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Martedì
(Il pazzo del secondo piano)
ORE 14,10
La portinaia, al vedersi comparire sull’uscio dello sgabuzzino il commissario e i suoi compagni, si alzò in piedi e il gatto bianco le scivolò di grembo sull’ammattonato. Il marito dormiva col cranio calvo deposto sul tavolo, in mezzo ai piatti sporchi, ai bicchieri e al litro vuoto.
De Vincenzi avanzò verso la donna.
«Il signor Marco?».
Ma la vecchia sapeva. Corrono presto le notizie dei delitti, e arrivano sempre alle portinaie. C’era stato via vai e tramestio nel palazzo di marmo... era giunta l’auto della Scientifica... evidentemente qualcuno aveva parlato.
«Oh! Pover’uomo!». E alzò le braccia al cielo.
«Che cosa?».
«L’hanno ucciso! Che infamia!».
«Come lo sapete?».
«Eh? Come lo so? Muore un mio inquilino e vuole che non lo sappia?».
Inutile indagare: uno degli agenti di guardia al portone, raccolte le notizie dai colleghi che erano saliti, poteva aver parlato. Del resto, il male non era grave. Se De Vincenzi aveva sperato di cogliere la donna di sorpresa, non ne avrebbe avuto un gran vantaggio.
«Che ne dite?».
«Oh! C’era da aspettarselo!».
«Vostro marito dorme?».
Lei guardò di sbieco il cranio fra i piatti. «Quando non dorme, beve...».
«E il signor Marco? Parlatemene. Quale cognome aveva?».
«Il cognome?».
Si diresse al cassettone, che serviva da madia e da ripostiglio delle casseruole e dei tegami. Lo aprì e ne trasse un foglio ingiallito e unto.
«Se lo legga da lei. È uno dei primi nomi... Abitava al secondo piano».
De Vincenzi lesse: Marco Parodi, del fu Giovanni, nato a Genova il 14 maggio 1866, capitano di lungo corso in ritiro. Così, si spiegava il pastrano coi bottoni dorati. Ma non il cappello a staio e la redingote. L’uomo doveva aver preso un’altra strada e non acquatica, in seguito...
«Ebbene?».
«Come?».
«Quando è venuto ad abitare qui? Che vita faceva? Quali persone si recavano da lui?».
«Da lui? Non un’anima... Voglio dire, non una sola persona, di giorno... fin quando il portone era aperto... per quanto, in casa sua, quando si passava per le scale, lo si sentisse quasi sempre parlare...».
«Parlava da solo?».
«E chi lo sa? Chi diceva coi morti... cogli spiriti... Chi con un pappagallo... C’era qualcuno che pensava tenesse rinchiusa in casa sua una donna».
«E voi?».
«E io che cosa?».
«Perché avete detto: c’era da aspettarselo?».
«Perché un cristiano non vive a quel modo! E il diavolo arriva sempre dove c’è il fuoco. In casa sua non è mai entrato nessuno. Neppure i controlli del gas e della luce, perché lui aveva fatto chiudere i contatori e adoperava carbone e candele».
«Ma qualcuno vi andava?».
«Di notte, forse... L’inquilino del primo piano, che è fattorino al telegrafo, rincasando alle prime ore del mattino, ha veduto un uomo che saliva dal vecchio. E ha sentito aprire e chiudere la porta».
«Chi?».
«Dice un uomo, quasi sempre lo stesso; e una notte anche una donna elegante, giovane: ma io non ci credo. Il pazzo del secondo piano non era un uomo da donne... Per quanto!». Si strinse nelle spalle, diede un’occhiata al marito che non si muoveva, sputò in terra. «Gli uomini! Puah!».
«Quando è venuto ad abitare qui?».
«Saranno quattro anni...».
«Secondo piano, avete detto?».
«Non si può sbagliare: c’è una sola porta... Ma come fa a entrare?».
E gli occhi le lampeggiarono di curiosità avida al pensiero di potervi penetrare anche lei.
ORE 14,20
Di fuori, la casetta era cadente, puntellata, senza più intonaco né tinta. Per le scale era lurida.
Arrivarono sul ballatoio, davanti alla porta, e De Vincenzi si fece dare da Bargelli il mazzo di chiavi, che erano state trovate nelle tasche del morto.
«Tornate in portineria, voi! Presto, marsch!».
La vecchia discese brontolando, col cic ciac delle ciabatte sui gradini di sasso.
La serratura doveva averla fatta mettere il signor Marco, perché era una serratura inglese. De Vincenzi stava per introdurvi la piccola chiave quando si fermò. Fece ricadere la mano, si chinò a osservare. «Kruger!».
«Che c’è» chiese il professore, a cui le nari sottili ed esangui fremettero subito.
Kruger aveva già aperto la sua valigetta nera.
«Prima ancora delle impronte, esamini la toppa».
Il giovane trasse la lente.
«Hanno aperto questa porta con uno strumento di acciaio assai sottile... Uno strumento assolutamente perfezionato. Le tracce sull’ottone sono appena visibili...». Spruzzò la polvere bianca e non apparve nulla. «Non ci sono impronte...».
Però, non era persuaso. Spruzzò ancora, allargando la macchia bianca sui due battenti. Allora, apparvero alcune impronte nette, di dita piccoline. «Ecco!».
«Si direbbero impronte di donna...».
«Un momento!» e il professore guardò lui. «Sono indubbiamente impronte di donna... Bargelli, vada a chiamare il fotografo, dev’essere in istrada, nell’auto...».
Aspettarono tutti e tre sul ballatoio.
De Vincenzi osservava le scale. Il vecchio abitava al secondo piano: una unica porta, di faccia, in mezzo alla parete. La casa aveva tre piani. Al primo, la famiglia del telegrafista. E al terzo? Salì le due rampe: una porta eguale a quella del signor Marco. Non ebbe bisogno di suonare. Appena giunto sull’ultimo gradino, il battente si spalancò.
Una donna apparve. Il commissario fu colpito subito dallo scintillio di due grandi occhi e dal biancore di un volto incorniciato da una strana raggera di diavolini di carta. La donna aveva i capelli lunghi, neri come inchiostro. Che strano volto! Bello ancora, senza dubbio, eppure a tutta prima sconcertava e atterriva. Una Gorgone. Ma il corpo fugava subito ogni letterario ricordo mitologico. Era il corpo flaccido e oscenamente pingue di una matrona equivoca e repugnante. L’abito di seta rossa lucida le conteneva le forme comprimendogliele, i polpacci enormi, inguainati in calze di seta artificiale, avevano lunghi riflessi biancastri simili a sbavature di lumache.
Fissava con diffidenza il commissario che, all’apparizione, s’era fermato. «A quest’ora dorme. Come fate a non saperlo? Non ditemi che vi ha dato un appuntamento, perché non ci casco più... Lui si arrabbia ed è con me che se la piglia! Tornate, tornate! Alle diciotto lo troverete che si è appena svegliato».
Di chi parlava? «Ah! Sì, dorme? Ma io vorrei scambiare qualche parola con lei...».
«Con me?».
Rise, si passò le mani sul ventre obeso. Per poco non ammiccava. Ma guardò l’uomo che s’era mosso verso di lei, e il riso le si spense e corrugò le sopracciglia nere con improvvisa preoccupazione. «Che c’è di nuovo? Chi siete? Che volete da me?».
«Qualche informazione...».
«Ebbene?».
«Mi lasci entrare...».
L’anticamera sarebbe bastata da sola a far prevedere l’aspetto della padrona.
Una lampada d’ottone di stile moresco, un divano coperto da uno scialle giallo e argento, tipo «venditore di tappeti col fez», qualche sgabello nero di legno traforato e un gran mobile pure nero nello stesso stile. A completare, non mancava polvere, sudiciume e un odore greve, dolciastro, che mozzava il respiro e dava subito un senso di malessere.
«Ebbene?».
«Polizia».
« Ah! Possiedo le carte in regola. La licenza per affittare e tutto il resto! E poi non ho che un solo inquilino... che è...»;
«Suo parente», ironizzò De Vincenzi.
«No! Non è affatto mio parente e non ho alcun bisogno di farlo passare per tale, dal momento che la mia licenza è in regola... L’inquilino di cui vi parlo è un compito gentiluomo, un autentico visconte fiorentino, un uomo che non aspetta visite della polizia...».
«E che dorme, vero?».
«Sicuro, dorme... Rincasa sempre alle prime ore del mattino e di giorno dorme. Che c’è di strano? Ognuno vive come vuole, quando non deve rendere conto a nessuno...».
«Giusto».
De Vincenzi si sentiva soffocare. Il senso di malessere aumentava sempre più. Quell’odore... Ma che diavolo di odore era quello?
Dal basso venne la voce del professore. «Commissario! Aspettiamo lei per aprire...».
«Basta, per ora. Tornerò quando il suo inquilino si sarà svegliato...».
«Stasera?».
«Anche stasera...». Non voleva dir di più.
«Come si chiama lei, signora?».
«Vannetta Arcangeli...».
«Grazie!».
Molto probabilmente Vannetta Arcangeli e il suo visconte non avevan nulla a che fare col delitto commesso al Decamerone.
Il battente, accompagnato dalla mano della donna, lo seguì mentre usciva; ma lui attese invano lo scatto della molla. Cominciò a scendere, tendendo l’orecchio. Nulla... Sorrise: l’affittacamere lo stava spiando di tra l’uscio socchiuso. Quell’odore! Giunse sul pianerottolo del secondo piano senza esser riuscito a trovare da che cosa potesse venir prodotto quell’odore, che gli aveva dato subito un così forte malessere.
«Fatto?».
«Fatto!».
Il fotografo chiudeva il treppiedi.
«Ci sarà bisogno ancora di me?».
«Ora vedremo...».
Fece girare la chiave. Tre scatti. La porta cedette. Esitò prima di aprirla. La nausea l’avrebbe di nuovo afferrato alla gola? Il vecchio non permetteva a nessuno di entrargli in casa!
E l’odore? Quale altro odore avrebbe dovuto affrontare? Inconsciamente sentì di aver paura degli odori.
Dietro di lui il professore aguzzava lo sguardo e si protendeva col suo volto appuntito e mobile da faina. Quasi stava per spingerlo. Nessun odore. O meglio: una specie di aria lavata, fresca.
Tutto era lindo e chiaro, nell’anticamera. Qualche seggiola laccata di giallo canarino, un tavolo con una grande campana di vetro, e sotto la campana un enorme pezzo di silice cristallina, venata d’oro, un attaccapanni con un pastrano chiaro appeso con cura a due supporti, perché le spalle non facessero pieghe.
Erano entrati tutti, anche il fotografo.
Una porta in fondo e una sulla parete di destra, anch’esse dipinte di giallo, nette, lavate. L’anticamera prendeva luce da una finestra, che dava sul cortile.
De Vincenzi aprì la porta di destra.
Era la stanza da letto. Qui pure pulizia, chiarezza e sempre quel senso di frescura, che ora però diventava freddo rigido.
«Come faceva a vivere qua dentro, senza riscaldare?».
«Doveva esserci abituato. Un marinaio... Pelle adusata a tutti i climi...».
«E il piancito è di pietra!».
Di pietra era, e il vecchio doveva gettarvi gran secchi d’acqua ché non si vedeva un granellino di polvere.
«Oh! E questa?».
Il professore s’era immobilizzato davanti al cassettone di quercia, squadrato, massiccio, artistico certo nella sua rude semplicità; ma lui non guardava il cassettone.
Sul piano di esso si vedeva una barchetta di cristallo, una di quelle riproduzioni nautiche, che un tempo si facevano in cristallo, in avorio, in argento, da mettersi come gingilli nei salotti, accanto alla palla di vetro iridescente e alla statuetta cotta a Capodimonte. Questa, però, era qualcosa di più perfetto e di diverso: era la riproduzione esatta di una giunca cinese, con la vela a reticolato, alta e volante sull’unico albero sottile; rialzata a prua dalle cabine; piatta a poppa col timone a stanga. Aveva persino i due lunghissimi remi, deposti longitudinalmente, sul cassero.
«Magnifica! Come faceva a possedere un tal gioiello, quel vecchio in redingote e cappello a staio! Io le domando...».
De Vincenzi, fermo in mezzo alla stanza, si chiedeva per suo conto troppe cose, perché potesse rispondere alle domande degli altri...