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Martedì
(Complicazioni)
ORE 15
Il notaio era andato via, affermando al dottore che avrebbe provveduto ad avvertire la Procura del Re. Era uscito dal palazzo alla mezza.
Il dottore aveva atteso che giungesse l’infermiera, chiamata da Pietro per telefono.
All’una e venti, l’infermiera era giunta, e il dottore le aveva dato la consegna. «È morto. Nulla da fare. Ma sedersi accanto al letto e non muoversi e non far toccare il cadavere da alcuno. Intesi? Lei deve considerarsi assoluta padrona in questa stanza. È in servizio di guardia, lei! Tornerò fra un paio d’ore. Le novità le avremo, al mio ritorno».
E il dottore era uscito dal palazzo all’una e tre quarti, per recarsi prima al Savini a far colazione, poi in Questura.
L’infermiera si era seduta di fianco al letto di mogano, aveva incrociato le mani in grembo, e aveva cominciato la sua guardia.
«Un servizio riposante, questo! Veglia al morto... Non è uno dei servizi che mi piaccia di più, però. Soprattutto di notte: ci si addormenta e poi ci si desta all’improvviso con un gran sussulto. Di notte, quando ci sono le monache che pregano, è impossibile tener gli occhi aperti. Qui, invece, è giorno e non c’è nessuno che preghi. Non aveva famiglia? Io non ho visto che il cameriere. Un bel palazzo... Fa freddo in questa stanza... Eppure c’è il termosifone e c’è il caminetto anche. Ma è spento... Che cosa ha voluto dire il medico, con quel suo le novità le avremo al mio ritorno? Perché io non debbo permettere ad alcuno di toccare il cadavere? Non è piacevole da guardarsi, questo cadavere! E il dottore si è persino dimenticato di chiudergli gli occhi! Oh! Ma è un sacrilegio. Non ho mai veduto una cosa simile! E i signori credono d’esser ben serviti, col loro denaro! Io non gli abbasso le palpebre di sicuro, senza averne avuto l’ordine... Sono le due e un quarto. Tant’è! Non posso guardar più il cadavere, da quando mi sono accorta che non gli hanno chiuso gli occhi...».
Alle tre l’infermiera era ancora seduta, ma aveva portato la seggiola molto lontano dal letto, quasi presso al camino, e fissava per la grande finestra aperta le cime degli alberi, spoglie di verde, del giardino...
«Questi palazzi di corso Venezia hanno tutti il giardino... Certo, è molto bello avere un palazzo con un giardino. Ma si muore anche quando lo si possiede...».
«Ah! Chi c’è qui? Chi siete?... L’infermiera, naturalmente!».
Delia guardava la donna vestita di bianco, che le stava davanti e che si era alzata di scatto, quasi con un grido.
«Ma perché ha tanta paura? E perché mi fissa a quel modo?».
«Come vi chiamate, ragazza mia?».
«Chi è lei... chi è lei, signora?».
«Chi sono? Non sapete chi sono e vi trovate in casa mia!».
«Mi perdoni!».
«Naturalmente che vi perdono! Colui... che state vegliando è... era mio marito...».
«Signora marchesa!...».
«Così giovane... Ma perché non gli ha fatto chiudere gli occhi?».
«Come vi chiamate? A me piace sapere subito il nome di tutte le persone che stanno con me, nella mia casa...».
«Bambina. Io mi chiamo Bambina».
«Che nome!».
Delia girò rapidamente su se stessa, si diede a percorrere la stanza. Era ancora in vestaglia rosa col fiume nero costellato di argento... Quando passò davanti alla finestra, i capelli rossi le lampeggiarono. Tornò verso il caminetto, si guardò nella specchiera livida, sollevando in aria le braccia cariche di braccialetti, con un gesto ampio, molle, teatrale. Le maniche larghe della vestaglia le scesero sulle spalle e le braccia furono per qualche istante nude...
Poi si chinò sul ceppo spento. Osservava. Si sollevò di colpo e guardò l’infermiera immobile, bianca.
«Perché rimanete lì, a guardarmi? Andate! Andate pure di là... Vi chiamerò io...».
«Non posso, signora marchesa...».
«Che cosa non potete?».
«Non posso muovermi da questa stanza. Non debbo lasciare il... la salma neppure un istante. Ordine del dottore...».
«Ah! L’autopsia... Lui dubita...».
Andò verso la porta, colta da un pensiero improvviso.
Bambina continuò a guardare l’uscio per il quale era scomparsa. «Come è bella e giovane!». Sedette di nuovo, voltandosi ancor di più con la persona al camino, per non vedere il cadavere.
ORE 15,10
«Parlo col Questore? Sono la marchesa Vitelleschi del Verbano. La vedova del marchese Goffredo Vitelleschi... Sì, mio marito è morto. È morto questa notte... Non si tratta di condoglianze... si tratta di qualcosa di molto peggio... Il medico curante vuole che si faccia l’autopsia al cadavere... Non so! Non ci capisco nulla! Può darsi benissimo che mio marito sia stato assassinato... Ma sì, signor Questore, ha detto proprio assassinato... Se le dico che non lo so! Il medico si è intestardito e avrà la sua idea... Io le dico che sarebbe una cosa normale che lo fosse stato... Chi potrebbe avere avuto ragione di uccidere mio marito?... Ma una quantità di persone, signor Questore! Sì, una quantità di persone! Io per la prima, per esempio... Non protesti per convenienza, e non rida! Non c’è nulla da ridere. E, invece, la prego, mandi una persona di sua fiducia al palazzo... Desidero parlare con una persona che possa comprendermi... aiutarmi... Come? Un funzionario? Ebbene, sì, un poliziotto, insomma! Che dice? Verrà lei? La ringrazio, signor Questore...».
ORE 15,30
Il piantone annunciò: «Il dottor Veretti, signor commendatore...».
«Non posso! Che cosa vuole? Fatelo parlare con il Capo di Gabinetto...».
«Il dottor Veretti si trova già qui nella sua anticamera, signor Questore. Ha insistito... Dice che si tratta di cosa grave... Ma se vuole, lo mando via...».
«Dov’è?».
Il Questore si fece sulla soglia. Aveva il cappello in testa e agitava il bastone con la destra. Stretti nella mano sinistra, i guanti chiari facevano macchia sull’abito scuro. E un’altra macchia la faceva il fiore rosso – un garofano doppio – alla bottoniera.
A vederlo fuori di San Fedele e a non sapere chi fosse, tutto lo si sarebbe creduto – un grande sarto per signora, il gerente di un ristorante notturno, il direttore di un’agenzia di pubblicità – tranne che il Capo della Polizia di Milano.
Ma poi i suoi occhi straordinariamente acuti e mutevoli facevano dubitare del giudizio. Lui era elegante per bisogno fisico, e si era abituato a portar sempre un fiore all’occhiello della giacca, perché amava i fiori e detestava inconsapevolmente le quattro pareti soffocanti del suo ufficio. «Caro dottore, mi dispiace di non poterle accordare neppur un minuto... debbo uscire...».
«Ma quando le avrò detto...».
Il dottore si era precipitato e gli sbarrava il passo.
«Ebbene? Andate, voi!».
Il piantone attraversò rapido il piccolo salotto, che precedeva il Gabinetto del Questore.
«Ecco! È una cosa delicata... Come debbo dirle? Un semplice sospetto mio, per ora. Ma giustificato! La notte scorsa è morto nel suo palazzo di corso Venezia il marchese Goffredo Vitelleschi del...».
«E lei ha rifiutato il permesso di inumare e ha ordinato l’autopsia!».
«Cioè! Debbo ancora ottenerla, l’autopsia; la chiedo, la pretendo... Perbacco! Ma lei come fa a saperlo?».
«Già! Come faccio a saperlo? Semplicemente, perché mi ha telefonato una diecina di minuti fa la marchesa annunziandomelo, e chiedendomi di mandarle un funzionario... Tal qual mi vede, io sto andando da lei...».
«Oh!». E non poté dir altro.
«Vuole accompagnarmi? Parleremo in auto».
ORE 15,30
Cruni s’era seduto al tavolo di Romeo, che fronteggiava la porta, e si alzò con visibile sollievo, quando vide apparire De Vincenzi.
La sala d’ingresso del Decamerone giaceva nella penombra del pomeriggio invernale. Di solito, a quell’ora, Romeo aveva acceso il lampadario, dato che cominciavano ad arrivare i giocatori di bridge.
De Vincenzi sentì un gran silenzio. «E così?».
«Nulla, cavaliere».
«Sani?».
«Nel salone col giudice e il cancelliere».
«Chi è il giudice?».
«Un giovanotto. È la prima volta che lo vedo...».
«Uhm!». Adesso, c’era da superare lo scoglio più grosso... Purché il giudice non volesse distinguersi! Se era un novellino, gliene avrebbe date noie! «E gli altri?».
«La signora e suo marito si son chiusi lì dentro, nella sala da gioco. Il cameriere s’è seduto là in fondo, nel guardaroba, e non s’è mosso più...».
«Il morto?».
«Giace».
«Già! Ma giace qui, o il giudice lo ha mandato al Monumentale?».
«Ho sentito il cancelliere, che telefonava di venirlo a prendere».
Il commissario entrò nel salotto, fece il giro largo, per evitare il cadavere, e avanzò nel salone. «Commissario De Vincenzi...».
«Palmieri... È lei che conduce le indagini, vero? Mi ha già informato di tutto il vicecommissario... Io me ne vado... Il cancelliere ha terminato di redigere il verbale. Adesso, la libereranno del cadavere... Naturalmente, mi vorrà tenere informato». Era un giovanotto simpatico. Rideva, scoprendo una dentatura bianca e uguale. «Non la invidio, commissario... E non invidio me stesso, se lei non riesce a consegnarmi l’assassino e a raccontarmi ogni particolare di questo imbroglio, prima che la Procura debba avocare a sé l’inchiesta. Ma ho fiducia in lei! E cinque giorni di tempo glieli do tutti. A rivederla!».
Il cancelliere lo seguì e nel voltarsi per salutare, ammiccò furbescamente.
De Vincenzi, adesso che si era liberato da quella preoccupazione, tornò a pensare a tutti gli altri fastidi grossi, che lo attendevano. «Hai la lista delle persone che si trovavano qui ieri notte?».
«Eccotela. Mi ha dettato i nomi il segretario. Ho cercato di verificarne l’esattezza col cameriere, ma non ti garantisco che non ci siano omissioni. Il cameriere mi ha tutta l’aria di un imbecille, che vuol fare il furbo, e in quanto a quell’altro...».
«Bargelli ha consegnato a te gli oggetti trovati nelle tasche del morto?».
«Eccoli lì», e Sani indicò una seggiola su cui si vedevano un orologio, un portafogli, alcune lettere e vari altri oggetti d’uso comune. Il morto fumava la pipa e teneva il tabacco in una borsa di guttaperca impermeabile, come usano i marinai.
Le lettere erano nove. E ognuna diretta al signor Marco Parodi. E ognuna non recava firma o per tutta firma due iniziali. Una soltanto era firmata col nome intero: Margaret. Fu quella che De Vincenzi lesse. Era breve, del resto:
Sono costretta ad accettare. Non dico e non penso neppure che sia un’infamia. Questa sera alle nove sarò da lei. Ma debbo avere il denaro prima dell’alba.
MARGARET
Rimase qualche istante col foglio aperto, a fissarlo. Poi guardò le altre lettere. Piegò il foglio lentamente, lo infilò di nuovo nella busta. Il timbro era chiaro: 9 febbraio. Il giorno prima. E nella notte di quel giorno, il signor Marco era stato ucciso, in un salottino del Decamerone... Si mise il pacchetto delle lettere nella tasca della giacca. Margaret: la giovane trovata addormentata nella casa del vecchio... Rivide la mano bianca affusolata pendere inerte... battere contro lo stipite della porta...
Perché no?
Ma doveva ricevere denaro, e non darne! Il ricatto, se si trattava di un ricatto, era peggiore ancora...
«Sani!».
«Dimmi».
«Fa’ una corsa sino alla portineria della casa accanto: è piantonata da un agente e non puoi sbagliare. Chiedi alla portinaia a che ora ieri ha visto il signor Marco per l’ultima volta...».
«Vado».
«E chiedile anche quali abitudini avesse il vecchio».
«Sì».
Adesso, De Vincenzi aveva preso il pugnale e lo fissava. Lo soppesò. Rimase colpito subito dallo strano equilibrio che gli davano la palla d’oro e il serpente... Si guardò attorno: vide il tavolato del piccolo palcoscenico. Fece qualche passo, bilanciò il pugnale sulla palma, con la punta rivolta verso di sé, lo lanciò... L’oro dell’impugnatura lampeggiò sul legno, che la lama aveva dirittamente forato...
Poteva essere un modo rapido e sicuro di uccidere da lontano. Forse, molte cose si spiegavano se si ammetteva che il pugnale fosse stato lanciato e non confitto nel petto del vecchio. Ma una donna sa lanciare i pugnali? Andò a trarre l’arma dallo schermo di tavole: era penetrata interamente. Il peso del manico... Perfetto!
«Commissario! Ho bisogno di parlarle! Mio marito le ha detto della nostra cambiale al vecchio... Occorre lei sappia che il prestito fu fatto...». Era in preda a un vero tremito convulso, e il suo tic si ripeteva con ritmo celere sicché la testa sembrava svitata e mossa da una molla.
«Un momento!».
Andò nella stanza accanto, di dove aveva sentito venire le voci di Cruni e degli uomini del Monumentale. «Aspettate!».
I due guardiani in uniforme nera si voltarono. Stavano già chinandosi sul cadavere.
Il commissario avanzò. Osservò il punto esatto della ferita sul petto dell’uomo. Molto a sinistra era entrato il pugnale. Troppo di lato per supporre che l’assassino si trovasse di fronte alla vittima o altrimenti chi aveva colpito doveva essere mancino. Il lancio dell’arma da lontano, invece, eliminava la necessità di una tale ipotesi e rendeva perfettamente naturale la posizione del colpo, poiché il lanciatore poteva essersi tenuto di fianco al vecchio, per non esser visto.
«Sta bene. Ho finito. Portate via...».
Sollevarono il cadavere.
«Oh! Che cos’è questo?».
Si chinò a raccogliere. Era un piccolo astuccio, che doveva aver contenuto un oggetto rotondo, grosso come una nocciola. Una gemma, forse. Il segno lasciato sul velluto era netto. Una gemma, se di questo si trattava, di dimensioni insolite...
L’astuccio si era trovato coperto dal braccio del morto e nessuno lo aveva visto prima.
«Lo hanno ucciso per rubargli quel che c’era lì dentro...» fece Cruni.
«Può darsi», rispose il commissario. Si mise l’astuccio in tasca e tornò verso il salone. Rifletteva. Ucciso per una gemma? Le ragioni per le quali il vecchio poteva esser stato ucciso erano tante! Fino a quel momento, gliene erano balenate almeno cinque. E ognuna ottima.
«Che cosa mi diceva del prestito, signora Moroni?».
«Fu fatto per le spese del circolo. Posso dimostrarlo. E la cambiale sarebbe stata ritirata oggi!».
«Ebbene?».
«Il signor Marco è venuto a farsi uccidere qui dentro! Adesso loro vorranno trovare una relazione tra la cambiale e l’assassinio...».
«Lasci andare! Mi dica piuttosto se le sembra naturale che il vecchio sia entrato qui dentro questa notte».
«Mio marito aveva dovuto consegnargli le chiavi, le avevamo doppie, quando ci prestò il denaro... E spesso, al mattino, Annibale...».
«Chi è Annibale?» fece De Vincenzi con comica violenza.
Adesso c’entrava anche un Annibale, in quella storia! Ma no, Annibale era il cavalier Moroni...
«Dunque, Annibale... voglio dire, suo marito?».
«Si è accorto talvolta, entrando nel salone alla mattina, che l’armadio a vetri era stato aperto, e anche avevano cercato un po’ ovunque, perfino nei cassetti della scrivania. Non poteva esser stato che il signor Marco!».
«Cosicché il vecchio veniva di frequente in queste sale, dopo le due del mattino? Non riposava alla notte, evidentemente!».
«Oh! Il capitano Parodi non ha mai dormito alla notte! Neppure a Shangai...». S’interruppe e fu presa da un accesso convulso di tosse. S’era fatta rossa come un gallinaccio.
De Vincenzi la guardava, sorridendo con bonarietà. Aspettò che la tosse fosse cessata.
«Vuol bere?».
«Grazie... Ma non s’incomodi! Vado io».
Il commissario arrivò alla porta prima di lei. «Cruni» gridò, «porta un bicchier d’acqua». Si volse, sorridendo: «Non avrei mai permesso che lei si disturbasse, soprattutto in questo momento. Mi stava parlando di Shangai...».
Sofia Moroni sbiancò. Aveva ricorso al soffocamento, ma la diversione non le era riuscita!
«Accidenti alla mia storditaggine! Lo so io, che questa storia non può andare a finir bene!».
«Le ho detto Shangai?».
«Beva!».
Restituì il bicchiere vuoto a Cruni, che se ne andò sulle sue gambe tozze, pesantemente.
«Sì, cara signora! Lei ha detto proprio Shangai. Continui».
«Oh, che storia! Che storia! Sarà la mia morte! Non posso negare! E poi sono sincera io, e non ho nulla da nascondere...».
«Proprio nulla!» assentì ambiguamente De Vincenzi.
«Non c’entro col delitto, io!». Subito aggiunse: «E neppure Annibale!».
«Nessuno dei due, lo so! Ma in quale epoca e in quali circostanze s’incontrarono col capitano Marco Parodi, a Shangai?».
«Che epoca? Lo conoscemmo quasi subito... Tutte le volte che lui arrivava a Shangai col suo piroscafo, veniva...».
Ancora s’interruppe e lanciò occhiate da naufraga. Boccheggiava.
«A casa loro?».
«No!».
«Alla loro scuola?».
«Che scuola?». Batté le palpebre. Non capiva se il commissario scherzasse. Temette un tranello.
«Mah! Suo marito mi ha parlato di una scuola di cultura europea...».
«Ah!».
«E adesso come faccio a rimediare?... Perché quell’idiota di Annibale non mi ha avvertita? E poi? Non c’è, forse, il Consolato Italiano, che dirà tutto, se questo qui gli telegrafa, per chiedere nostre informazioni?».
«Non era una scuola, signor commissario...».
«Lo credo».
«Era una... fumerie...».
«E il signor Marco la frequentava?».
«Sì, l’ha sempre frequentata».
Perbacco! La casa di Vannetta Arcangeli era impregnata di fumo d’oppio! Ma le stanze del vecchio avevano l’aria netta, pura...
Sani era apparso sulla soglia.
«Ah! Tu... che vuoi?».
«Sono stato a interrogare la portinaia. Mi ci hai mandato tu!».
«Sì, hai ragione. E così?».
«Ha veduto il signor Marco per l’ultima volta ieri sera alle nove... È tassativa nell’affermare che tutte le sere, alle nove precise, il vecchio usciva... Lei non aveva bisogno di guardare l’orologio: quando lo vedeva uscire, erano le nove».
«Grazie. Ma questo vuol dire che proprio iersera il signor Marco può essere uscito prima o dopo, senza che lei abbia guardato l’orologio».
E Margaret gli aveva scritto: questa sera alle nove sarò da lei. Non l’aveva attesa, lui. Possibile? Perché non l’aveva attesa?
«Signora Moroni, lei conosce una giovane bionda, fine, gracile, bella, che si chiama Margaret?».
«Che cosa c’entra?» esclamò la presidentessa col fiato corto.
«Che altro tranello vuol tendermi, adesso?».
«Risponda!».
«Ma, non so! Di Margaret io non conosco che la figlia della Sutton...».
« L’amica del conte Verri?» interloquì Sani.
«Sì, naturalmente, del conte Verri, che è morto».
«Frequentava il suo circolo?».
«Ieri sera», fece Sani, «la contessa Sutton si trovava qui, a giocare».
La signora Sofia guardava uno dopo l’altro i due uomini. La sensazione di diventar pazza aumentava sempre più e si faceva distinta in lei.
«Ma che cosa vogliono? Che c’entra la contessa in tutto questo? Ha perduto duemila lire ieri notte, che ha vinte Nennele. Adesso, mi parleranno anche di Nennele... Oh! Chi può dimostrare che bari, Nennele, anche se vince...».
«E Margaret?».
«Veniva qui di rado».
«Tu sai dove abita la Sutton?».
«Il cavaliere ci ha dato l’indirizzo. C’è sulla lista che ti ho consegnata».
De Vincenzi gliela porse e lui prese nota dell’indirizzo.
«Va’ a trovarla e conducila all’ospedale. Falle vedere quella ragazza, che vi è stata trasportata circa un’ora fa, addormentata con un narcotico. Se veramente è sua figlia, conducimi subito qui la contessa... Prendi un tassì, naturalmente».
«Margaret addormentata con un narcotico! Ma che inferno si sta scatenando attorno a me e al Decamerone?».
«Dunque, gentile signora, mi racconti con tranquillità e con ogni particolare la loro vita di Shangai. Interessante, vero? Tanto interessante che lei vi ha trovato materia per un libro!».
«Anche lui!... Anche lui! Anche a lui hanno detto di Liù, fior d’acanto!».
Ma non poté raccontar nulla, perché Cruni venne a dire in un orecchio a De Vincenzi che il cavaliere Annibale Moroni, passando per la finestra della sala da gioco, si era calato sulla sottostante tettoia del cortile e di lì era fuggito, passando davanti all’agente di guardia nel portone, il quale non lo aveva fermato, ritenendolo autorizzato ad andarsene.