tirava avanti sulla poltrona, gli occhi che scintillavano come quelli degli altri, come quelli delle persone di servizio giú nella lontana Strada.

Ora perfino gli altri camerieri rinunciarono alla propria espressione solenne e sorrisero. Fra tutti i presenti, solo Mr Fields manteneva il suo solito atteggiamento scostante, fatta eccezione per lo scintillio negli occhi. Ormai era tardi. Mio padre accompagnò ognuno degli ospiti in una delle tante stanze sparse per la vecchia casa, e noi fummo spediti a vedere se qualcuno aveva bisogno di qualcosa. Quando tutti si furono comodamente sistemati, ci ritirammo nella Garenna, esausti, sapendo che nel giro di poche ore avremmo dovuto ricominciare, perché al loro risveglio gli ospiti si aspettavano di trovare la colazione pronta e servita in tavola.

Il lunedí mattina dopo quel ricevimento, stavo aiutando Thena a preparare il bucato quando fui chiamato da Roscoe e mandato da mio padre nel salottino laterale. Prima passai dalla mia stanza a lavarmi e indossare degli abiti da casa, poi salii le scale di servizio fino a sbucare nel corridoio centrale, e percorrendolo trovai mio padre lí in piedi come se mi stesse aspettando. Alle sue spalle, vidi Maynard seduto a scrivere, e un gentiluomo in piedi accanto a lui. Era Mr Fields, che tre volte alla settimana gli dava lezione. Aveva un’espressione frustrata, e anche Maynard sembrava avvilito.

Mio padre mi sorrise, ma la parola non rende l’idea, perché lui aveva una gran varietà di sorrisi – sorrisi di dispiacere, o di disinteresse, o di sorpresa e sbigottimento –, sorrideva cosí spesso che la sua espressione era difficile da interpretare, ma quella mattina compresi quel sorriso perché era lo stesso che mi aveva rivolto, appena qualche mese prima, giú nei campi vicino alla Strada, quando mi aveva lanciato la moneta di rame.

– Buongiorno, Hiram, – disse. – Come stai?

– Bene, signore, – dissi io.

– Ottimo, ottimo, – disse lui. – Hiram, vorrei che dedicassi qualche istante a Mr Fields. Faresti questo per me?

– Sí, signore.

– Grazie, Hiram.

Detto questo, mio padre guardò Maynard, sempre sorridendo, e disse: – Andiamo, figliolo.

All’istante Maynard interruppe quel che stava facendo, e sul suo viso comparve un’espressione di sollievo. Non guardò verso di me mentre lui e mio padre uscivano dalla stanza. In quel periodo della nostra vita, io e Maynard eravamo lontani. Parlavamo solo del piú e del meno e non facevamo mai cenno a quel che eravamo l’uno per l’altro.

Mr Fields aveva un accento che non avevo mai sentito, e immaginai che potesse venire da quella Natchez che gli adulti nominavano sempre.

– L’altro giorno, – disse. – È stato un trucco –. Annuii in silenzio, non sapendo dove voleva arrivare. Erano previste delle punizioni per la Servitú che imparava a leggere, e mi venne in mente che il mio «trucco» avrebbe potuto scatenare la rabbia di qualcuno. Ma quel trucco non c’entrava con la lettura, perché in effetti non sapevo leggere. Avevo semplicemente immagazzinato quel che avevo sentito bofonchiare a Maynard, abbinando le rime alle carte sparse sul tavolo. Ma Mr Fields non conosceva quella tecnica, e io non sapevo come, e se, avrei dovuto spiegargliela.

Lui mi scrutò per un istante, poi prese un mazzo di normali carte da gioco e me le passò.

– Guardale.

Tirai fuori a una a una le carte dal mazzo, concedendomi il tempo di guardarle bene, e aggrottando la fronte piú per fare scena che perché mi costasse davvero fatica. Quando ebbi finito, Mr Fields disse: – Ora mettile sul tavolo a faccia in giú.

Feci quattro file ordinate da tredici carte ciascuna. Poi Mr Fields sollevò le carte una alla volta in modo che solo lui le potesse vedere e mi chiese di che seme erano. Indovinai ogni singola volta. La sua espressione non cambiò.

Ficcò una mano nella sua borsa e tirò fuori una scatola. Quando la aprí vidi che dentro c’erano dei piccoli dischi d’avorio con sopra incisi dei simboli, delle facce o degli animali. Mr Fields li posò sul tavolo a faccia in su e mi chiese di guardarli per un minuto, poi li girò. E quando mi chiese dov’era il disco con sopra il vecchio col naso lungo, o quello della bella ragazza coi capelli ricci o quello con l’uccello appollaiato su un ramo, per me era come se non li avesse neanche girati, era come se ce li avessi davanti.

Alla fine Mr Fields prese dalla borsa un foglio di carta, poi un libro illustrato. Mi fece vedere il disegno di un ponte e mi disse di guardarlo bene, e dopo un minuto chiuse il libro, mi passò una penna e mi disse di disegnare il ponte. Non avevo mai fatto una cosa simile e, incerto su quali fossero le sue intenzioni, e sapendo già allora che la Qualità si risentiva per l’orgoglio della Servitú, a meno che quell’orgoglio potesse essere volto a suo vantaggio, gli rivolsi uno sguardo perplesso e finsi di non aver capito. Lui ripeté quel che aveva detto e poi restò a guardare mentre io prendevo la penna e cominciavo con circospezione a disegnare. Per fare scena, ogni tanto alzavo gli occhi come se mi sforzassi di richiamare alla mente l’immagine. Ma non avevo alcun bisogno di richiamarla alla mente, perché per me il ponte era lí, sulla carta bianca, e l’unica cosa che dovevo fare era ripercorrerne le linee per portarlo alla luce. E cosí tracciai l’arco di pietra, la piccola apertura all’estremità destra, l’arcata superiore, il rilievo roccioso sullo sfondo e il burrone pieno di alberi sopra cui il ponte passava. E allora vidi Mr Fields sgranare gli occhi. Si alzò in piedi e si sistemò la giacca. Poi prese il foglio, mi disse di aspettare e uscí.

Tornò poco dopo con mio padre, che dal suo assortimento di sorrisi ne aveva scelto uno di autocompiacimento.

– Hiram, – disse. – Ti piacerebbe lavorare regolarmente con Mr Fields? – Tenni lo sguardo fisso a terra fingendo di riflettere sulla domanda. Dovevo farlo, perché in quel momento mi sentivo come se davanti a me si aprisse una strada inondata di luce. Non volevo lasciar trasparire la mia bramosia. Lockless era pur sempre la Virginia – la quintessenza della Virginia. Non potevo ancora sapere che cosa quel momento avrebbe significato.

– Dovrei farlo, signore? – chiesi.

– Sí, Hiram, – disse mio padre. – Credo di sí.

– Allora va bene, signore, – dissi. – Lo farò.

E cosí cominciarono le lezioni – lettura, aritmetica, un po’ di oratoria – e il mio mondo sbocciò, la mia famelica memoria si riempí di immagini, e ora anche di parole, che erano molto piú di quel che avevo creduto, parole con una propria forma, un proprio ritmo e un proprio colore, parole che erano esse stesse immagini. Ci incontravamo tre volte alla settimana per un’ora, subito dopo la lezione di Maynard, e anche se Mr Fields faceva del suo meglio per non darlo a vedere, coglievo sempre del sollievo nei suoi occhi quando Maynard se ne andava e arrivavo io. Quel momento divenne per me una fonte non solo di orgoglio ma anche di tacita derisione: ero piú bravo di Maynard, avevo ricevuto molto meno eppure riuscivo molto meglio.

Lui era rozzo. Strizzava di continuo gli occhi come se non sapesse dove mettere i piedi. Era negligente e maleducato. Mio padre aveva ospiti per il tè e lui faceva irruzione nella stanza e diceva qualunque cosa gli passasse per la testa. Gli piaceva scherzare, e quello era il suo lato migliore – ma anche quella dote non giocava a suo favore, perché lo portava a raccontare barzellette sconce alle giovani figlie della Qualità. A cena allungava le mani sul tavolo per prendere le pagnotte e parlava con la bocca piena.

Ero sicuro che anche mio padre se ne rendesse conto, e mi chiedevo quanto dovesse fargli male veder emergere il suo lato migliore dove non se lo sarebbe aspettato, anzi, dove, secondo le regole vigenti nel suo mondo, non avrebbe mai dovuto comparire.

Cercavo di ricordare la Strada e l’ammonizione di Thena: Loro non sono la tua famiglia. Ma vedendo la tenuta come la vedevo adesso – le ondulate colline verdi d’estate, i boschi che in autunno si tingevano di rosso e oro, e poi in inverno la neve che maculava tutto – e vedendo, per quanto vivessi nel sottosuolo, la grande casa di Lockless – le imponenti colonne del portico, il sole che al tramonto si rifletteva nella lunetta, i corridoi serpeggianti –, e vedendo i maestosi ritratti di mio nonno e mia nonna, i miei occhi nei loro, cominciavo, dentro di me, a immaginarmi nei loro ranghi. E poi c’era mio padre, che mi prendeva da parte e mi raccontava del nostro lignaggio, che da suo padre, John Walker, risaliva all’indietro fino al progenitore Archibald Walker, arrivato lí a piedi con un mulo, due cavalli, sua moglie Judith, due figli piccoli e dieci uomini di servizio. Mi raccontava quelle storie come per farmi balenare davanti agli occhi una porzione della mia eredità. E io non dimenticavo.

C’erano sere in cui, terminato il Servizio, mi spingevo fino all’estremità orientale della tenuta, oltre la distesa di trifoglio ed erba timotea, e sostavo riverente davanti al monumento di pietra che indicava il punto dove erano stati disboscati i primi appezzamenti di quella che sarebbe diventata Lockless. E quando mio padre mi raccontava di come suo nonno aveva tenuto alla larga i puma, cacciato gli orsi con un coltellaccio, abbattuto grandi alberi, ammassato pietre e deviato corsi d’acqua edificando con le sue mani la proprietà che ora potevo ammirare, come avrei potuto non voler rivendicare come mia eredità quell’audacia, quella presenza di spirito, e la gloria che quell’uomo si era procurato con le sue braccia robuste?

Ma, nonostante quei miei sogni a occhi aperti, la realtà di Lockless si imponeva. C’erano i racconti di Pete ed Ella, i loro accenni a Natchez e Baton Rouge. C’era la tragedia di Big John, e di mia madre. E a tutto questo ora cominciai ad aggiungere le cose che leggiucchiavo, quando venivo lasciato solo nell’ufficio di mio padre, sulla «De Bow’s Review», che si lamentava di continuo del crollo del prezzo del tabacco, e infine quel che orecchiavo dalle conversazioni della Qualità. La prosperità di Lockless, nonché di tutta la Elm County, si doveva al tabacco. E ogni anno la resa del tabacco diminuiva, e con essa diminuivano le rendite delle grandi famiglie della Virginia. I giorni delle foglie di tabacco grosse come orecchie di elefante erano passati, almeno nella Elm County, dove l’eccessivo sfruttamento aveva spossato la terra. Invece a ovest, oltre la valle e le montagne, sulle sponde del Mississippi, verso Natchez, c’era terra che aveva bisogno di essere lavorata, che aveva bisogno di padroni che la amministrassero, e di uomini che la zappassero e ne raccogliessero i frutti, uomini come quelli dei sempre piú sterili campi di Lockless.

– Un tempo si vergognavano di vendere la gente, – sentii dire a Pete mentre lavoravo in cucina.

– Facile vergognarsi quando il raccolto è abbondante, – rispose Ella. – Ma quando i campi non ti danno niente, la vergogna va a farsi benedire.

Quelle furono le ultime parole che sentii pronunciare a Ella. Una settimana dopo se n’era andata.

Giovane com’ero, la mia comprensione di tutto ciò era peculiare: a me sembrava che la sventura di Lockless non si dovesse alla terra, ma agli uomini che la gestivano. Cominciai a considerare Maynard un esempio particolarmente vergognoso della sua intera classe. Invidiavo quegli uomini. E mi facevano orrore.

Man mano che prendevo confidenza con la casa, e cominciavo a leggere, e cominciavo a vedere piú spesso la Qualità, capivo che, cosí come i campi e chi li lavorava erano il motore di tutto, anche la casa stessa sarebbe scomparsa senza coloro che vi prestavano servizio. Mio padre, come tutti i padroni, aveva costruito un intero apparato per camuffare quella debolezza, per nascondere quanto in realtà fossero ridotti a malpartito. La galleria da cui ero entrato per la prima volta nella casa era l’unico ingresso che la Servitú aveva il permesso di usare, e questo non solo per far apparire piú nobili i padroni, ma per tenerci nascosti, perché la galleria era solo uno dei molti stratagemmi ingegneristici messi a punto per dare l’impressione che Lockless fosse alimentata da un’energia invisibile. C’erano montavivande che facevano comparire dal nulla cene sontuose, leve che recuperavano magicamente la giusta bottiglia di vino dalle viscere della casa, brandine celate sotto i letti a baldacchino, perché gli incaricati dello svuotamento dei vasi da notte dovevano essere nascosti ancor piú degli stessi vasi da notte. La parete magica che il primo giorno era scivolata di lato rivelandomi il mondo scintillante della casa nascondeva scale che scendevano nella Garenna, la sala macchine di Lockless, dove nessun ospite metteva mai piede. E quando comparivamo nelle zone signorili della casa, ad esempio durante i ricevimenti, eravamo strigliati e agghindati di tutto punto, cosí che si sarebbe potuto immaginare che non fossimo affatto schiavi, ma semplici ornamenti, parte integrante del fascino mistico del maniero. Ma io adesso sapevo la verità: la stupidità di Maynard, per quanto eclatante, non aveva niente di originale. Senza di noi i padroni non avrebbero saputo far bollire l’acqua, bardare un cavallo e nemmeno allacciarsi i mutandoni. Noi eravamo meglio di loro, dovevamo esserlo. Per noi l’indolenza significava morte sicura, mentre loro non ambivano ad altro.

Cominciai a pensare che anche la mia intelligenza non avesse nulla di eccezionale, perché a Lockless ovunque si posassero gli occhi si vedeva il genio di chi l’aveva costruita: il genio delle mani che avevano intagliato le colonne del portico, il genio dei canti che, anche nei bianchi, evocavano le piú profonde gioie e sofferenze, il genio degli uomini che facevano vibrare e trillare le corde dei violini durante le danze, il genio della sinfonia di sapori servita dalla cucina, il genio di tutti coloro che erano scomparsi, il genio di Big John, il genio di mia madre.

Immaginavo che un giorno anche la mia qualità avrebbe potuto essere riconosciuta, e allora, forse, io che comprendevo il funzionamento della casa, il funzionamento dei campi e anche un po’ il vasto mondo esterno, avrei potuto essere considerato il vero erede, il legittimo erede, di Lockless. Con le mie estese competenze avrei riportato i campi al loro rigoglio, e in questo modo avrei salvato tutti noi dalle vendite e dalle separazioni, dalla discesa nelle tenebre di Natchez, che era il sepolcro, che era quel che sarebbe toccato a tutti noi, ne ero certo, sotto il dominio di Maynard.

Un giorno salii le scale per raggiungere lo studio per la lezione con Mr Fields, ed ero entusiasta perché avevamo appena cominciato a studiare l’astronomia, e le mappe stellari, a partire dall’Orsa Minore, e altro sarebbe seguito. Ma quando entrai nello studio non trovai Mr Fields, ma mio padre, seduto da solo.

– Hiram, – disse. – È giunto il momento –. A quelle parole fui colto da una paura tremenda. Ormai era da un anno che studiavo con Mr Fields. Mi venne da pensare che forse mi stavano solo ingrassando per farmi seguire lo stesso destino di Ella. Dovevano essere riusciti in qualche modo a indovinare i miei pensieri, o a leggere nei miei occhi vaghi sogni di usurpazione. O magari avevano fatto i conti e capito che tutto quell’imparare non poteva che culminare in un mio colpo di mano.

– Sí, signore, – risposi, senza neanche sapere quale momento fosse giunto. Strinsi i denti, cercando di nascondere la paura che mi attanagliava le viscere.

– Quando ti ho visto giú in quel campo, e ho visto i tuoi trucchi da salotto, ho capito che tu, ragazzo, hai qualcosa, qualcosa che gli altri laggiú non riuscivano a vedere. Tu hai un particolare talento, che ho pensato potesse essere utile, perché questi non sono tempi di prosperità, e quassú in questa casa abbiamo bisogno di tutto il talento disponibile.

Lo guardai con un’espressione vacua, celando la mia confusione. Mi limitai ad annuire in attesa che la cosa si chiarisse.

– È venuto il momento che tu ti prenda cura di Maynard. I miei giorni non saranno infiniti, e lui avrà bisogno di un buon valletto, uno come te, che sappia qualcosa dei campi, qualcosa della casa e anche qualcosa del mondo esterno. Ti ho tenuto d’occhio, ragazzo, e so che tu non dimentichi mai niente. Basta dire una volta una cosa al mio Hiram e la puoi considerare fatta. Non ce ne sono molti come te, non ce ne sono molti con una tale qualità.

Poi mi guardò, e ora negli occhi aveva un luccichio.

– Quassú un ragazzo come te quasi tutti lo metterebbero all’asta. E ne ricaverebbero un bel gruzzolo. Niente di piú prezioso di un ragazzo di colore con un po’ di cervello. Ma io sono diverso. Io credo in Lockless. Io credo nella Elm County. Io credo nella Virginia. Abbiamo il dovere di salvare la nostra terra, la terra che il tuo bisnonno ha strappato alla natura selvaggia, e che non deve tornare allo stato selvaggio. Lo capisci?

– Sí, signore, – dissi.

– È nostro dovere. Di tutti noi, Hiram. E comincia da qui. Ho bisogno di te, ragazzo. Maynard ha bisogno di te al suo fianco, e per te sarà un onore.

– Grazie, signore.

– Bene, – disse lui. – Cominceremo domani.

E cosí le mie lezioni si conclusero non appena il loro vero scopo fu rivelato. Per i successivi sette anni della mia vita, il mio compito fu servire Maynard come valletto. Ora può sembrare strano, ma l’oltraggio che ciò comportava non mi fu subito chiaro. Mi si palesò a poco a poco nel corso degli anni, man mano che vedevo Maynard all’opera. E c’era cosí tanto in gioco: la vita di tutti coloro che avevo lasciato giú nella Strada, e anche di quelli di noi che ora si trovavano in quel palazzo risplendente e decrepito. Tutto dipendeva dal fatto che Maynard diventasse un amministratore competente, per quanto l’intero edificio fosse ingiusto. Però Maynard non era quel tipo di uomo.

Tutto mi si riversò addosso la sera prima di quel fatale giorno alle corse. Avevo diciannove anni. Mi trovavo nello studio di mio padre al piano superiore, e dopo aver archiviato la sua corrispondenza negli scomparti del secrétaire di mogano me ne stavo sotto le braccia argentee della lampada Argand, assorbito nella lettura dell’ultimo numero della «De Bow’s Review». Ero affascinato dal modo in cui la rivista parlava dell’Oregon, una regione che conoscevo dalle mappe appese qua e là per la casa, ma che in quelle pagine veniva presentata come una specie di paradiso, una terra tanto ricca da poter contenere piú e piú volte l’intera Virginia, una terra di colline, valli, foreste, brulicante di selvaggina, con un suolo nero cosí fertile che praticamente le colture crescevano da sole.

Ricordo ancora le parole che mi fecero scattare in piedi: «Qui, piú che in qualunque altro luogo, risiedono la libertà, la prosperità e la ricchezza». Mi alzai. Chiusi la rivista. Camminai avanti e indietro per lo studio. Guardai fuori dalla finestra, oltre il fiume Goose, e vidi a sud le Tre Colline, che si stagliavano in lontananza come giganti neri. Mi voltai e passai qualche minuto a osservare un’incisione appesa alla parete. Un Cupido incatenato e un’Afrodite ridente.

Poi pensai a Maynard, mio fratello. I suoi capelli biondi erano lunghi e ribelli. La barba era un’accozzaglia di chiazze di peluria. La maturità non gli aveva conferito né grazia né istinto sociale. Giocava d’azzardo e beveva troppo, perché gli era concesso. Si azzuffava per strada perché, per quanto avesse la peggio, non avrebbero mai potuto scalzarlo dal suo trono. Sperperava capitali fra le braccia delle meretrici, perché il lavoro della Servitú – e qualche volta la sua vendita – copriva tutte le sue perdite. Le visite dei parenti rimasti nella Elm County si risolvevano spesso in discussioni sul destino di Lockless, e quando Maynard non era a portata d’orecchio li sentivo che maledicevano il suo nome e architettavano ogni sorta di stratagemmi per scovare un altro erede che gestisse i beni della famiglia. Ma di fatto altri eredi non c’erano, perché passando in rassegna il lignaggio dei Walker quei cugini scoprivano che tutti i coetanei di Maynard se n’erano andati dove la terra era ricca e fertile. La Virginia era vecchia. La Virginia era il passato. La Virginia era dove la terra stava morendo e il tabacco stava sparendo. E cosí, non essendoci altri eredi disponibili, i Walker guardavano a Lockless con grande ansia.

Mio padre aveva i suoi piani: trovare a Maynard una compagna adatta e talentuosa, coinvolgendo cosí un’altra famiglia nella lotta per salvare Lockless. E incredibilmente ne aveva trovata una in Corrine Quinn, che all’epoca era forse la donna piú ricca della Elm County, avendo ereditato una fortuna in seguito alla dipartita dei genitori. Nella Servitú giravano delle voci riguardo a come erano morti i genitori di Corrine Quinn. Ma dalla Qualità era considerata superiore a Maynard da ogni punto di vista. Però aveva bisogno di un marito, perché in Virginia era ancora in vigore il codice della cavalleria, e di conseguenza c’erano cose che lei non poteva fare, posti dove non poteva andare, accordi che non poteva sottoscrivere. Quindi quei due avevano bisogno l’uno dell’altra: a Maynard serviva una compagna intelligente che salvasse la sua terra e la sua proprietà, a Corrine un gentiluomo che rappresentasse i suoi interessi.

Quella sera uscii dallo studio scosso e turbato, e vagai per la casa fino a trovarmi sulla soglia del salottino, da dove vedevo il bagliore del fuoco e sentivo conversare Maynard e mio padre. Stavano parlando di Edwin Cox, patriarca di una delle famiglie piú antiche e venerande della regione. L’inverno prima era uscito di casa ed era stato sorpreso da una grande bufera di neve che quella mattina si era abbattuta sulle montagne imbiancando tutta la zona. In qualche modo si era smarrito, ed era stato ritrovato il giorno dopo, congelato, a pochi metri dalla dimora dei suoi avi. Restai per un momento celato nell’ombra fuori dalla porta, ad ascoltare.

– Pare che fosse uscito per dare un’occhiata al suo cavallo, – disse mio padre. – Gli voleva un bene dell’anima, ma quando si è trovato là fuori non avrebbe saputo distinguere la scuderia dall’affumicatoio. Quel giorno anch’io sono uscito nel portico e, per Dio, con quel vento non riuscivo neanche a vedermi le mani.

– Perché non ha mandato il ragazzo? – chiese Maynard.

– Li aveva lasciati andare quasi tutti l’estate prima. Li aveva portati a Baltimora, dove aveva dei parenti, e li aveva lasciati a se stessi. Poveracci. Dubito che siano sopravvissuti una sola settimana.

In quel momento Maynard mi vide oltre la soglia.

– Che ci fai lí, Hi? – disse. – Vieni ad attizzare il fuoco.

Entrai e guardai mio padre, che mi osservò nel modo che gli era abituale in quel periodo, come se fosse combattuto fra due diverse idee e non sapesse a quale dare voce. Con me si era assestato su un particolare tipo di sorriso: un accenno di sorriso che si solidificava in una smorfia macabra. Dubito che apparire cosí sinistro fosse nelle sue intenzioni. Probabilmente non ci pensava e basta. Howell Walker non era un uomo riflessivo, per quanto forse sentisse che avrebbe dovuto esserlo, appartenendo a una generazione che si ispirava agli eruditi rivoluzionari dell’epoca dei nonni: Franklin, Adams, Jefferson e Madison. Sparsi per tutta la grande casa di Lockless c’erano strumenti scientifici e geografici: mappe del mondo, generatori elettrostatici, e la biblioteca in cui tante volte mi ero sentito a casa. Tuttavia le mappe venivano osservate di rado, gli strumenti venivano usati solo per intrattenere gli ospiti, e le uniche mani che toccavano i libri erano le mie. Le letture di mio padre si limitavano alle cose utili: la «De Bow’s Review», il «Christian Intelligencer», il «Register». Per lui i libri erano un ammennicolo alla moda, segni del suo status e del suo pedigree, che lo distinguevano dalla feccia bianca della contea coi suoi tuguri dal pavimento in terra battuta e i suoi miseri campicelli di granturco e frumento. Ma cosa significava trovare me, uno schiavo, a sognare in mezzo a quei libri?

Mio padre aveva messo su famiglia a un’età piú tarda del consueto. Ormai aveva già settant’anni, e stava perdendo il suo vigore. Gli occhi azzurri, sempre intensi e scrutatori, erano assediati dalle borse sottostanti e dalle zampe di gallina. Negli occhi c’è cosí tanto – il lampo della rabbia, il calore della gioia, l’addensarsi della tristezza –, e tutto ciò mio padre l’aveva smarrito. Credo che in passato fosse stato un bell’uomo. O forse semplicemente mi piace pensarlo. Ma ciò che ricordo di quella giornata, oltre a quegli occhi smarriti, sono le rughe dell’ansia che gli solcavano il viso, i capelli spettinati e tirati indietro, la barba ispida e disordinata. Aveva ancora l’abbigliamento impeccabile che contraddistingueva la Qualità, le calze di seta, i tanti strati: camicia, gilè, panciotto colorato, abito nero. Ma era l’ultimo esemplare della sua specie, e portava addosso i segni dell’estinzione imminente.

– Papà, domani ci sono le corse, – disse Maynard. – Stavolta gliela faccio vedere. Punterò un sacco di soldi su quel cavallo, Diamond, e mi porterò a casa un bel gruzzolo.

– Tu non devi dimostrargli niente, May, – disse mio padre. – Loro non hanno importanza. Tutto quel che conta è qui.

– Diavolo, io non… – disse lui, fumante di rabbia. – Quell’uomo mi ha sbattuto fuori dal circolo dell’equitazione, e poi mi ha puntato addosso una pistola. Gliela farò vedere. Ci andrò sul mio nuovo calesse Millennium, per ricordargli…

– Forse non dovresti. Forse dovresti lasciar perdere.

– Io ci vado. E al diavolo tutti quanti. Qualcuno deve pur difendere il buon nome dei Walker.

Mio padre si voltò verso il fuoco, con un sospiro appena percettibile.

– Eh sí, – continuò Maynard. – Domani ne capiteranno delle belle.

Attraverso le ombre, vidi mio padre, spossato dalle necessità del suo primogenito, che mi scoccava con la coda dell’occhio uno sguardo dolente e poi si strattonava la barba, e quello era un gesto che sapevo interpretare. Tieni d’occhio tuo fratello, significava. Lo sapevo perché era da metà della mia vita che glielo vedevo fare.

– Meglio che cominciamo a prepararci per domani, – disse Maynard. – Hi, va’ a dare un’occhiata ai cavalli.

Scesi nella Garenna e poi uscii dalla galleria. Controllai i cavalli e tornai alla casa rifacendo lo stesso percorso all’inverso. Maynard se n’era andato, ma mio padre era ancora lí, seduto davanti al fuoco. A volte aveva l’abitudine di addormentarsi cosí, finché Roscoe non lo svegliava e lo preparava per andare a letto. Ma Roscoe in quel momento non c’era. Aggiunsi un altro ciocco al fuoco.

– Lascia che si spenga, Hiram, – disse mio padre. – Qui ho quasi finito.

– Sí, signore, – dissi. – Vi serve qualcosa?

– No, – disse lui.

Chiesi se aspettava Roscoe.

– No, l’ho lasciato andar via un po’ prima, – disse lui.

Roscoe aveva due figli piccoli che vivevano una decina di miglia piú a ovest, e appena poteva li andava a trovare. A volte, se era dell’umore giusto, mio padre lo esonerava un po’ prima dai suoi compiti in modo che potesse passare qualche ora in piú con loro.

– Perché non ti siedi un momento con me? – disse ora.

Era una richiesta insolita da rivolgere a un uomo di servizio, ma fra noi due non era insolito, nei momenti in cui eravamo da soli, e sembrava che ogni giorno che passava quei momenti diventassero piú frequenti. L’anno prima, mio padre aveva venduto metà del personale addetto alla cucina. Nel laboratorio del fabbro e in quello del carpentiere non lavorava piú nessuno. Carl, Emmanuel, Theseus, tutti uomini che un tempo servivano lí, erano stati spediti verso Natchez. La ghiacciaia era vuota da due anni. Un’unica domestica, Ida, faceva tutti i lavori di casa, il che significava che l’ordine che ricordavo dall’infanzia non c’era piú, ma soprattutto significava che non c’erano piú il sorriso caloroso di Beth e le risate di Leah e gli occhi tristi e vacui di Eva. In cucina c’era una ragazza nuova, Lucille, che sembrava totalmente smarrita, e quindi era spesso bersaglio degli scoppi d’ira di Maynard. Lockless aveva cominciato ad apparire grigia e desolata, e non solo Lockless, ma tutti i grandi manieri lungo il Goose, ormai prosciugati del proprio vigore man mano che il cuore del paese si spostava verso occidente.

Mi sedetti nel posto lasciato vuoto da Maynard, e per lunghi minuti mio padre non disse niente. Si limitava a fissare il fuoco, che ormai si stava spegnendo, cosí che ora vedevo solo un bagliore giallo sempre piú tenue sul suo viso.

– Starai attento a tuo fratello, vero? – mi disse poi.

– Sí, signore, – dissi io.

– Bene, – disse lui. – Bene.

Ci fu una breve pausa prima che ricominciasse a parlare.

– Hiram, lo so che non sono molte le cose che mi è stato possibile darti, – disse. – Ma credo che quel che mi è stato possibile darti ti abbia fatto capire la stima che nutro per te. Non è giusto, lo so, nulla di tutto ciò è giusto. Ma ho la sventura di vivere in questo tempo, e devo vedere la mia gente portata via oltre quel ponte per andare Dio solo sa dove.

Fece un’altra pausa e scrollò il capo. Poi si alzò e andò ad accendere la lampada sulla mensola del camino, cosí che i quadri e i busti d’avorio dei nostri avi si illuminarono fra le ombre tremolanti.

– Sono vecchio, – continuò. – Non posso adattarmi a questo nuovo mondo. Me ne andrò insieme a questa Virginia, e a dover affrontare questi tempi difficili sarà Maynard, vale a dire che sarai tu. Tu devi salvarlo, figliolo. Tu devi proteggerlo. E non intendo solo domani alle corse. Ci sono tante cose che stanno per accadere, tanti guai in arrivo per tutti noi, e Maynard, a cui voglio un bene infinito, non è pronto. Bada a lui, figliolo. Bada al mio ragazzo.

Fece una pausa e mi guardò dritto in faccia. – Bada a tuo fratello, mi hai sentito?

– Sí, signore, – dissi.

E restammo lí seduti per un’altra mezz’ora, finché mio padre non annunciò che si ritirava per la notte. Io mi congedai e scesi nella Garenna, e andai nella mia stanza. Mi sedetti sul bordo del letto e pensai al giorno in cui mio padre mi aveva chiamato, il giorno in cui aveva sorriso e mi aveva lanciato la moneta di rame. Tutto nella mia vita derivava da quella decisione. Mi aveva preservato dal vedere gli aspetti peggiori della nostra condizione. Quasi tutti gli uomini di servizio di Lockless avrebbero fatto volentieri cambio con me. Ma essere cosí vicini a loro era un peso, il peso da cui Thena aveva cercato di mettermi in guardia, ma anche qualcos’altro, il peso schiacciante di vedere come viveva davvero la Qualità, in tutto il suo lusso, e quanto ricavava da noi.

Quella notte sognai che ero di nuovo nei campi di tabacco, là fuori con la Servitú, ed eravamo tutti incatenati insieme e quella catena era collegata a un’unica lunga catena al cui fondo c’era Maynard, che oziava perso nei suoi pensieri, quasi ignaro di tenere tutti noi nel palmo della mano. E poi mi guardavo intorno e vedevo che eravamo tutti vecchi, che anch’io ero vecchio, e quando mi voltavo indietro vedevo che Maynard non era il giovane che conoscevo, ma un poppante che gattonava in un prato delle bocce, e quando tornavo a girarmi vedevo la Servitú che a poco a poco scompariva davanti a me, quei volti e corpi cosí familiari che si dissolvevano a uno a uno finché restavo solo io, un vecchio tenuto incatenato da un poppante. Poi tutto veniva meno, le catene, Maynard, il prato stesso, e io venivo avvolto dall’oscurità della notte. E poi mi spuntavano tutt’attorno i rami neri di una foresta, ed ero solo, e mi sentivo perso e impaurito finché non alzavo gli occhi e vedevo uno spicchio di luna, e poi il cielo nero si riempiva di luci, e distinguevo l’Orsa Minore, la grande orsa mistica che aveva scacciato i vecchi dèi. Lo sapevo perché, nel nostro ultimo giorno insieme, Mr Fields mi aveva mostrato una mappa delle stelle. E guardando la coda dell’orsa vedevo qualcosa d’altro: il segno dei miei giorni futuri, avviluppato in un azzurro luminoso ma spettrale, e quel segno era la Stella Polare, la Stella del Nord.