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Martedì

(Lutto a palazzo)

ORE 11,30

Pietro contemplava il dottore col suo sguardo chiaro, tranquillo, consapevole.

«Non capisco perché osservi la salma del signor marchese con quell’aria preoccupata, come se si trovasse davanti a un pericolo... Vuol forse penetrare il mistero della morte? Perché mai i morti fanno paura? I vivi, invece...».

Il dottore si sollevò dal cadavere, che aveva deposto sul letto.

«Occorre l’autopsia...».

Pietro fece un passo verso di lui.

Le due cameriere, che eran rimaste sulla soglia, fra i battenti spalancati della porta laccata di bianco e filettata d’oro, continuarono ad avere la loro espressione stupefatta. Vedevano il cadavere del marchese, ma non avevano capito le parole del medico.

«Faccio osservare al signor dottore...».

«Che cosa? Che cosa volete far osservare?».

Era lungo, magro, disseccato anzi e, per essere ancora giovane, troppo giallo. Per questo, forse, la sua voce suonava fessa, gracchiante, aveva il suono di due tavolette concave percosse fra loro. E per questo, certo, si irritava facilmente.

«Dico con umiltà al signor dottore che scoppierebbe uno scandalo... Un gravissimo scandalo, se la salma del signor marchese venisse manomessa...».

«Ah! Credete? Me ne infischio io dello scandalo!».

«Lei è il medico curante del marchese...».

«Sì. Ma la morte del marchese... » e volse ancora lo sguardo al cadavere, che per quanto disteso sulla schiena continuava ad aver le gambe rattrappite e mostrava i lineamenti del volto tragicamente sconvolti «... non cessa d’essere poco chiara, anche se io sono il suo medico curante e se conosco benissimo la malattia che può averlo ucciso...».

«Può?».

«Appunto. Un attacco... Può darsi... ma il mio fiuto mi dice che non è stato soltanto un attacco di angina a soffocarlo...».

«Quelle ecchimosi ai polsi e alle braccia non se le è fatte da solo... E anche le gengive e il palato recano tracce di pressione estranea... Per quanto... ma no! Non ci vedo chiaro, insomma, e un piacere alla rossa vedova non sono affatto disposto a farglielo...».

«Insomma, avvertite la vostra padrona e chi altro credete... Io non do il permesso d’inumazione...».

«Sicuramente il signor dottore avrà il senso della responsabilità che si assume, e io non debbo insistere...».

«È matto questo qui!... Che cosa pensa? Che lo abbiano ucciso?... Ma come fa a supporre una cosa simile, se il marchese è stato tutta la notte solo nella sua camera? Forse, era morto; ma certo era solo!».

«Fate bene!».

Andò nella stanza accanto, che era il bagno, e si sentì correre l’acqua nel lavabo...

Pietro lentamente girò sui talloni, camminò verso la porta. Le cameriere, tutte e due piccoline, una magrolina e l’altra pienotta, una bionda spiga l’altra nera seppia, si scostarono, per lasciare il passo. Tremavano un poco; ma erano soprattutto sbigottite.

Pietro traversò le sale, fece di nuovo il cammino che aveva fatto col vassoio d’argento, rivide la pendola di Boule, le cui sfere dorate segnavano le undici e mezzo, lo specchio avvolto ancora nella carta sulla cassapanca della sala d’ingresso.

Entrò nell’appartamento della marchesa.

«Senza dubbio mi manderà al diavolo! Questa notte è rientrata a palazzo alle quattro... Finirà con l’ammettere, però, che la morte del marito è un avvenimento alquanto straordinario, tale da giustificare che io la svegli...».

«La signora marchesa voglia scusarmi!».

«Chi è? Ada! Perché permettete che possano arrivare fino alla mia porta? Ada, vi licenzierò!».

«La signora marchesa vorrà perdonarmi... Sono Pietro... Ho bisogno di comunicarle qualcosa di... insolito... di grave...».

«Ah... Ho sonno... Che ora è? È una pazzia volermi comunicare qualcosa di grave mentre ho sonno...».

«È necessario... La signora marchesa voglia consentirmi di entrare...».

Uno sbadiglio.

«Entrate!».

Il buio.

«Meglio che non mi veda... La mia voce sarà più impersonale: la notizia che sto per darle avrà valore per se stessa...».

«Che cosa può essere accaduto? Sarà mio marito che ha bisogno di parlarmi... Qualche noia! A meno che non abbia saputo...».

«Che ora è Pietro?».

«Le undici e mezzo, signora marchesa».

«E voi osate...».

«Il signor marchese...».

«Che vuole?».

«Più nulla! È morto».

«Un po’ brusco il mio modo; ma nell’oscurità...».

«Oh!».

Una forma chiara si sollevò sul letto.

«Morto!».

«Sì, signora marchesa».

«C’è il dottore?».

«Sì, signora marchesa».

«È lui che mi ha fatto chiamare?».

«Che cosa debbo risponderle? Perché mai sente il bisogno di fare una simile domanda?».

«Non importa, Pietro... Mandatemi Ada... Dovrò vestirmi...».

ORE 12

Il giovane notaio era figlio del notaio vecchio, che era sempre stato il legale di fiducia della famiglia Vitelleschi del Verbano. Ma non sembrava giovane. Non sembrava nulla. Era un uomo senza età. Neutro. Biondo. Pallido. Aveva due occhi, un naso, una bocca, come tutti gli altri; ma nessuno si sarebbe sognato di descriverli, tanto essi non avevano carattere. Lui aveva il carattere di non averne. Continuava a esser l’uomo di fiducia delle nobili famiglie milanesi.

Perciò, messo di fronte al dottore disseccato, poteva resistergli con la sua terribile inerzia passiva, che è una forza considerevole.

«L’autopsia! Voglio l’autopsia!».

Sembrava un bimbo testardo.

«Vedremo la procedura da seguire».

Era una macchina: messa la moneta, usciva il regalino.

«È semplice! Lei telefona in Questura e loro penseranno a provvedere».

«Non è semplice e io non telefonerò in Questura. Perché non risolvere i suoi dubbi con un consulto? Spesse volte il parere degli altri fa mutare il nostro».

Il dottore giallo agitò le mani in aria.

«Ma vuol farmi morire come quell’altro, questo cretino!».

«Le ho detto...».

«Lei mi ha detto che il signor marchese Goffredo Vitelleschi è morto di una embolia...».

«Le ho detto, perbacco, che questo è l’effetto che ha prodotto la morte, ma non la causa!».

«Si spieghi, la prego».

«Il marchese era malato di angina e di arteriosclerosi. Qualcuno può essersi servito della sua stessa malattia per ucciderlo... Non causa, quindi, ma mezzo».

«Non capisco».

«Ma vorranno farmi impazzire, insomma! Lui vuole l’autopsia... Che me ne importa, se vuole l’autopsia?».

«Perché continuate a parlare senza fine, voi due? Perché vi siete piantati in mezzo a questa sala e non fate che parlare? Non volete neppur sentire il mio parere?».

Delia aveva indossato una vestaglia cinese di seta rosa, con un gran fiume nero costellato di stelle d’argento. Era bella. Era più che bella, perché la sua bellezza mancava di regolarità e quindi non era monotona e non imponeva. Allettava, sconvolgeva. Soprattutto pei suoi capelli rossi, che avevano riflessi di cotto, bronzei.

Tutti e due si volsero verso di lei e tutti e due fissarono il fiume nero e forse le stelle d’argento; nessuno dei due, per ragioni diverse, era suscettibile di turbamento dei sensi.

«Mi scusi, signora marchesa, il mio dovere m’impone di tutelare l’onore della casata...».

«E crede di tutelarlo, facendo seppellire un misfatto?».

«Supposizione oltraggiosa e gratuita, per ora...».

«La scienza non oltraggia!».

«Basta! Se il dottore vuole l’autopsia, l’avrà. Lei, che è il notaio, darà tutte le disposizioni necessarie...».

I due si guardarono. Il dottore ebbe un sorriso di dispetto.

«Perché vuole esser lei a concedermelo? Come se non sapesse calcolarne le conseguenze!».

Il notaio non ebbe sorriso alcuno.

«Si può telefonare alla Procura, senza avvertire la Questura. È più discreto...».

Il medico alzò le spalle.

Delia si diresse lentamente verso la camera del morto.

«Quante volte ho pensato che poteva morire, che avrebbe fatto bene a morire? E perché mai, adesso che è morto, non sento quel senso di liberazione, non respiro quella libertà che mi aspettavo?».

Ne uscì subito.

«Pietro, provvedete per l’infermiera, che lo vegli... Dottore, potrà esser compiuta a palazzo, l’autopsia?».

«Se il giudice vorrà...».

«Altrimenti?».

«Al Monumentale...».

«Pietro, telefonate alla mia sarta... Dovrà darmi gli abiti da lutto oggi stesso...».