Capitolo tredicesimo

Quella sera, mentre ero ancora a letto, sentii delle voci al piano di sotto, e il profumo di quella che speravo fosse la cena – non facevo un vero pasto da quando ero scappato da Lockless. Il tutto mi riscosse dal mio intontimento, e vidi che sopra il cassettone c’erano due catini pieni d’acqua, uno spazzolino, dentifricio e un cambio d’abiti. Mi lavai e vestii e poi scesi con passo claudicante, attraversai un ingresso ed entrai in una grande sala da pranzo, dove vidi Corrine, Hawkins, Amy, tre altre persone di colore e nientemeno che Mr Fields.

Restai sulla soglia per un istante, finché lui non mi vide. Stava ridendo per una storia raccontata da Hawkins, ma appena mi vide il suo sorriso si fece grave, e guardò Corrine, che a sua volta guardò me, e poi tutti i presenti si volsero nella mia direzione con le espressioni piú solenni immaginabili. Erano seduti davanti a un vero e proprio banchetto, ma tutti, bianchi e neri, uomini e donne, indossavano abiti da lavoro.

– Prego, Hiram, – disse Corrine, – accomodati.

Mi feci avanti titubante e andai a sedermi verso il fondo della tavola, accanto a Amy e di fronte a Mr Fields. Mangiammo gombo e patate dolci in umido. Mangiammo cheppia al forno con verdure. C’era maiale sotto sale con le mele. Un qualche tipo di uccelli ripieni di riso e funghi. Pane. Budino. Fagottini. Torta. Birra. Era il pasto piú succulento che avessi mai fatto, ma ancora piú incredibile del pasto fu quel che avvenne dopo.

Prima si alzò Corrine, poi gli altri, e tutti insieme si misero a sparecchiare e riordinare la sala da pranzo. Era uno spettacolo stupefacente. Non c’era alcuna divisione. Tutti collaboravano, tutti tranne me. Mi offrii di aiutare, ma loro rifiutarono. Quando tutto fu riordinato, si ritirarono in salotto, dove giocarono a moscacieca fino a tardi. Tanto dalla loro allegria quanto da alcune loro osservazioni, compresi che quella non era una serata come le altre, che c’era qualcosa da celebrare, e che quel qualcosa ero io.

Trascorsi la notte in quella casa, in una delle camere degli ospiti, dormendo fino al pomeriggio successivo. Non mi ero mai concesso un lusso simile, nemmeno durante le Feste. Mi lavai e vestii e scesi al piano di sotto. Tutto taceva. Sul tavolo della cucina c’era una teglia piena di tortine di segale, con accanto un biglietto rivolto a me che diceva di servirmi. Dopo averne divorate due, sparecchiai, uscii dalla porta e andai a sedermi nella veranda. All’esterno la casa era modesta e graziosa, rivestita di assicelle di legno bianco. Davanti c’era un giardino, pieno di bucaneve e giacinti. Oltre il giardino c’era un bosco, e in lontananza si vedevano le cime maestose di quelle che sapevo essere le montagne occidentali. Dovevo trovarmi ai confini della Virginia, pensai, quasi certamente a Bryceton, la proprietà della famiglia di Corrine, la tenuta dove, mesi prima, lei mi aveva detto che mi avrebbe fatto trasferire.

Adocchiai in lontananza due figure che sbucavano dal bosco. Si avvicinarono e vidi che si trattava di due uomini bianchi, uno piú vecchio e uno piú giovane, forse padre e figlio. Quando si accorsero di me si fermarono. Il piú giovane mi salutò con un cenno del capo, ma il piú vecchio lo prese per un braccio e lo tirò indietro nel bosco. Restai lí per un’ora a guardare il paesaggio, e a un certo punto sprofondai in un sogno a occhi aperti, e poi, evidentemente piú stremato di quanto pensassi, in un sogno vero e proprio. Ero di nuovo nella mia cella, ma questa volta con Pete e Thena e, quando gli uomini mi tiravano fuori per portarmi nell’atrio, Pete e Thena ridevano, e io continuavo a sentire le loro risate mentre venivo esaminato e violato. All’epoca ancora non riuscivo a vederla come una violazione. Mi ci è voluto del tempo per trovare il modo di parlare in modo esplicito di quel che mi avevano fatto, per raccontare la storia del periodo trascorso nella prigione di Ryland cosí com’era stato e continuare a sentirmi uomo. Mi ci è voluto del tempo per capire che in realtà il mio potere piú grande stava nel raccontare. Ma in quel momento, quando mi risvegliai dal mio sogno, provavo solo una rabbia bruciante. Non ero mai stato un ragazzo violento. Non ero una persona irascibile. Ma in seguito, per anni, mi sentii preda di pensieri e sentimenti distruttivi, di cui non riuscivo ad ammettere la causa.

Fui svegliato da una porta che si chiudeva dietro di me. Mi guardai alle spalle e vidi che era Amy. Uscí nella veranda e restò per un po’ lí a guardare il sole che ora stava tramontando sulle montagne. Non portava né un vestito a lutto né un velo nero, ma un abito grigio con la crinolina e sopra un grembiule bianco. I capelli erano tirati indietro sotto una cuffia.

– Presumo che tu abbia delle domande, – disse.

Sí, ne avevo molte. Ma non ne feci nessuna. Avevo la sensazione di aver già chiesto abbastanza, ovvero di aver già raccontato abbastanza, poiché nella prima parte della mia vita avevo imparato che gli interrogatori non sono mai a senso unico. Allora Amy disse: – Va bene. Capisco. Immagino che, se fossi al tuo posto, anch’io adesso non avrei una gran voglia di parlare. Ma io parlerò. Perché ci sono cose su questo posto, su questa tua nuova vita, che dovresti sapere.

Con la coda dell’occhio vedevo che mi stava guardando, ma continuai a fissare le montagne, e il sole al tramonto che vi si avvicinava sempre di piú.

– Avrai già indovinato dove sei. A Bryceton. A casa di Corrine. Ma non avrai indovinato, e non puoi sapere, cos’è realmente questo posto. Tanto vale che te lo spieghi io. In ogni caso lo vedrai presto.

Bryceton apparteneva ai genitori di Corrine. Dato che alla loro morte lei era l’unica erede, la piantagione andò a lei. Ormai avrai capito che Corrine non è quella che sembra. Oh, certo, è una virginiana fatta e finita. Ma a causa di quel che ha visto qui, e di alcune conoscenze acquisite su al Nord, ha, diciamo cosí, una visione diversa riguardo alla schiavitú. E la sua visione, che è anche la mia visione, e la visione di mio fratello, è furente e rissosa.

Amy fece una risatina, poi continuò: – Non dovrei ridere. Non è divertente, tranne quando lo è. Ovvero, per quanto mi riguarda, sempre. È una benedizione essere qui, essere in guerra insieme a loro. Siamo un avamposto di quell’esercito che tu ora conosci col nome di Sotterranea. Tutti coloro che vivono qui appartengono a questo esercito, anche se non è una cosa di cui possiamo parlare. Se ora ti facessi fare un giro, vedresti quello che tutti si aspetterebbero di vedere: frutteti in fiore, campi lussureggianti. E se avessimo ospiti, ci vedresti al lavoro, a cantare felici e contenti. Ma tieni presente che ogni singola persona di quelle che vedresti cantare e lavorare qui è con noi, e si dedica all’obiettivo di estendere la luce della libertà in Maryland, Virginia, Kentucky e addirittura Tennessee.

Sono tutti agenti, anche se non operano tutti allo stesso modo. Alcuni operano da casa. Sanno leggere e scrivere, come te, e mettono a frutto questa loro capacità. La carta svolge un ruolo importante: certificati di affrancamento, testamenti e ultime volontà. Restano a casa ma, credimi, non stanno con le mani in mano. Hanno sempre le orecchie tese. Studiano. Ascoltano quel che si dice in giro. Leggono i giornali. Conoscono tutti quelli che contano nella loro zona, ma nessuno di quelli che contano li conosce davvero. E poi ci sono gli altri.

Amy fece una pausa, e quando la guardai vidi che sul suo volto era comparso un sorrisetto. Ora fissava anche lei le montagne, che stavano inghiottendo gli ultimi barlumi di sole.

– Lo vedi? – chiese. Io non risposi. – Di questo si tratta. Poter stare qui a guardare il tramonto, senza niente che incombe su di te e nessuno che ti dà ordini o ti minaccia. Per me non è sempre stato cosí. Io e mio fratello eravamo assoggettati all’uomo piú malvagio del mondo, e quell’uomo aveva sposato Corrine e, be’, adesso quell’uomo non è piú tra noi e io sono qui con te e posso godere di piaceri semplici come questo.

Ma ci sono altri che non possono restare confinati dentro una casa perché altrimenti si sentirebbero soffocare. Sono quelli che ricordano la prima volta che sono scappati, e la sensazione di trionfo che hanno provato sfidando tutto ciò che gli era sempre stato detto. Non si sono mai sentiti altrettanto liberi, e allora lasciamo che inseguano quella libertà. Sono gli agenti sul campo. Gli agenti sul campo sono diversi. Vanno nelle piantagioni e portano via la Servitú. Sono audaci. I segugi li fanno sentire vivi. La palude, il fiume, il rovo, il casale abbandonato, il sottotetto, il vecchio fienile, la torbiera, la Stella Polare… questo è un agente sul campo.

E abbiamo bisogno gli uni degli altri. Operiamo insieme. Stesso esercito, Hiram. Stesso esercito.

Si zittí di nuovo. E restammo a guardare il cielo che scuriva e le stelle che spuntavano.

– E tu che cosa sei? – chiesi.

– Cioè?

– Casa o campo?

Lei mi guardò, sbuffò, rise e disse: – Io sono un agente sul campo, ovviamente.

Poi guardò di nuovo verso le montagne, che adesso erano una massa blu scuro in lontananza. – Hiram, potrei scappare pure adesso, anche se sono libera, anche se non ho niente da cui scappare, scappare oltre quelle montagne, oltre tutti i fiumi, attraverso le praterie, dormendo nelle paludi, cibandomi di radici, e poi, dopo tutto ciò, potrei scappare ancora.

E cosí fui addestrato per diventare un agente, addestrato fra le montagne a Bryceton, la proprietà di Corrine, insieme ad altri nuovi agenti reclutati per la Sotterranea. Mi perdonerete se non dirò molto degli altri agenti. Quelli che vengono menzionati in questo volume o sono vivi e mi hanno dato il loro permesso oppure hanno già intrapreso l’ultimo viaggio per incontrare il Grande Discernitore di Anime. Siamo ancora in un’epoca in cui si regolano conti e si consumano vendette, perciò molti di noi devono, per il momento, restare sotterranei.

La mia vita si sdoppiò. Ripresi a interessarmi di lavorazione del legno e manifattura di mobili. E mi comportavo come prima, dando una mano alla gente che lavorava a Bryceton, anche se lí si lavorava in un modo per me molto strano. Non c’era alcuna divisione del lavoro, in nessun settore. In cucina, in latteria, nel laboratorio meccanico, tutti davano il proprio contributo, indipendentemente dal sesso e dal colore, cosí che anche Corrine Quinn, se non era impegnata lontano da casa, sgobbava nei campi o serviva la cena insieme a Hawkins nella sala da pranzo lunga e stretta dove ci riunivamo ogni sera.

Dopo cena tornavamo nelle nostre camerate e ci cambiavamo, indossando l’uniforme notturna: camicia di flanella, calzoni tenuti su da un elastico e scarpe di tela leggere. Poi ci presentavamo a rapporto per la prima fase dell’addestramento. Correvamo un’ora ogni notte, per sei o sette miglia. Lungo il percorso c’erano soste frequenti per gli esercizi ginnici: sollevamento pesi, flessioni, saltelli. E dopo la corsa c’era ancora altra ginnastica: allungamenti laterali, addominali, piegamenti sulle ginocchia, e cosí via. Quegli esercizi erano stati messi a punto dai rivoluzionari tedeschi del Quarantotto, uomini che nel vecchio mondo avevano combattuto per la libertà, e qui avevano fatto causa comune con la Sotterranea. Qualunque fosse la loro origine, mi resero piú forte. Il bruciore al petto si ridusse a un lieve fastidio, e scoprii che riuscivo a percorrere lunghi tratti senza riposarmi.

Non c’era Servitú fra quegli istruttori, solo Qualità e Feccia. Alcuni di loro, sospettavo, erano gli stessi che mi avevano dato la caccia in tutte quelle notti. Faticavo ad accettarlo. Sentivo che mi avrebbero sacrificato senza pensarci due volte, quegli uomini della Virginia che io consideravo fanatici. E anche se sapevo che dovevano esserlo per forza, che non potevano essere in nessun altro modo, questo metteva una certa distanza fra noi, perché la loro guerra era contro il Servizio, mentre la mia sarebbe stata una guerra in favore di coloro che erano Servitú.

In realtà un’eccezione c’era, e ora mi chiedo se non dipendesse dal fatto che non era della Virginia, ma del Nord. Si trattava di Mr Fields, che incontravo per un’ora tre volte alla settimana, dopo la ginnastica, in uno scantinato tentacolare sotto la casa accessibile solo attraverso una botola nascosta da un enorme baule da corredo a cui era stato segato via il fondo. Al termine di due rampe di scale c’era un’altra porta, dietro la quale si apriva uno studio dalle pareti ammuffite, illuminato da lanterne, con su ogni parete file di scaffali zeppi di libri. Nel mezzo della camera c’era un lungo tavolo con posti a sedere a distanza regolare, e davanti a ogni sedia c’erano carta e penna.

In fondo c’erano due grandi secrétaire, i cui scomparti erano pieni di documenti di vario tipo riguardanti la Sotterranea, strumenti degli agenti di casa che, alcune notti, vedevo seduti laggiú al lungo tavolo, impegnati a svolgere in silenzio le loro furtive operazioni. Io sedevo con Mr Fields, che aveva ripreso il filo dei nostri studi come se nulla fosse successo, come se nel frattempo non fossero trascorsi tutti quegli anni.

Le mie conoscenze aumentavano, e io ne ero ben lieto: geometria, aritmetica, un po’ di greco e latino. E poi, nell’ora successiva, mi veniva data briglia sciolta ed ero libero di scegliere fra i volumi. Ora penso che anche questo libro, quello che stringete fra le mani, sia nato lí, in quei momenti, in quella biblioteca. Perché alla fine cominciai non solo a leggere ma anche a scrivere. All’inizio solo appunti relativi ai miei studi. Ma poi cominciai a prendere nota anche dei miei pensieri, e dai pensieri passai alle impressioni, e cosí finii per possedere un registro non solo di quel che avevo nella testa, ma di quel che avevo nel cuore. Da dove mi era venuta un’idea simile? Credo di dover ringraziare Maynard. Fra le cose che aveva rubacchiato dal secrétaire di mio padre c’era un vecchio diario tenuto da nostro nonno, John Walker, che, com’era tipico della sua generazione, riteneva di stare combattendo una grande battaglia che avrebbe alterato la faccia della terra. Io non avevo simili pretese, però percepivo, per quanto vagamente, di essermi imbattuto in qualcosa la cui importanza trascendeva la mia piccola vita.

Continuai con quella routine per un mese, con pochi cambiamenti, fino a una sera in cui, scendendo nelle viscere della casa, trovai Corrine al posto di Mr Fields.

– Come ti sembrano le cose qui? – mi chiese.

– Molto strane, – dissi. – È tutta un’altra vita.

Corrine sbadigliò quietamente e si sedette. Posò un gomito sul tavolo e il mento nel palmo della mano, scrutandomi con occhi stanchi. Aveva i capelli neri tirati indietro. La luce della lanterna le gettava ombre sul viso. Aveva l’aspetto di una matriarca, sebbene avesse pochi anni piú di me. Ricordai come si era comportata con Maynard e mi sentii pieno di ammirazione per la portata del suo inganno. Quanto poco avevo capito di lei all’epoca, della sua intelligenza, della sua perspicacia, della sua astuzia. Poi fui scosso da un brivido di paura. Corrine Quinn, che indossava la maschera della Qualità, era misteriosa e potente. E io non avevo idea di quali fossero davvero le sue facoltà.

– Anche tu, – dissi. – È una grande sorpresa. Io… non avrei mai immaginato. Neanche lontanamente.

– Grazie, – disse lei. E rise, palesemente deliziata dalla riuscita del suo inganno. – Ti piace scrivere?

– Ultimamente ho visto tante cose. E ho sentito il bisogno di prenderne nota, soprattutto le mie esperienze qui.

– Però stacci attento.

– Lo so. È una cosa che muore con me. Che non esce da qui.

– Hmm, – disse lei, ora con una scintilla negli occhi. – Ho sentito che in biblioteca hai messo le radici. Che certe notti ti devono praticamente trascinare via a forza.

– Mi ricorda casa, – dissi.

– E ci torneresti, se potessi? A casa?

– No. Mai.

Mi osservò per un istante, non so bene perché. Laggiú mi osservavano sempre. Me ne accorgevo, anche gli altri agenti durante l’addestramento mi assillavano di domande, mi guardavano quando pensavano che non ci facessi caso. Io reagivo restando il piú possibile in silenzio. Ma in Corrine c’era qualcosa che mi spingeva a parlare. Nel suo stesso silenzio c’era qualcosa che trasmetteva una profonda e peculiare sensazione di solitudine e, anche se non parlammo mai esplicitamente delle origini di quella sensazione, mi sembrava affine alla mia.

– Anche prima, a Lockless, quando ero soggiogato, – dissi, – avevo le mie libertà, piú di quante ne avessero gli altri. Ma ero pur sempre proprietà di un altro uomo. Anche ora che lo sto dicendo, questa cosa mi umilia.

– Certo, – disse lei. – E fra noi c’è chi è soggiogato fin dai tempi di Roma. C’è chi nasce nell’alta società e si sente dire che la conoscenza non è alla sua portata, che la sua unica aspirazione dev’essere un’ignoranza ornamentale.

Ridacchiò e fece una pausa, in attesa che afferrassi quel che intendeva dire. E quando le parve che l’avessi afferrato, disse: – La mente della donna è debole… cosí dicevano. Ora invece dicono che chi aspira al rango di gentildonna deve avere un minimo di familiarità coi libri. Ma non troppa. Niente studi impegnativi. Nulla che possa rovinare le nostre menti femminee e delicate. Romanzi. Racconti. Proverbi. Cose cosí. Niente giornali. Niente politica.

Si alzò e andò allo scrittoio, e tirò fuori dal cassetto una grande busta.

– Ma io, Hiram, non ho permesso che mi dicessero quel che dovevo fare, – disse, tenendo in mano la busta. – E non mi sono limitata a leggere, ragazzo mio. Ho appreso la loro lingua e i loro costumi… anche quelli che esulerebbero dalla mia condizione, soprattutto quelli che esulerebbero dalla mia condizione, e che sono stati i semi della mia libertà.

Tornò da me e mi posò la busta davanti.

– Aprila, – disse.

Lo feci, e dentro ci trovai la vita di un uomo. C’erano lettere alla famiglia. C’erano licenze. C’erano certificati di vendita.

– È tua per una settimana, – disse. – Non possiamo tenere per sempre qui gli effetti personali di quest’uomo. Quella che abbiamo è una selezione, abbastanza casuale perché lui non se ne accorga e non si allarmi.

– E cosa ne devo fare? – chiesi.

– Imparare tutto di lui, ovviamente. Sarà una lezione sui loro costumi. Un modo per comprendere tutte quelle cose che esulerebbero dalla tua condizione. Si tratta di un gentiluomo, colto e istruito, come molti dei grandi schiavisti di questo paese.

Dovevo avere un’aria perplessa, perché aggiunse: – A cosa servono secondo te le cose che stai studiando quaggiú?

Non risposi. Lei continuò: – Quello che facciamo qui non è un esercizio fine a se stesso, non è perfezionamento cristiano. Prima impari quello che sanno loro in generale. Poi impari delle cose su di loro nello specifico: le loro parole e la loro grafia. Se possiedi la conoscenza specifica di un uomo, puoi prendergli le misure. E allora puoi cucirti addosso il travestimento, Hiram, e far sí che ti calzi a pennello.

Cominciai l’indomani stesso. Capii subito che tutti i documenti erano stati scritti dalla stessa mano. Via via che li studiavo, andava definendosi un ritratto. Grazie a quei documenti – la contabilità sui registri, gli scambi epistolari con la moglie, le annotazioni sul diario riguardo a certe morti, i resoconti sui raccolti annata dopo annata – mi si parò davanti quell’uomo con le sue peculiarità e le sue idiosincrasie. Scoprii le sue abitudini quotidiane, la sua routine, la sua personale filosofia, e, pur non avendolo mai conosciuto, finii per farmi un’idea di ogni tratto della sua personalità.

Incontrai di nuovo Corrine nella biblioteca una settimana dopo. Le riferii tutto ciò che avevo scoperto, poi, interrogato in proposito, le riferii ancora altre cose. Qual era il fiore preferito di sua moglie? Ogni quanto stavano separati? Quell’uomo voleva bene a suo padre? Gli erano già venuti i capelli grigi? Qual era la sua posizione in società? A quando risaliva la sua fortuna? Era portato a infliggere crudeltà gratuite? Risposi a ogni domanda – grazie alla mia memoria, avevo assimilato ogni dettaglio della sua vita. Ma Corrine passò a domande che esulavano dai fatti che potevano essere imparati a memoria, a questioni di interpretazione. Era un brav’uomo? Cosa agognava nella vita? Era il tipo che traeva diletto dai torti percepiti? La notte dopo riprese il discorso chiedendomi di tratteggiare un ritratto di quell’uomo fino all’ultimo filo del suo panciotto. Durante l’interrogatorio della notte successiva, mi accorsi di rispondere piú facilmente alle domande piú teoriche, e l’ultima notte ne parlavo ormai con una tale disinvoltura che mi sembrava si trattasse della mia stessa vita. Ed era proprio quello il punto a cui Corrine voleva arrivare.

– Ora, – disse, – hai letto abbastanza per sapere che quest’uomo è in possesso di una proprietà cui tiene in modo particolare.

– Sí, il fantino, – dissi. – Levity Williams.

– Esatto. Quest’uomo avrà bisogno di un permesso di circolazione giornaliero, una lettera di presentazione per la destinazione successiva e infine un certificato di affrancamento firmato dal padrone. E sarai tu a fornirli.

Tirò fuori un astuccio metallico e me lo passò. Aprendolo, vidi che conteneva una bellissima penna, e prendendola in mano capii che doveva essere dello stesso peso di quella utilizzata dall’oggetto dei miei studi.

– Hiram, il travestimento deve calzare a pennello, – disse. – Il permesso giornaliero deve avere la consueta frettolosa noncuranza, le lettere lo stile fiorito dei documenti ufficiali, e il certificato di affrancamento l’arroganza che contraddistingue quel detestabile genere di persone.

C’era ancora il problema concreto di copiare la calligrafia e la firma. Ma la mia memoria e il mio talento per l’imitazione ebbero facilmente la meglio. Non era una cosa molto diversa da quella che avevo fatto anni prima quando Mr Fields mi aveva mostrato l’immagine del ponte. Piú arduo fu riprodurre le idee e passioni di quell’uomo con sicurezza e disinvoltura, come se appartenessero a me. Non ho mai dimenticato quella lezione. È stata essenziale per quello che sono diventato, per riuscire infine a sbloccare e a vedere ciò che avevo rimosso.

Non so se quei documenti riuscirono davvero a liberare Levity Williams. Tutto quel che facevamo era circondato dal segreto. Ma in ogni caso mentre falsificavo quelle carte sentii una cosa nuova crescere dentro di me, e quella cosa nuova era il potere. Quel potere nasceva dal mio braccio destro, si comunicava alla penna e divampava attraverso lo spazio fino a colpire al cuore i nostri aguzzini.

Presto diventò un lavoro abituale. Ogni qualche settimana Corrine mi consegnava una nuova busta. E ogni settimana io mi cucivo addosso il travestimento, cosí che a volte non riuscivo piú a capire dove finivo io e dove cominciava il Padrone. Ormai li conoscevo bene. Conoscevo i loro figli, le loro mogli, i loro nemici. La loro umanità mi feriva, perché anche fra loro c’erano affetti familiari, anche fra loro c’erano giovani amanti alle prese coi rituali del corteggiamento, e anche fra loro c’era sofferenza, c’era una fosca comprensione del peccato del Servizio. E anche fra loro c’era il timore di essere essi stessi schiavi di un qualche Potere, di un qualche Dio, di un qualche Demone del vecchio mondo che senza rendersene conto avevano sguinzagliato nel nuovo. Sentivo quasi di volergli bene. Il mio operato richiedeva nientemeno che questo: andare oltre il mio odio e il mio dolore, vedere quelle persone nella loro interezza e poi, con un tratto di penna, annientarle e distruggerle.

Ogni anima che noi spedivamo verso la libertà era per loro un duro colpo. E non ci limitavamo a questo. Restituivamo i documenti dopo averli riveduti e alterati. Le nostre falsificazioni creavano diverbi. Cambiavamo i risultati delle inchieste. Fornivamo prove di fornicazione. Adesso la mia rabbia era libera di scatenarsi non solo su Maynard e mio padre ma su tutta la Virginia, e ogni notte appagavo quella rabbia sotto le lanterne al lungo tavolo della biblioteca.

Poi andavo a letto, esausto. Nel sonno sfuggivo agli uomini che studiavo ogni giorno e sognavo invece luoghi lontani: un piccolo appezzamento di terra, un ruscello che scorreva portando via ogni guaio. Sognavo Sophia. Nei giorni buoni. In quelli cattivi invece i miei sogni erano atroci, e rivedevo la prigione, il ragazzino, sua madre che invocava l’ira di Dio sui Segugi di Ryland: «Segugi di Ryland! Possa un fuoco nero consumare le vostre ossa malvagie e perverse!» Vedevo un uomo che aveva amato una donna e smarrito il proprio nome. E vedevo il tradimento di cui ero stato vittima, le risatine, i gemiti, la corda. In quei giorni mi svegliavo con una sensazione diversa, una sensazione molto specifica, mi svegliavo pensando alle cose che avrei fatto se avessi incrociato di nuovo la strada di Georgie Parks.

Ma se mi avevano arruolato nella Sotterranea non era perché mi vendicassi, e neanche per qualche semplice falsificazione, ma per il potere che ritenevano avessi. Se solo avessimo imparato a innescarlo, a controllarlo e sfruttarlo. C’era un’unica persona che sapeva farlo, una come me, che però, a differenza di me, padroneggiava quel potere. Nella sua zona del paese era cosí amata e celebre per le sue imprese prodigiose che la gente di colore di Boston, Filadelfia e New York l’aveva soprannominata Mosè. Il suo potere veniva chiamato «Conduzione» – la stessa parola che Corrine aveva usato per definire il potere che avevo io – per come «conduceva» la Servitú dall’assoggettamento nei campi del Sud alla libertà nelle terre del Nord. Ma Mosè teneva la bocca chiusa e non voleva spiegare alla Sotterranea della Virginia il modo in cui operava. E cosí bisognava che mi arrangiassi da solo, o per meglio dire bisognava che loro con me si arrangiassero da soli.

Decidemmo di fare degli esperimenti. Innanzitutto concordavamo sul fatto che per innescare il potere avrei avuto bisogno di un qualche stimolo, forse di una qualche forma di minaccia o dolore. Inoltre, in base alla mia esperienza, pensavamo che il potere fosse legato ad alcuni momenti indelebili della mia vita – e in particolare io ricordavo che c’era una specifica connessione con mia madre. Ma come evocare quelle memorie e renderle utilizzabili? Corrine e i suoi luogotenenti ricorsero a ogni sorta di stratagemmi. Hawkins mi incatenò e mi chiese di ricostruire in ogni dettaglio il tradimento di Georgie Parks. Mr Fields mi bendò e mi portò nella foresta, facendomi ripercorrere passo passo il giorno in cui ero precipitato nel Goose. Io ed Amy ci incontrammo alle scuderie e io le raccontai tutto quel che sapevo del comportamento criminoso di mio padre con mia madre. Un sabato andai in carrozza con Corrine e le riferii quel che provavo quando accompagnavo Sophia da mio zio. Ma la luce azzurra della Conduzione non si manifestò, e ogni volta che finivo la mia storia, per quanto avessi avvinto i miei ascoltatori e mi fossi straziato il cuore coi ricordi, mi ritrovavo al punto di partenza.

Il pomeriggio dopo il giro in carrozza, dopo quell’ennesimo tentativo abortito di innescare la Conduzione, io e Corrine entrammo insieme in sala da pranzo. Mr Fields e Hawkins erano lí a bere il caffè. Ci salutarono e poi andarono via. Ormai eravamo nel pieno dell’estate, con le sue giornate lunghe, il che significava meno ore di buio per i nostri esperimenti. Ricordo la terra che si risvegliava, e la sensazione trascendente di risvegliarmi anch’io insieme a lei. Ma ancora niente Conduzione.

Ci sedemmo al tavolo e continuammo la nostra conversazione fino ad aver passato in rassegna ogni punto. Poi Corrine disse: – Hiram, la verità è che, alla luce di qualunque altro criterio di valutazione, tu sei diventato un ottimo agente. Questa per noi sarà una manna, perché verrai mandato in missione tenendo conto solo delle nostre necessità, e non dei tuoi limiti. Forse per te questo non significa niente, invece dovrebbe. Sai… non tutti qui ce la fanno.

In realtà quel complimento per me significava molto. Avevo vissuto tutta la vita al servizio di mio padre e mio fratello. Qualunque passo avanti facessi, qualunque traguardo raggiungessi, anche quelli resi possibili da mio padre, venivano accolti come una minaccia al legittimo ordine delle cose. Adesso invece, per la prima volta in vita mia, ero in sintonia col mondo che mi circondava.

Però mi chiedevo cosa ne fosse stato di coloro che non ce l’avevano fatta, di coloro che erano stati messi al corrente dei segreti della Sotterranea della Virginia ma poi si erano dimostrati inaffidabili. Ormai sapevo tante cose… troppe, pensai, per poter tornare nel mondo.

– La verità è che non ce l’aspettavamo, – continuò lei. – Sapevamo che eri istruito. Sapevamo della tua memoria. Sapevamo che eri stato cresciuto a contatto con l’alta società. Ma non immaginavamo che saresti riuscito a indossare la maschera cosí facilmente. Sapevamo che ti avevano dato la caccia. Ma non pensavamo che nel tempo trascorso là sotto tu avessi acquisito una tale scaltrezza.

A quel punto s’interruppe, e capii che stava per cominciare la parte piú tenebrosa della nostra conversazione. Corrine aveva abbassato gli occhi, cercando le parole. Allora pensai alla padronanza che aveva dimostrato con me a Lockless, nella biblioteca di mio padre, e a come invece adesso le fosse venuta a mancare, e mi venne da pensare che era davvero tutta un’illusione, che quell’intero ordine era artefatto, era un sortilegio, tenuto in piedi da un’elaborata messinscena, da rituali e corse dei cavalli, meretrici e parate, cipria e belletto… era tutto uno stratagemma, e ora, senza quella messinscena, noi non eravamo altro che due persone, un uomo e una donna. Volevo alleviare il suo disagio, e cosí feci quel che tanto spesso evitavo di fare. Parlai.

– Ma questo non è sufficiente, – dissi. – Correre, leggere, scrivere… non è per questo che sono stato portato qui. Perciò non è sufficiente.

– No, – disse lei. – Non lo è. Hiram, in questo mondo ci sono nemici che non possiamo semplicemente lasciarci alle spalle. E tanti dei nostri amici sono rinchiusi nel sepolcro della schiavitú, troppo in profondità per poterli raggiungere: a Jackson, a Montgomery, a Columbia, a Natchez. Ma questo potere, questa «Conduzione», è la ferrovia che può far durare un istante il viaggio di una settimana. Senza questo potere possiamo soltanto minacciarli i nostri nemici. Con questo potere la distanza non ci ostacolerebbe piú e potremmo colpirli ovunque. Insomma, abbiamo bisogno di te, Hiram… non solo dell’Hiram falsificatore di lettere e dell’Hiram corridore, ma dell’Hiram in grado di riportare questa gente, la nostra gente, alla libertà che spetta a tutti.

La capivo bene. Ma stavo ancora pensando a coloro che non erano stati all’altezza delle attese.

– E cosa ne fareste di me se non ce la facessi? – chiesi. – Mi terreste per sempre qui in mezzo alle vostre falsificazioni? Mi rimettereste in quel buco?

– Certo che no, – disse Corrine. – Tu sei libero.

Libero. Nel modo in cui l’aveva detto c’era qualcosa che mi turbava, che mi bruciava, anche se in quel momento non avrei saputo dire perché.

– «Libero», dici. Eppure servirò. L’hai detto tu stessa… e servirò nel modo che tu deciderai e stabilirai. Io faccio quello che vuoi tu. Io vado dove dici tu.

– Mi attribuisci troppa responsabilità, – disse lei.

– Chi altro c’è? Cos’è questa Sotterranea, a parte quel che ho visto qui? Chi viene portato via? Io non ho visto nessuno. E la mia gente? E Sophia? E Pete? E Thena? E mia madre?

– Abbiamo delle regole.

– Regole riguardo a cosa?

– Regole riguardo a chi può essere portato via e come.

– Bene, allora mostratemele.

– Le regole? – domandò lei, perplessa.

– No. Le azioni. Le persone che stiamo liberando. Anzi. Meglio ancora. Dici che ho superato ogni aspettativa. Allora lascia che sia io a farlo.

– Hiram, – disse lei, con voce bassa e preoccupata. Credo si rendesse conto che in quel momento rischiava di perdermi. Che se non mi avesse dimostrato che non era tutto un trucco me ne sarei andato, e con me ogni speranza di Conduzione.

– Benissimo, – disse. – Vuoi che ti mostri qualcosa. Te lo mostrerò.

– Niente scherzi? – chiesi. – Sul serio?

– Piú sul serio di quel che pensi, – disse.