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Martedì
(Due cadaveri tra le sfere)
ORE 1
L’aria della sala da gioco del Decamerone cominciava a farsi irrespirabile. Sette tavoli erano ancora in opera, quattro di bridge e tre di poker.
Ventotto persone, di cui più della metà donne, giocavano e fumavano.
Liquori verdi, bianchi, gialli nei bicchieri di cristallo.
Gettoni bianchi, neri, rossi, a mucchi, a colonnine, a file serpeggianti, presso le scatole delle sigarette, ai portasigarette, alle borsette d’oro, di raso, di cuoio, di velluto, d’avorio.
Pupille verdi, grigie, azzurre, castane, nere; acquose, arse, brillanti, spente, allucinate, dilatate; immobili, guizzanti, fisse, danzanti.
Sorrisi, ghigni, smorfie.
Spalle: nere, grigie, turchine degli uomini; bianche, arrossate, carnose, flaccide, sode, opulente, ossute, frementi, al bianco di Spagna, alla cipria di Coty, al talco di Rimmel, delle donne. Spalle curve, spalle immobili, spalle convulse.
E mani: l’eloquenza ingannevole di quelle mani coi cartoncini di bristol fra le dita!
«Passo».
«Apro».
«Cento».
«Duecento».
«Piatto».
«Vedo! ».
Rumore di gettoni. Silenzio. Il silenzio, in una sala da gioco, ha sempre qualcosa di formicolante, di viscido; è sempre colmo di fermentazione molecolare, come il silenzio di una notte illune sopra uno stagno melmoso. Un riso breve, saltellante. Una parola mozza. Una frase tagliente. Rumore di gettoni. Fruscio di un foglio gualcito nervosamente. E poi di nuovo il rosario monotono delle parole convenzionali, ermetiche e grottesche come il gergo d’una confraternita segreta.
«Ah! il cuore, che mi si strizza come una spugna... Ho già tolto i due fogli azzurri dalla borsetta di raso... Li ha lei, li ha lei! E ride!...».
«Perché si comprime il petto a quel modo, con le balene del busto?! Ma è folle... Spera, forse, che la sua grassezza oscena non si veda? E gioca e perde... Davvero potevo fare a meno di mettere i miei brillanti questa sera, mio marito non crederà egualmente che sia andata alla Scala... Mio marito! Se morisse... Perché ogni giorno che passa continua a esser vivo, mio marito!...».
«Le ho vinto duemila lire... Tra poco mi alzo e smetto di giocare... Duemila lire. Pagherò l’affitto di casa, darò un acconto al droghiere e al carbonaio... Bisogna che paghi tutti domattina... e adesso, prima di entrare in casa, dovrò nascondere il denaro, perché lui non lo veda... Ah! la Moroni fa la guardia sulla porta... s’è accorta che ho vinto... mi chiederà un prestito... No!... Basta!».
«Un’altra serata perduta! Neppure cento lire di vincita e lei non mi ha mai rivolto la parola, se non per il gioco... È stupido sperare qualcosa da questa donna... Tradisce il marito, ma ha paura di perdere i brillanti che le ha dato lui, e che è capace di toglierle, se scopre qualcosa. E quell’altra cretina, che non si è accorta che Nennele fila le carte, quando tocca il mazzo a lei... Ma perché io vengo qui tutte le sere? Perché? Perché? Come fa ad avere i capelli di rame ardente? E quella pelle! E quel corpo... E quegli occhi che hanno il colore delle violette...».
ORE 1,30
«Romeo, spegni il salone e la saletta...».
Il cameriere si alzò dal piccolo tavolo, davanti all’uscio d’ingresso, chiuse a chiave il tiretto, si diresse claudicante a spegnere le luci delle sale.
«Ancora mezz’ora e poi me ne vado a letto! Adesso farò la consegna della cassa a quel cretino... La cassa! Trentasette e cinquanta in tutta la sera... I biglietti d’ingresso alla conferenza. Mi fanno ridere le conferenze di questa gente... Cominciano alle dieci e terminano alle dieci e mezzo. Circolo d’arte e di letteratura... L’arte e la letteratura delle carte da gioco... Quella è la loro conferenza! Altro che le trentasette lire e cinquanta... Avrà contato le persone che hanno pagato, stasera? Persino il mezzo biglietto d’un ragazzo! Però, io provo a dargliene trenta! Per quel che mi pagano a star cinque ore ad assistere a tutte le loro porcherie...».
Il cavaliere si avvicinò alla consorte. «Hai preso accordi con la Monterossi?».
Sofia Moroni presidentessa del circolo di cultura Il Decamerone e autrice di Liù, fior d’acanto, romanzo non ancora pubblicato e non scritto, guardò suo marito, volgendo un poco il capo sopra la spalla, con infinito disprezzo. «Aspettavo che lo facessi tu! C’è da pagare l’affitto e tutto il resto... Se non riesce il colpo col senatore, stiamo freschi. Ci rimandano a Shangai col benservito!».
«Che cosa fai, lì? A momenti sono le due. È ora di chiudere».
«Sto aspettando che s’alzi Nennele... Ha vinto più di duemila lire stasera... Lo sai che domani c’è la cambiale del vecchio... Non sarà certo con l’incasso della conferenza che la pagherai!».
«Nennele non ti presta più un soldo!».
«Lo vedremo... Come se non sapesse che son capace di... La vuoi smettere di fregarti le mani a quel modo? Sei irritante! Ah, marchesa... Il poker è il più gran nemico della letteratura ch’io conosca! Se sapesse che conferenza ha perduto stasera... Virgilio Nepenti è davvero un artista, un grande artista... Ha parlato di Sofocle come lui solo può fare!... Una delizia...».
«Ma non ha parlato di Sofocle! Sono stanca. È dell’ultimo romanzo di Körmendi, che ha parlato! Come ho fatto a pensare a Sofocle, proprio adesso... Ci deve essere una ragione! Il mio subcosciente lavora in modo impressionante...».
«Non ho perduto soltanto la conferenza, mia cara presidentessa, ho perduto anche un migliaio di lire...».
Dalla sala da gioco venne acuta la voce di Violetta Sartori: «Cameriere... Garçon, s’il vous plaît, encore un whisky... ma senza soda... Voglio ubriacarmi, stasera...».
La marchesa ebbe un moto di noia e si volse a guardare la ragazza, che aveva parlato. Era un tipo, sebbene fosse palese lo sforzo che faceva per esserlo. I capelli neri tagliati corti e divisi da un lato alla foggia maschile di dieci anni prima incorniciavano un volto irregolare, dalle linee pesantemente segnate, ma non privo di espressione. Olivastra di pelle, aveva gli zigomi color terracotta e gli occhi neri brillanti, un poco strabici, «leggiadramente strabici» dicevano le altre donne davanti a lei. Indossava un abito di seta nera, opaca, che le modellava il corpo acerbo e che le si apriva sul petto con uno sparato di raso bianco.
Era grottesca, ma interessava.
«Tutte le sere recita la stessa commedia!».
Sofia Moroni fu presa dal suo tic nervoso, che le contorceva la bocca e le faceva gettare il capo sopra una spalla... Non voleva che le «sue socie» si facessero giudicar male.
«È una ragazza piena d’ingegno... Un temperamento d’eccezione...».
Ma Violetta Sartori s’era alzata, gettando le carte sul tavolo. «Non gioco più. Neppure il gioco mi distrae, stanotte. Voglio bere... È ancora l’unica cosa che ci permetta di continuare a vivere, l’ubriachezza...».
«È vero! È vero! Ha ragione! E io ho perduto le duemila lire, che dovevano servire a salvare Margaret! Che cosa debbo fare, adesso? Non posso neppur bere, io! Debbo uccidermi».
«Violetta!» pronunziò la voce irata e autoritaria della presidentessa. «Violetta!».
«Oh, sai, Sofia, io m’infischio di te e del Decamerone... Quando ci leggi qualche capitolo di Liù, fior d’acanto?... Garçon, saligaud d’un saligaud, ti vuoi decidere a portarmi questo whisky?».
«Signore e signori, sono le due. È l’ora fissata dal regolamento. Il circolo si chiude».
Rumore di gettoni e di seggiole. Occhi fissi, immobili, allucinati, sperduti, guizzanti. Spalle di carne fremente. Mani che danno denaro, mani che lo afferrano. Dita che fremono e tremano.
Romeo col passo claudicante corre a prendere pastrani, mantelli, pellicce.
Scalpiccio per lo scalone di marmo. Fruscio di gonne. Sussurrio. Risate. Sbadigli.
«Romeo, la cassa...».
«Trenta lire...».
«Trentasette e cinquanta...».
«Come vuole...».
«Ha contato persino il mezzo biglietto!».
Tutte le luci spente. Nel buio le cose vivono?
Tre giri di chiave alla serratura in basso; due scatti di molla alla yale in alto. E il cavaliere comincia a scendere lentamente i gradini dello scalone.
Un’altra notte è passata... È stanco. Si riposerà finalmente. Otto ore di sonno accanto a Sofia, che parla mentre dorme e si lamenta. Per fortuna lui ha il sonno pesante! Che fatica si fa, a vivere! E alle undici del mattino dovrà essere ancora lui, a risalire quei gradini, per andare ad aprire la porta del circolo...
ORE 11
Tre giri di chiave alla serratura in basso, due scatti di molla alla yale in alto.
Il cavaliere, aprendo la porta del Decamerone, pensava che prima delle sedici doveva pagare la cambiale del vecchio... Sofia avrebbe provveduto come sempre: ne aveva pagate ben altre di cambiali, Sofia... E in fondo, questa qui, non era neppure di quattromila! Tremilaottocentosessanta, con gli interessi...
«Buon giorno, cavaliere».
«Buon giorno, Romeo! Sempre primo io, eh? Magari di un minuto, ma sempre io per primo!».
Romeo gli passò davanti, senza rispondere.
«Per quel che mi paghi! Se non zoppicassi e se non ci fossero le mance della saletta, non mi vedresti né alle undici, né mai!».
Spalancò la finestra dell’anticamera, entrò nella sala da gioco. Adesso, c’era da far pulizia, ma prima di tutto, aria!
Un grido risuonò strozzato, lacerante, atroce.
Romeo ebbe un brivido lungo la schiena. Trovò la forza di non cadere. Corse fuori. Sulla soglia del salone si scontrò col cavaliere, che ne usciva.
«Un cadavere! C’è un cadavere, lì dentro!».
Tutti e due assieme si lanciarono, scesero lo scalone, scivolando, cadendo, rotolando. Furono per la strada.
«Corri a chiamare un vigile...».
Romeo arrancò per via Fiori Oscuri, raggiunse il Pontaccio, si gettò addosso al vigile, che regolava la circolazione del crocevia.
«Al Decamerone, in via Fiori Oscuri... corra, la scongiuro! C’è un morto!».
Il vigile spalancò le braccia, pel segnale di via libera, le alzò, le incrociò: con gli occhi seguì la corrente delle auto e dei tranvai.
Poi si volse a guardar l’uomo. «Che dice?».
«C’è un morto!».
«Telefoni in Questura! Io non posso muovermi di qui...».
E fece un mezzo giro sui tacchi, per ripetere il suo gesto meccanico e ieratico in senso trasversale: la corrente dei veicoli, interrotta da una parte, fluì rapida dall’altra.
ORE 11
Pietro recava la tazza di latte fumante sul vassoio d’argento, con la piccola fiala contagocce dello strofanto.
Traversò le sale, col suo passo leggero sui tappeti soffici. Passando per lo studio guardò la pendola di Boule sul caminetto: le sfere dorate segnavano l’ora per lui consueta. Alle undici il marchese doveva essere svegliato.
Si fermò un istante davanti alla porta laccata di bianco e filettata d’oro. Con la mano libera si diede una tiratina al panciotto rigato, si toccò la cravatta bianca. Ogni mattina, meccanicamente, ripeteva lo stesso gesto. Poi mise la mano sul saliscendi e aprì, facendo girare il battente.
Non vide che buio, dapprima. Poi, come sempre, scorse i riflessi della spalliera di mogano del letto. Depose il vassoio sopra un piccolo tavolo, presso l’uscio. Si diresse alla finestra e ne aprì gli scuri. Entrò il sole. La stanza fu invasa dalla luce.
«Signor marchese, è l’ora...».
S’interruppe. La voce gli si era strangolata nella strozza. Con gli occhi sbarrati fissava il letto, che era vuoto. Poi lo sguardo gli corse alla poltrona, presso il caminetto.
Il marchese Goffredo Vitelleschi del Verbano giaceva rovesciato in terra, con le spalle e il capo bianco contro il sedile della poltrona, dalla quale doveva essere caduto. Una smorfia di dolore atroce gli sconciava il volto, sconvolgendoglielo. Aveva gli occhi smisuratamente aperti, vitrei, terribili. Le gambe rattrappite gli si erano piegate sotto il corpo.
Pietro, che serviva in casa Vitelleschi da quarant’anni, si fece il segno della croce e mormorò: «Requiescat in pace!».
Poi si diresse alla porta, per andare ad avvertire la governante e le cameriere.
Traversando la sala d’ingresso, vide sopra il tavolo, ancora avvolto nella carta, lo specchio nuovo, moderno, che aveva comperato poco prima, e allora pensò che alle undici e mezzo sarebbe venuto il notaio Narboni, che lui aveva chiamato per telefono, secondo gli ordini datigli dal padrone la sera prima.