Martedì
(Margaret)
ORE 15
La stanza da letto del vecchio aveva la giunca di cristallo, ma l’altra camera, che si apriva sulla parete di fronte all’uscio d’ingresso, serbava una sorpresa assai più grossa al commissario e ai suoi compagni. Distesa sul divano, con le mani e i piedi legati, un asciugatoio stretto attorno alla bocca e alla nuca, giaceva immota una donna. Fu la prima cosa che scorsero, appena fatta entrare la luce dalla finestra, che avevano dovuto aprire, subito, perché la stanza era al buio e non c’era nessun commutatore elettrico da girare.
De Vincenzi e Kruger si lanciarono. Tolsero il bavaglio, sciolsero i nodi.
La donna era giovanissima, bionda, bella. Aveva una pelliccia corta alle anche e sotto indossava un abito da sera, assai scollato.
«È morta!».
«Dorme. Le hanno dato un sonnifero...».
Il professore si chinò sul corpo, ascoltò il cuore, le fiutò le labbra, con un movimento che in tutt’altro momento sarebbe apparso comico.
«Nulla all’odore! Un sonnifero per bocca; ma il cuore le ha retto, e reggerà... Non è a venti anni che un sonnifero può produrre la morte... Però, bisogna farla portare via subito... Ne avrà per un paio di giorni almeno...».
Era bianca. Gli occhi infossati, incupiti da grandi ombre violacee. Le cartilagini nasali avevano la trasparenza d’una membrana. Respirava debolmente, con un impercettibile sollevarsi del petto.
De Vincenzi vide ai piedi del divano una borsetta di coccodrillo aperta. La raccolse: era vuota, completamente vuota. «Crede che si trovi in questo stato da molto tempo?».
Il professore si aggiustò gli occhiali.
«Non direi. È vero che il cuore le ha retto e che non è morta e non morrà; ma a lasciarla così ancora molte ore, forse non se la caverebbe...». Si precipitò verso il grande tavolo di centro e afferrò un bicchiere. Lo annusò. «Lo sapevo! Glielo hanno fatto bere. La faccia portare all’ospedale, più presto possibile...».
Kruger e Bargelli, a un cenno di De Vincenzi, sollevarono il corpo.
«Mettetela nell’auto... Bargelli, la accompagni lei solo all’ospedale e dica all’autista di correre... Lei, Kruger, ritorni subito qui...».
Seguì con lo sguardo il corpo, fin quando non fu scomparso oltre l’uscio, per le scale, e l’ultima immagine che ebbe di esso fu un braccio penzolante e una mano diafana lunga affusolata, che urtò contro lo stipite della porta, mentre i due uomini varcavano la soglia.
Erano rimasti il professore e il commissario nella stanza.
Il fotografo si era fermato in anticamera, aspettando di essere chiamato a far funzionare il suo treppiede.
«Io mi domando...» pronunziò lentamente il professore.
«Non si domandi più nulla per carità! E guardi piuttosto attorno a sé! Ha mai veduto un’accozzaglia tale di oggetti diversi e disparati?».
Il vecchio li teneva tutti in mostra, sul lungo tavolo certosino appoggiato contro una parete, sulla scansia a quattro ripiani, senza sportelli, che gli stava di fronte, nella parete opposta, persino sopra le seggiole.
«Una bottega d’antiquario!».
«Crede? Direi piuttosto il ripostiglio di un’agenzia di pegno...».
C’era di tutto, in fatto d’oggetti che avessero un valore e che fossero facilmente trasportabili. Una collezione completa di chiavi d’ogni foggia e di ogni epoca, da quelle cinquecentesche grandi e pesantissime, alle minuscole chiavi d’oro del Settecento, per aprire i forzieri e gli scrigni. Vasi di tutte le forme, d’argento, di bronzo, di porcellana. Orologi, come le chiavi, di ogni epoca. Tabacchiere antiche, sbalzate, incise, miniate, arabescate e portasigarette moderni d’oro e di platino. Stoffe preziose piegate e ammucchiate.
Il professore le prese e le svolse. Adesso, sì, che gli occhi gli brillavano!
«Adoro le stoffe antiche, io, e me ne intendo, sa? Guardi questo zendado, è prezioso! E questo broccato di alto ricamo! Persino un pezzo di tabì d’oro filato! Ah... Dove li ha presi?...».
«Dica piuttosto chi glieli ha dati! Chi è stato costretto a darglieli...».
«Già! È un’ipotesi... Ha la sua teoria, lei?».
«Neppur per sogno! Che teoria vuole che abbia?».
Teneva tra le mani il cordone che aveva stretto i polsi della giovane. Era di seta rossa e gialla. Un cordone da tenda, di quelli che usavano un tempo, quando le tende a panneggio costituivano l’ornamento immancabile ai salotti. Si guardò attorno e si accorse soltanto allora che la finestra e la porta avevano tende di broccato. I cordoni erano stati strappati da quelle della porta.
«Non c’è stata lotta», disse il professore.
Kruger tornava.
«Guardi un po’ quel che può fare, Kruger...».
De Vincenzi ebbe un sorriso di blanda ironia: le impronte!
«Professore, io le lascio il campo... Veda lei quel che trova... Poi mi dirà. Ora le mando un agente, che lascerà di guardia all’appartamento...».
Il professore non lo ascoltava più. Con un vaso di porcellana tra le mani, tenendoselo davanti agli occhi sollevato come un ostensorio, parlava da solo: «È un’imitazione dell’epoca di Yung Ceng... Non c’è dubbio... il rosso porpora è stato aggiunto nei vasi policromi dopo l’epoca dei Sung, quando le porcellane eran tutte monocrome... Da quale museo lo avranno rubato?».
Quando fu di nuovo per le scale, De Vincenzi a un tratto si fermò e guardò in alto, al ballatoio del terzo piano. Aveva trovato! L’odore che impregnava le camere di Vannetta Arcangeli era quello tenace del fumo dell’oppio...
ORE 15
Claudia Sutton, la contessa, aprì gli occhi con un senso d’angoscia. Aveva dormito pesantemente. A che ora era tornata a casa dal Decamerone? Non lo sapeva. Non sapeva più nulla. Dal momento in cui, perduti i suoi due biglietti azzurri, aveva cominciato a sentire il peso della catastrofe caderle addosso, non s’era più resa conto di nulla. Aveva continuato a giocare, a bere liquori, a parlare, a muoversi come un automa. Un senso di abbandono totale l’aveva invasa e appena nella sua camera – chi ce l’aveva guidata? come aveva potuto raggiungerla? – s’era messa a letto ed era caduta nell’incoscienza di un sonno catalettico.
Adesso, nel crepuscolo del risveglio, l’angoscia l’afferrava. Sentì l’asma mozzarle il respiro, soffocarla. Si levò a sedere sul letto, agitò le mani davanti a sé. Stava per gridare; ma si trattenne. Non voleva veder subito Margaret. Che cosa le avrebbe detto? Riuscì a calmarsi, a ritrovare un ritmo quasi regolare di respiro.
Che ora era? Dalle finestre chiuse trapelava il chiarore del giorno. Accese la luce della lampada accanto al letto e guardò l’orologio: le tre.
Le tre del pomeriggio! Ebbe un sussulto. Come mai l’avevano lasciata dormire fino a quell’ora? Come mai sua figlia non l’aveva destata, non era venuta a chiederle il denaro?
Le tre! Ma allora? Margaret avrebbe dovuto consegnare il denaro prima delle dodici! Ricordava la lettera, perentoria: Alle 12 e 5 minuti, se lei non sarà venuta da me, manderò i documenti.
Ed erano le tre! E lei aveva dormito, dopo essersi giocato il denaro, che doveva salvare la vita di sua figlia. Poiché certo Margaret non avrebbe sopportato il colpo. Non si sarebbe rassegnata all’infamia del disonore, a perdere l’amore dell’uomo che adorava.
Claudia gettò lontano le coperte, scese dal letto, ravvolse l’enorme corpo nella vestaglia. Trovò le pantofole, dopo essersi chinata a cercarle e quasi era caduta, sopraffatta dallo stordimento fisico, dal battito precipitato del cuore, da quell’angoscia che la attanagliava. Si sollevò ansimando, si compresse con le mani il seno. Dovette rimanere immobile per qualche istante, prima di poter camminare verso la porta.
Girò per le camere. Vuote! Dov’era Margaret? Dove era Margaret? La chiamò, gridandone il nome disperatamente.
Tornò nella camera di sua figlia, e allora si accorse che il letto non era stato toccato. Margaret non si era coricata. Cercò nell’armadio, sconvolse con mani febbrili i vestiti: c’erano tutti, tranne un vestito da sera e la pelliccia. Margaret era uscita di casa la sera prima e non era rientrata!
Ebbe, di colpo, il senso della enorme rovina che le si era abbattuta sopra e non trovò la forza neppure di piangere. Fu dopo molto tempo che riuscì a sollevarsi dalla poltrona nella quale era caduta. Tutto il corpo le doleva, aveva il cervello fluido, liquefatto. Che poteva fare? Nulla.
Si trascinò fino in camera sua. Le finestre erano chiuse, la luce ardeva accanto al letto. Di nuovo sedette. E continuò ad aspettare.