Capitolo ottavo

Ora sono molto piú vecchio, vecchio abbastanza da capire come una matassa di eventi possa essere dipanata per ricavarne un unico filo. Dunque riguardo alla mia libertà le cose stavano cosí: sapevo che a Lockless non avrei mai potuto progredire oltre la posizione che il mio sangue mi aveva garantito. E, se anche avessi potuto farlo, sapevo che Lockless, per quanto glorioso fosse il suo passato, stava crollando, come stavano crollando tutte le grandi case dello schiavismo, e quando fossero crollate io non sarei stato liberato, ma venduto o passato ad altri. E ormai sapevo che il mio genio non mi avrebbe salvato, anzi, il mio genio non faceva che rendermi una merce piú preziosa. Ero convinto che fosse stato questo ad attrarre Corrine, e che, agevolata dalla mendacità della sua gente, lei stesse avanzando anticipatamente le sue ancora misteriose pretese. E il mio modo di vedere quelle pretese, di vedere ogni realtà, era cambiato da quando ero riemerso dal Goose. E tutto questo – la mia consapevolezza, il mio destino, il mio essere scampato alla morte – era una bomba che avevo in petto, e Sophia, con le sue intenzioni, era stata la miccia. Era cosí che la vedevo all’epoca, come il punto focale dei miei calcoli. Il tutto sembrava avere un senso, ma ne avrebbe avuto di piú se avessi tenuto presente che Sophia era una donna che ragionava con la propria testa, una donna dotata di proprie intenzioni, valutazioni e considerazioni.

Venne da me qualche giorno dopo, mentre ero fuori a lavorare su una serie di poltroncine angolari, e quando la vidi, lei che era la miccia che bruciava dentro di me, mi sentii ricolmo di audacia.

Si fermò e sorrise, guardò la poltroncina e poi fece per entrare nel capannone.

– Sei sicura di volerlo fare? – dissi. – Non è posto per una signora.

– Io non lo sono, – disse lei entrando. – Faccio solo finta di esserlo quando me lo chiedono.

La seguii e la osservai mentre toglieva le ragnatele e passava le dita sui mobili come per valutare quanto se ne sarebbe potuto ricavare. Passò tra i vari pezzi – la sedia d’acero a braccioli, il tavolo Hepplewhite e l’orologio Regina Anna – nella luce che entrava dalla finestrella fendendo l’oscurità.

– Hmm, – disse, voltandosi verso di me. – Tutto lavoro per te?

– Eh sí.

– Ordini di Howell?

– Già. Attraverso Roscoe. Ma la verità è che ero stufo di starmene in panciolle ad aspettare che mi dicessero qualcosa. E poi per me era cosí già da bambino. Mi inserivo dove potevo. Dove c’era bisogno di me.

– Potresti sempre andare nei campi. Lí il lavoro non manca mai.

– La mia parte l’ho fatta, grazie per l’interessamento. E tu? Ci sei mai stata nei campi?

– Non posso dire di esserci stata, – rispose.

Adesso era piú vicina, e lo notai perché ora notavo tutto di lei, specialmente la distanza esatta a cui si teneva da me. Una parte di me sapeva che questo era sbagliato, ma era la parte screditata, quella che aveva creduto che una moneta potesse spingere la Virginia a rivoltarsi contro se stessa.

– Ci sono cose peggiori. Almeno nei campi loro non sono lí a guardare ogni minima cosa che fai.

Si era avvicinata ancora di piú.

– Cos’hai da nascondere? – disse, avvicinandosi cosí tanto che mi sentii sul punto di perdere l’equilibrio. Appoggiai una mano su un mobile. Non ricordo quale.

Lei mi guardò e rise, poi uscí dal capannone.

– Possiamo parlarne ancora un po’? – disse quasi in un sussurro. – Di quella cosa?

– Sí, certo che possiamo.

– Fra un’ora. Giú nel vallone?

– Per me va bene, – dissi.

Non ricordo a quale lavoro mi dedicai nell’ora prima di quell’incontro. Passai tutto il tempo a pensare solo a Sophia. La schiavitú è un perpetuo desiderio insoddisfatto, significa trovarsi in un mondo di cibi proibiti e cose intoccabili: la terra che ti circonda, gli abiti a cui fai l’orlo, i biscotti che prepari. Ma quel desiderio lo soffochi, perché sai dove ti porterebbe. Ora però questo mio nuovo desiderio lasciava presagire un futuro diverso, un futuro in cui i miei figli, quali che fossero state le loro traversie, non sarebbero mai stati messi all’asta. E una volta intravisto quell’altro futuro, mio Dio, era come se per me il mondo fosse rinato. Ero diretto verso la libertà, e la libertà era nel mio cuore tanto quanto nelle paludi, e cosí non ero mai stato altrettanto distratto che nell’ora trascorsa ad attendere il nostro incontro. Me n’ero andato da Lockless prima ancora di essere scappato.

– Allora, come dovrebbe funzionare? – mi chiese. Eravamo nel vallone, e guardavamo i boschi oltre la distesa di erba selvatica.

– Non lo so di preciso, – dissi.

Mi rivolse uno sguardo perplesso.

– Non lo sai?

– Mi fido di Georgie. Solo questo.

– Georgie, eh?

– Sí, Georgie. Tante domande non gliele ho fatte… puoi immaginare perché. Questa cosa in cui Georgie è coinvolto, be’, presumo che sia tenuto a non parlarne troppo. Quindi so solo questo: portiamo noi stessi, e nient’altro, all’ora e al luogo dell’appuntamento, e poi ce ne andiamo.

– Ce ne andiamo dove? – chiese lei.

La fissai per un momento, poi spostai di nuovo lo sguardo oltre il vallone.

– Nelle paludi, – dissi. – Laggiú hanno un loro mondo, un intero mondo sotterraneo, dove un uomo può vivere come dovrebbe vivere.

– E una donna?

– Lo so. Ci ho pensato. Forse non è il posto ideale per una signora…

M’interruppe e disse: – Te l’ho già detto una volta oggi, Hi. Non lo sono.

Annuii.

– Me la caverò, – disse. – Portami solo fuori di qui, e il resto lo vedrò da sola.

Quelle ultime due parole – da sola – restarono sospese nell’aria.

– Tutto da sola, eh? – chiesi.

Lei mi guardò senza sorridere.

– Senti, Hiram, devi capire una cosa. Tu mi piaci, davvero –. I suoi occhi erano fissi nei miei, ci scavavano dentro, e sentii che quello che mi stava dicendo proveniva dal luogo piú profondo possibile. – Tu mi piaci, e non sono molti gli uomini che mi piacciono, e quando ti guardo vedo qualcosa di vecchio e familiare, qualcosa come quello che avevo col mio Mercury. Ma mi piacerai molto meno se il tuo piano è portarmi in quel mondo sotterraneo per diventare un altro Nathaniel. Quella per me non sarebbe libertà, lo capisci? Per una donna passare da un uomo bianco a uno di colore non è libertà.

Notai che la sua mano era sul mio braccio. E che lo stava stringendo forte.

– Se è questo che vuoi, se è questo che hai in mente, allora devi dirmelo subito. Se il tuo piano è tenermi prigioniera lí perché metta al mondo i tuoi rampolli, allora dimmelo subito e abbi la decenza di lasciare a me la scelta. Tu non sei come loro. Tu devi farmi la cortesia di concedermi la scelta. Quindi dimmelo. Dimmi subito quali sono le tue intenzioni.

Ricordo la sua veemenza in quel momento. Era una giornata cosí tranquilla. Era tardo pomeriggio e il sole stava tramontando in quella stagione di lunghe notti, la stagione perfetta, avrei presto imparato, per la fuga. Non si sentivano né uccelli né insetti né rami mossi dal vento, perciò i miei sensi erano completamente focalizzati sulle parole di Sophia, parole che, per la prima volta nella mia vita, non erano accompagnate da immagini, per ragioni che non riuscivo del tutto a capire. Quello che capivo era che Sophia era tremendamente spaventata da qualcosa, da qualcosa in me, e l’idea che io potessi, in qualche modo, essere per lei quello che era Nathaniel, che lei mi temesse come temeva lui, mi riempiva di spavento e vergogna.

– No, – dissi. – Non succederà mai, Sophia. Voglio che tu sia libera, e voglio che qualunque relazione fra noi, se mai ci sarà, sia frutto di una tua scelta.

Allentò la presa, cosí che la stretta della sua mano divenne solo un contatto.

– Non posso mentire, – continuai. – Spero che un giorno, prima o poi, tu là fuori sceglierai me. Lo confesso. Ho dei sogni. Sogni sfrenati.

– E cosa sogni? – mi chiese. Adesso la sua presa sul mio braccio era di nuovo stretta.

– Sogno uomini e donne in grado di lavare, nutrire e vestire se stessi. Sogno roseti i cui fiori vadano a chi li coltiva, – dissi. – E sogno di potermi rivolgere a una donna per cui provo dei sentimenti ed esprimere quei sentimenti, gridare quei sentimenti, senza pensare a cosa questo potrebbe significare per gli altri, ma solo per lei e me.

Restammo lí ancora un po’, quindi risalimmo il vallone e giungemmo al limitare del bosco. A quel punto il sole stava tramontando su Lockless. Sostammo ai margini del bosco. Sophia disse: – Meglio se continuo da sola –. Annuii e la guardai allontanarsi e sparire. Poi uscii dalla foresta e mi diressi verso la casa, finché non vidi la galleria che portava nella Garenna. E lí nella galleria, in piedi a braccia conserte, c’era Thena.

Anche Thena era stata trasformata dal mio nuovo modo di vedere le cose. Io stavo per scappare, un giovane uomo insieme a una giovane donna, verso una nuova vita, la prima vera vita che avessimo mai avuto, una vita che quei vecchi uomini e donne di colore avevano paura di ricercare. Avevo sperato di salvarli, di salvare tutta Lockless, ma ormai era finita. Erano agnelli in attesa del macello. Gli anziani sapevano tutti cosa stava per succedere. Sapevano quel che sussurrava la terra, perché nessuno era piú vicino alla terra di chi la lavorava. Di notte restavano svegli ad ascoltare i fantasmi gementi delle persone di servizio portate via. Sapevano cosa stava per succedere eppure restavano lí ad aspettare. E tutta questa improvvisa vergogna e rabbia, collera e acredine verso coloro che permettevano che ciò accadesse, che restavano stoicamente a guardare i figli che venivano portati via, tutto questo ora lo riversai su Thena, cosí che quando mi vide che uscivo dal bosco, e io vidi lei che mi aspettava a braccia conserte, e vidi la disapprovazione dipinta sul suo volto, provai una rabbia incredibile.

– ’Sera, – dissi. Lei replicò roteando gli occhi. Entrai nella galleria e mi avviai verso la mia stanza. Lei mi seguí. Quando fummo dentro, accese la lampada sulla mensola del camino e chiuse la porta. Poi si sedette su una sedia in un angolo e la fiamma della lampada cominciò a proiettarle ombre sul viso.

– Che ti prende, figliolo? – chiese.

– Non capisco cosa intendi.

– Hai ancora la febbre?

– Thena…

– In queste ultime settimane sei molto strano, molto molto strano. Cosa c’è? Cos’hai?

– Non capisco cosa intendi.

– Be’, mettiamola cosí: come diavolo ti è saltato per la testa di gironzolare per Lockless insieme alla ragazza di Nathaniel Walker?

– Io non gironzolo con nessuno. Quella ragazza sceglie con chi accompagnarsi, e lo stesso faccio io.

– È cosí che la pensi, eh?

– Sí, è cosí che la penso.

– Allora sei scemo come sembri.

Quel che feci fu rivolgerle uno sguardo torvo, come avevo visto fare ai bambini quando sfidavano i genitori. E io ero un bambino, adesso lo so, un ragazzino sopraffatto dall’emozione e disarmato da una grande e tremenda perdita. E lo sentivo anche in quel momento, sebbene non sapessi dare un nome a ciò che provavo. Sentivo tutto quel che avevo perso quando mia madre era sprofondata nel pozzo della memoria, perché ora avevo davanti un’altra persona che stavo per perdere. E non sopportavo l’idea di perderla, non riuscivo a guardarla negli occhi e a confessarle il mio piano, non riuscivo a lasciare l’unica madre che avessi mai conosciuto. Perciò quando parlai non fu con tristezza e sincerità, ma con rabbia e virtuosa indignazione.

– Cosa ti ho fatto? – chiesi.

– Eh?

– Cosa ti ho mai fatto, perché tu mi debba parlare cosí?

– Parlarti cosí? – disse lei, con un’espressione attonita. – Che diavolo te ne importa di come ti parlo? Tu mi sei piombato addosso dal nulla, senza che io avessi chiesto niente, eppure cosa faccio ogni sera dopo che mi sono spaccata la schiena per quella gente? Chi è che ti frigge la pancetta e il pane di granturco? Quella ragazza l’ha mai fatto per te? Chi ti mette in guardia da ciò che quella gente cerca di farti coi suoi intrighi? E cosa ti ho chiesto in cambio, Hiram? Cosa ti ho mai chiesto?

– Allora perché cominciare adesso? – ribattei. Poi le rivolsi un lungo sguardo furente. Era uno sguardo che nessuno si sarebbe meritato, men che mai quella donna che mi aveva voluto cosí bene, quella donna che si era data cosí tanto da fare per me.

Thena mi guardò come se le avessi sparato. Ma il dolore passò in fretta. Era come se la sua ultima speranza che in questo mondo malvagio ci fosse un minimo di giustizia, un minimo di luce, si fosse spenta, e fosse rimasta solo la perversa conclusione che si era sempre aspettata.

– Un giorno te ne pentirai, – disse. – Ti pentirai di questo piú di tutti gli altri mali che verranno da quella ragazza, e i mali verranno, te lo assicuro. Ma di aver parlato in questo modo a una persona che ti ha voluto bene nel momento in cui piú ne avevi bisogno… di questo ti pentirai amaramente –. Poi aprí la porta, si voltò e aggiunse: – Un ragazzo come te dovrebbe stare piú attento a quello che dice. Non puoi mai sapere quali saranno le ultime parole che rivolgerai a una persona.

Non avrei dovuto attendere molto per provare quel pentimento che mi era stato preconizzato, ma in quel momento ero sopraffatto da un’altra parte di me, quella che pensava solo all’imminente fuga da quel vecchio mondo, con la sua terra morente, i suoi schiavi pavidi e i suoi bianchi abietti e volgari. Per la libertà della Sotterranea ero pronto a lasciarmi tutto alle spalle, Thena compresa.

Trascorsero i giorni, e finalmente arrivò la mattina della fatidica promessa di Georgie, e fu lunga e rapida come la vita stessa. Quel giorno mi svegliai pieno d’inquietudine. Restai sveglio nel letto, sperando che quella giornata restasse lí con me, ma poi sentii il tramestio nella Garenna e il brusio nella casa sovrastante, e quell’orribile musica annunciò che quel giorno era una realtà, e la mia promessa era una realtà, e che non potevo piú tirarmi indietro. Cosí mi alzai nell’oscurità e andai al pozzo con la brocca di terracotta, e mentre ci andavo vidi Pete, già vestito e diretto verso il giardino, e me lo ricordo perché quella fu l’ultima volta che lo vidi. Da lontano, vidi Thena al pozzo, tutta sola, che attingeva l’acqua per fare il bucato. Era un lavoro duro – tirar su l’acqua, accendere il fuoco, battere i panni, preparare il sapone – e faceva tutto da sola. Ricordo che me ne stavo lí sapendo di averle fatto un torto, di averla delusa, di averle mancato di rispetto, provando un’acuta vergogna, e che combattevo quella vergogna con la rabbia, dicendomi: «Chi si crede di essere?» Aspettai che finisse, guardando dalla galleria quella vecchia donna di colore che tirava su l’acqua tutta sola, sapendo già allora che me ne sarei pentito, che per il resto della mia vita quelle ultime parole che le avevo detto, e quel tenermi lontano da lei, mi avrebbero perseguitato.

Quando la via fu sgombra andai a riempire la brocca, poi tornai nella mia stanza a lavarmi e vestirmi. Quindi sostai all’uscita della galleria a guardare il sole che sorgeva su Lockless, e per un ultimo, gravoso momento riflettei sul passo che stavo per compiere. Pensai agli oceani e a quegli esploratori di cui avevo letto durante le lunghe domeniche estive trascorse nella biblioteca, e mi chiesi cosa avessero provato quando avevano abbandonato la terraferma per salire sul ponte di una nave, cosa avessero provato guardando il mare, le onde che avrebbero dovuto solcare alla volta di un regno sconosciuto. Mi chiesi se avessero avuto paura, se avessero avuto la tentazione di tornare di corsa ad abbracciare le loro donne, a baciare le loro figliolette, e restare nel mondo che conoscevano. Oppure erano come me, consci che il mondo che amavano era incerto, che anch’esso presto sarebbe svanito, che il cambiamento era la regola di ogni cosa, che se non avessero passato l’acqua, sarebbe stata l’acqua a passare su di loro? Perciò dovevo andarmene, perché il mio mondo stava scomparendo, da sempre stava scomparendo: me lo gridavano Maynard dal Goose e Corrine dalle montagne, e soprattutto Natchez.

Mi riscossi dalle mie fantasticherie. Salii le scale e andai a parlare con mio padre, che ora aveva trovato un servizio per me: avrei dovuto, a partire dall’indomani, lavorare in cucina insieme al poco personale che restava. – Un ultimo giorno di libertà, – disse. Ma a quel punto non me ne importava piú nulla. Mi limitai ad annuire e a scrutarlo per capire se avesse subodorato qualcosa. Ma era allegro, da settimane non lo vedevo cosí allegro. Parlò di Corrine Quinn, e della sua promessa di passare a trovarlo in settimana, e io provai un enorme sollievo al pensiero che a quel punto non sarei piú stato lí.

Andai alla biblioteca. Sfogliai i vecchi volumi di Ramsay e Morton. Poi tornai giú nella mia stanza. Per il resto della giornata non mi feci vedere. Non avevo nessuna voglia di mangiare. Non avevo nessuna voglia di incontrare qualcuno. E non ne potevo piú di ricordi e fantasticherie. Volevo solo che arrivasse l’ora dell’appuntamento. E arrivò, eccome se arrivò. Il sole tramontò dando inizio a un’altra lunga notte invernale, e dopo un po’ sulla casa calò il silenzio, e il brusio della giornata si spense finché non restò altro che qualche saltuario scricchiolio. Non portai niente con me se non la mia ambizione, niente vestiti, niente vettovaglie, niente libri, neanche la mia moneta, che tirai fuori dalla tasca dei pantaloni da lavoro, strofinai per un’ultima volta e lasciai sulla mensola del camino. Mi incontrai con Sophia sul limitare del pescheto. Usammo la strada come punto di riferimento, ma ci tenemmo al riparo del bosco per non essere individuati da qualche pattuglia. Parlammo e ridemmo con la nostra solita naturalezza, ma a bassa voce, finché la strada non svoltò e in lontananza avvistammo il ponte sul Goose. E percependo che quello era il momento, che quello era il posto dopo il quale nessuno dei due avrebbe osato voltarsi indietro, ci zittimmo, in preda a un timore reverenziale. Restammo lí a guardare il ponte, che non era altro che un lungo tratto scuro sullo sfondo della grande oscurità della notte. Sentii le cose striscianti della terra che si chiamavano l’un l’altra. Era una notte nuvolosa e senza stelle.

– Allora è questa la libertà, – dissi.

– La libertà, – disse lei. – O la va o la spacca. Basta compromessi. Basta vie di mezzo. Moriremo giovani, oppure non moriremo affatto.

E cosí uscimmo dal bosco e ci avviammo lungo il sentiero, allo scoperto. Le presi la mano e mi accorsi che, mentre lei aveva la mano ferma, la mia tremava. Avevamo affidato la nostra vita al senso dell’onore di Georgie Parks. Credevamo nelle dicerie, nella Sotterranea. Attraversammo e non ci guardammo indietro, andando verso il bosco e tenendoci lontani da Starfall. Nei giorni precedenti mi ero preso del tempo per esplorare i sentieri secondari, e avevo trovato una via per arrivare al luogo dell’appuntamento con Georgie in modo rapido e insieme discreto. Quando giungemmo allo stagno dove eravamo stati io e Georgie la settimana prima, ci rilassammo un po’.

– Cosa farai quando arriverai là? – chiesi.

– Non lo so, – disse lei. – Non lo so cosa può fare una ragazza in una palude. Mi piacerebbe lavorare… lavorare per me stessa. È questa la mia piú grande ambizione. E la tua?

– Andare il piú lontano possibile da te, presumo.

Ridemmo tutt’e due.

– Lo sai che sei matta? – continuai. – Farmi andar via da qui, scappare… Se ce la faremo, quando ce la faremo, non vorrò piú sapere nulla delle trame di Sophia.

– Hm-hmm. Sarà bello alleggerire il mio carico, – disse lei. – Gli uomini finora non mi hanno portato altro che guai.

Ridemmo ancora. Guardai su verso il cielo senza stelle, poi verso di lei, che stava indietreggiando, indietreggiando verso lo stagno. Poi udii dei passi, e qualcuno che parlava, ed era evidente che chi si stava avvicinando, chiunque fosse, non era solo. Pensai di nascondermi, ma udii distintamente la voce di Georgie fra quelle degli altri uomini, e restai dov’ero. Poi le voci si zittirono, e non si udí altro che lo scricchiolio dei passi sul terreno. Presi Sophia per mano e guardai verso il varco fra gli alberi. E vidi la sagoma di Georgie Parks che si stagliava nell’oscurità.

Sorrisi, questo me lo ricordo. E ribadisco che io ricordo tutto, ma forse in questo caso la memoria mi gioca un brutto scherzo, perché era una notte senza stelle, e non riuscivo neanche a vedere Sophia, che era lí davanti a me, eppure giuro che ricordo di aver visto il viso di Georgie Parks, e il suo viso era triste e addolorato, e io non capivo perché. Poi udii di nuovo i passi e vidi sbucare uno dopo l’altro dall’oscurità cinque uomini bianchi, e vidi che uno di loro aveva una corda in mano. E poi si piazzarono davanti a noi, restando fermi per quella che mi parve un’eternità, e sentii Sophia che gemeva: – No, no, no…

Quindi vidi uno degli uomini che toccava la spalla di Georgie e diceva: – Bene, Georgie, sei stato bravo –. E a quel punto Georgie ci diede le spalle e rientrò nella foresta, e quegli uomini, con la loro corda, vennero verso di noi.

– No, no, no, – gemette ancora Sophia.

Giuro che erano come fantasmi, risplendevano nella notte come spettri, e dal loro aspetto e dai loro modi capii esattamente cos’erano.