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Martedì
(Insetti)
ORE 17,15
La portinaia vide il commissario che tornava – lei dalla mattina s’era messa in vedetta sul portone – e si volse all’agente, seduto in fondo, presso alla scala.
«Ecco il commissario! Questa volta viene da noi...».
L’agente fece un gesto vago. Venisse o non venisse, per lui la noia del piantonamento non sarebbe finita. E faceva freddo, in quel portone!
La donna corse dentro allo sgabuzzino, e diede una gran scrollata al marito, sempre addormentato con la testa sul tavolo, per quanto non più fra i piatti e i bicchieri sudici, che lei aveva tolti.
«Cerca di star sveglio bestione! Il poliziotto torna e vorrà interrogarti...».
Era lei che desiderava d’essere ancora interrogata. Sperava sempre che la conducessero nell’appartamento del vecchio.
«Avranno trovato un pappagallo o parlava con gli spiriti? In ogni caso, una donna c’era, e giovane, e bionda... L’ho veduta passare, portata per le spalle e per le gambe, come se fosse morta! Chi era quella donna? Da quando l’ho vista passare, non penso che a questo mistero! Se m’interroga, che cosa posso dirgli ancora del pazzo del secondo piano?».
Il marito aveva alzato la testa, l’aveva guardata coi suoi occhi a palla, striati di sangue, gonfi. Un brutto ranocchio. E aveva mandato una specie di grugnito, alzandosi a fatica dalla seggiola. Sventolò la mano aperta sul tavolo, per afferrare qualcosa che non c’era. «Dammi da bere!».
«Fossi matta! Siamo qui, signor commissario... Ha bisogno di me?».
«A che ora chiudete il portone, alla sera?».
«Alle dieci, come tutti gli altri...».
De Vincenzi guardò la porta, che s’apriva in fondo allo sgabuzzino. «Dormite lì dentro?».
«Lì dentro? No. C’è la cucina, lì... Noi dormiamo all’ultimo piano, in soffitta».
«Sicché, tutti quelli che entrano e che escono, alla notte...».
«Non li sentiamo, no!».
«Avete veduto passare una donna, ieri sera, alle nove, o dopo?».
«Nessuno è passato, fino alle dieci... Stavo io sul portone... E ieri sera siamo saliti che saranno state le dieci e mezzo almeno...».
«Il signor Marco è uscito solo?».
«Eh, che domande! Sempre solo se ne andava il vecchio. Pochi minuti prima di lui era uscito il visconte. Quello lì andava alla Scala di certo: portava il cilindro e i guanti bianchi».
Già, l’autentico visconte fiorentino di Vannetta Arcangeli.
«Debbo venir su con lei? Vuol sapere altro?» e provò ad affilarglisi dietro, ma il commissario le fece un cenno energico con la mano, e lei si fermò smozzicando un’imprecazione di dispetto fra i denti.
La scala, illuminata da una smorta lampadina a ogni piano, appariva così anche più lugubre. De Vincenzi passò davanti all’uscio chiuso del signor Marco e continuò a salire. Questa volta, dovette tirare il campanello; la porta non si era aperta al rumore del suo passo sui gradini. E anche attese qualche minuto, in ascolto: al di là dell’uscio chiuso, un gran silenzio. Suonò di nuovo a lungo. Finalmente un passo pesante e il rumore del catenaccio e della molla.
Gli occhi di carbonchio, i capelli neri come inchiostro; ma senza più diavolini di carta. Vannetta s’era fatta una pettinatura monumentale, tutta riccioli, una vera impalcatura a vari ripiani. Più bianca appariva, o forse il suo pallore era sempre il medesimo, ma impressionante. E il vestito di seta rossa lucida, dentro il quale la ciccia del corpo sformato ponzava, era stato sostituito da un altro nero, pure di seta, tutto riflessi.
«L’aspettavo, signor commissario. E il visconte si è levato prima del solito, per riceverla...».
Nell’anticamera ardeva la lampada d’ottone. Sempre lo stesso odore, denso, stagnante, dolciastro. Non c’era dubbio: oppio.
Lo fece passare in una camera ch’era salotto e molto probabilmente anche stanza da letto. Un gran lusso di oleografie alle pareti. Due divani rossi. Dal centro del soffitto pendeva anche qui un lampadario moresco. L’odore non era più forte che in anticamera, ma dava la nausea.
Si aprì una porta e comparve un giovanotto. Fosse o non fosse visconte, era distinto. Basso, mingherlino, una gran fronte sotto i capelli corvini, tesi, lucenti; una pelle bianca, da donna, di chi non vede mai il sole; una bocca troppo rossa. Gli occhi eran velati dalle palpebre. Guardavano e subito sfuggivano.
Indossava il soprabito e aveva in mano il cappello, come se stesse per uscire.
Avanzò con spigliatezza, sorridendo. Ma non era naturale. Lo si sentiva contratto, pronto a lanciarsi o a fuggire. C’era qualcosa di felino in lui, ma del felino feroce. Con tutto ciò, aveva indubbiamente molta distinzione, era di classe.
De Vincenzi si volse di colpo.
La donna, dietro di lui, faceva un gesto. Rimase con la mano alzata, a occhi sbarrati per la sorpresa.
«Va bene! Andate in anticamera... Con voi parlerò più tardi...».
Allora, esplose. «Sono in casa mia! Rimango dove voglio! Non sarà un poliziotto che verrà a comandare nella casa d’una donna onesta, che non ha nulla da nascondere! Che cosa crede, questo fringuellino, di potermi maltrattare, perché affitto camere? Ci vuol altro!».
«Basta! Tacete!».
La furia era scatenata. Un torrente di parole da trivio, mentre affermava che l’anima santa del suo defunto marito l’avrebbe protetta e che lei sapeva a chi ricorrere. Nel gridare così, ossessionata, sbarrava la porta col suo gran corpo e si capiva che era pronta a cadergli addosso e ad afferrarglisi pur di non farlo passare. Dietro di sé, il commissario sentiva la presenza vigile, cauta, insidiosa dell’uomo.
Era tutta una scena preparata. La donna aveva colto il primo pretesto che le si era presentato. Voleva fare uno scandalo, per evitare una resa di conti pericolosa, un interrogatorio a fondo. O, forse, i due avevano da nascondere qualcosa, che non avevano fatto a tempo a far sparire, prima che lui arrivasse.
De Vincenzi capì che giocavano grosso, non avendo più nulla da perdere. E la sua posizione non era comoda. Se la donna gridava a quel modo, doveva sapere che lui era solo, che non s’era fatto seguire dagli agenti. Lo aveva accolto amabilmente e lo aveva subito fatto entrare in quella stanza, per attirarlo nel tranello.
Balzò di lato, per togliersi dalla minaccia silenziosa che sentiva alle spalle, e afferrò la megera per un braccio, tentando con l’altra mano di coprirle la bocca. Immediatamente provocò l’accensione della girandola finale. Fu un fuoco di pugni, di calci, di urli isterici. L’apparato dei capelli si scompose, la seta dell’abito crepò qua e là, scoprendo la carne. E sempre gli occhi fiammeggiavano, ma di luce ferma, scrutatori, freddi.
La commedia era troppo evidente e manifesta, per essere astuta. Oppure era la preparazione di qualch’altra cosa.
De Vincenzi evitò di striscio che le mani dell’ossessa l’afferrassero, gli si abbrancassero alla giacca, lo trascinassero in una caduta inevitabile. Fece un balzo e si appoggiò con le spalle contro il muro.
«Su le mani!».
L’uomo le alzò, ma si trovava in mezzo alla stanza e gli bastò uno slancio e un salto, per arrivare con le mani al lampadario. Lo afferrò, lo svelse, glielo gettò fra le gambe.
Nell’oscurità si sentì il gran fracasso dell’ottone e del vetro contro il piancito.
La donna tacque di colpo, dopo un grand’urlo.
De Vincenzi, che non perdeva facilmente la padronanza dei suoi centri di comando, abbassò la mano armata e si cacciò di nuovo la rivoltella in tasca.
Non voleva sparare alla cieca, per non mutare in tragedia quella commedia grottesca. Al primo colpo avrebbe cacciato un proiettile nella carne della donna, che sentiva straripata sul pavimento enorme come una massa franata.
Intuì che l’uomo stava fendendo il buio verso la porta. La donna, entrata alle spalle del commissario, l’aveva rinchiusa. Tentò di sbarrargli il passo, gettandosi di traverso, ma incontrò il corpo della megera, molle, pesante, tanto più immenso nell’oscurità, e subito si sentì afferrare, stringere, soffocare.
Il giovanotto aveva raggiunto l’uscio, lo aprì, si vide per un istante la luce dell’anticamera, poi di nuovo il buio. Lo scatto della chiave nella toppa disse al commissario che il piano preparato, forse all’improvviso, di ripiego – lo aspettavano per le sei, probabilmente – aveva lo scopo di consentire all’uomo la fuga.
Non c’era da far altro, pel momento, che rassegnarsi. Che l’agente di guardia al portone pensasse di fermare il fuggitivo, non era neppure da sperare. L’unica cosa che gli sembrava strana era che non fosse accorso a tutto quel putiferio. Ma l’appartamento si trovava all’ultimo piano della casa, la scena s’era svolta a porte chiuse e l’agente poteva anche starsene a passeggiare per la strada, per non intirizzire dentro il portone.
Adesso, nel buio, la lotta continuava. La donna cercava evidentemente di trattenerlo il più a lungo possibile. Lui, per quanto gli ripugnasse, liberati una mano e il braccio, le sferrò un pugno, cercando di regolarsi a colpirla in faccia. Era eccitato e il pugno partì di santa ragione. L’urlo che ne seguì fu di dolore. Non aveva più il tono melodrammatico a freddo degli altri precedenti. La donna si staccò da lui; crollò.
De Vincenzi mandò un sospiro. Quella scena assurda l’aveva, in fondo, più irritato che sconvolto. Rimase qualche istante a riprender fiato, poi accese un fiammifero. Vide la donna in terra, le girò attorno, raggiunse la porta. Bastò una spallata per farla spalancare, con lo scricchiolio del legno che si spaccava.
L’anticamera era sempre illuminata. Si aggiustò gli abiti. Il cappello gli era caduto nella lotta, e dovette tornare a prenderlo alla luce di un altro fiammifero. La donna non s’era mossa da terra. Il pugno che le aveva dato l’aveva stordita per davvero.
De Vincenzi scese lentamente le scale.
La portinaia lo attendeva, di vedetta, dietro il vetro dello sgabuzzino. Lui sorrise.
«Hai visto uscire un giovanotto col pastrano grigio, il cappello di feltro?».
«Sì, dottore. Mi ha chiesto un fiammifero. Gli ho acceso io la sigaretta... La portinaia mi ha detto che era il visconte...».
«Hai fatto bene! Credo che aspetterai un pezzo, prima di accendergliene un’altra, di sigarette».
L’agente non capiva. Ebbe un dubbio. «Avrei dovuto trattenerlo, dottore?».
«Ma ti pare!».
La colpa era sua di non aver previsto la fuga del visconte, e di non aver dato ordini precisi.
«Va’ a chiamare Cruni... digli che porti con sé due agenti...».
Si mise ad aspettarli sul portone. Guardò l’orologio: quasi le sei. Tra poco sarebbe arrivato il Questore, il quale voleva informarlo – a voce e non per telefono – di quanto gli aveva detto il dottor Veretti e di quanto non gli aveva detto la marchesa Vitelleschi del Verbano...
ORE 17,30
S’era seduto su di una panchina dei giardini ad aspettare che facesse buio. Più di un’ora vi era rimasto, e aveva dovuto battere i piedi in terra, fregarsi le mani, stropicciarsi il naso e le gote. Anche cambiar panchina di tanto in tanto. Faceva freddo. Calava una nebbia filacciosa tra gli alberi scheletriti.
Fin quando c’era stato il sole, aveva potuto resistere. Di sedere aveva avuto subito bisogno: un po’ i patemi e un po’ l’ansia e lo sforzo di quella fuga dalla finestra, giù per la tettoia, gli avevano rese le gambe molli. Come aveva fatto a decidersi e a osarla, quella fuga? Era stata Sofia! Sofia, che voleva la sua morte! E lui le aveva obbedito.
«È necessario, capisci?». Sentiva ancora nelle sue orecchie la voce di lei soffocata, fischiante, rotta, eppure così piena di volontà imperiosa, così carica di disprezzo sferzante.
«Ma Sofia, è impossibile! Mi acciuffano appena nel cortile! La casa è piena di agenti!».
«Non ti prenderanno, se hai un minimo di cervello e di cuore!».
Era una sua frase! Anche a Shangai, quando si trattava di superare qualche brutto momento, quando la polizia stava in agguato attorno alla casa e bisognava far sparire tutto, lei voleva il cervello e il cuore. Degli altri.
«Io vado di là e trattengo il commissario... Non dubitare che ci riesco! A te bastano pochi minuti, del resto. Quando sei in cortile, ti dai un contegno, ed esci. Corri ad avvertirla, e poi torni qui. Che vuoi che ti facciano? Pensino quel che vogliono, non possono farti nulla! Non è mica un delitto allontanarsi per un’ora! Ti hanno dichiarato in arresto? No! Neppur per sogno... E non ti arresteranno neanche dopo...».
«Ma perché correre questo rischio? Vuoi che lei non sappia subito? I giornali della sera... se anche non c’è già sul “Corriere” del pomeriggio...».
«Imbecille!».
S’era morsa le labbra. Aveva camminato per la stanza, gettando la testa contro la spalla con frenesia spasmodica. Quel tic! Come diavolo aveva fatto a prendersi quel tic? E poi era tornata vicino a lui, gli si era chinata sopra, faccia contro faccia. Non era bella a vedersi, la faccia sconvolta di Sofia!
«Non capisci che, se lei non è avvertita, se lei non sa subito, non può provvedere?».
Lui non sapeva nulla di quello a cui doveva provvedere la creatura umana per la quale Sofia si stava facendo venire un attacco di nervi, e per la quale voleva far rompere le ossa al proprio marito, da una tettoia sopra il lastricato del cortile.
Lui non sapeva niente di niente! Era Sofia che aveva fatto tutto, che fabbricava la felicità e il benessere della famiglia. Da quando l’aveva conosciuta, venticinque anni prima, sempre lei aveva diretto le sorti della coppia Moroni, tra i perigliosi scogli delle avventure asiatiche ed europee. Lui l’aveva seguita, secondandola alla cieca, cercando di non romperle le uova nel paniere e affidandosi per questo al proprio fiuto.
Cervello e cuore! Un certo cervellaccio, con qualche lampo di astuzia, ce lo aveva sempre avuto. Ma il cuore!
Ebbene, adesso, aveva trovato anche il cuore, ed era riuscito a farla franca. Ma subito appena fuori di via Fiori Oscuri, in via Borgonuovo e poi in via Manzoni, s’era detto che non gli era possibile presentarsi al palazzo dei marchesi Vitelleschi in pieno giorno.
Una paura irragionevole, infantile, gli si era infiltrata per le membra, irretendolo e paralizzandolo. Aveva un bel dire, Sofia! Lui era fuggito dal circolo, occupato dalla polizia, con un commissario che stava conducendo le indagini per assassinio, col morto ancora caldo sul piancito... Questo aveva fatto, e proprio nel momento in cui cominciavano a sospettarlo, perché indubbiamente quel commissario tutta cortesia e buona grazia lo sospettava!
E quel morto lui lo conosceva e come! Era legato a lui da ragioni di interesse, che a ben grattare si sarebbero potute definire losche. Lo conosceva da laggiù, da Shangai. Meglio non ricordare Shangai! E poi, che cosa voleva dire la missione affidatagli da Sofia? Che storia c’era sotto? Anche la marchesa c’entrava! Quella «rossa» che aveva un marito tanto più vecchio di lei e che si aggirava, motteggiatrice ed enigmatica, per le sale del circolo con almeno mezzo milione di brillanti sulla persona!
Quali rapporti poteva avere Delia Vitelleschi col capitano Parodi? Perché Sofia lo mandava di furia, facendogli correre il rischio di fratturarsi le gambe, esponendolo al pericolo assai probabile – sicuro, anzi! – di venire gravemente sospettato d’assassinio e quindi arrestato, ad avvertirla che il signor Marco era morto, ucciso da un colpo di pugnale al petto?
«E fai bene attenzione di non trovarti davanti il marito! Parla con lei, da sola... Mandale il tuo biglietto di visita con su scritto: ‘Urgente, da parte di mia moglie...’».
Aveva avuto paura, il cavaliere, e s’era rifugiato sulle panchine dei giardini pubblici, al gelo di febbraio, al vento, alla nebbia...
Era già quasi buio... Sentì la campana suonare la chiusura dei cancelli. Si alzò, si mise a camminare in fretta, battendo le suole sulla terra indurita, quasi cristallizzata, del viale... Raggiunse via Palestro. Camminò, camminò ancora, rifacendo due o tre volte la strada... Le lampade ad arco si accesero di colpo, come per incantesimo. Sussultò. Guardò l’orologio: le cinque e venti...
Ebbene, sarebbe andato. Era ora di andare. Se Sofia avesse saputo che aveva perduto quasi due ore, per colpa del cuore e del cervello!
Rallentò il passo, si diede un contegno... Quando voltò da via Palestro per corso Venezia, si sentiva ancora sconvolto, ma insomma ebbe l’impressione di non dar troppo nell’occhio. Nessuno lo guardava. Ripeté dentro di sé il numero del palazzo: 47. Glielo aveva detto Sofia, perché lui in casa Vitelleschi non era mai stato. Un palazzo di marmo giallo, finestre basse sul marciapiede con le inferriate panciute, finestre alte dal piano nobile in su a balcone... il portone monumentale. E uno dei battenti era chiuso... Nel fondo si vedeva una gran lampada accesa illuminare gli alberi del giardino.
Ma perché uno dei battenti era chiuso? Fermo sul marciapiede, dall’altra parte della strada, il marito della presidentessa fissava quel portone a metà chiuso... Perché?
Finalmente si mosse, attraversò, dovette correre fra un tranvai e l’altro, saltare di fianco sul salvagente; una fila di auto sopravveniva da Porta Venezia, e la prima lo aveva quasi afferrato col parafango.
Si trovò dentro a quel portone, ansante, col sudor freddo per la schiena e sulla fronte.
«Vuol firmare?».
Un pezzo d’uomo gallonato si tirava da parte, indicandogli una stanza severa, dietro una grande vetriata, e nella stanza un tavolo con un registro aperto e un calamaio...
«Vorrei... vorrei parlare con la marchesa Vitelleschi...».
S’era messa la mano in tasca, faceva per dar subito il biglietto.
Il portinaio mutò di colpo atteggiamento, si mise a scrutarlo. «La marchesa non riceve!».
«Ma si tratta di cosa urgente. Se lei le facesse pervenire il mio biglietto...».
Glielo tendeva. L’altro lo prese, lesse il nome, tornò a fissare il piccolo uomo pallido, che aveva gli occhi profondamente segnati e tremava un poco, certo pel freddo...
«Ma chi è costui? Qualche rappresentante di pompe funebri! Eppure, no! Non ha l’aria di sapere che il marchese è morto...».
«La marchesa non può ricevere nessuno! Una grave sciagura si è abbattuta sulla famiglia...».
«Una... sciagura?».
«Sua Eccellenza il marchese è morto!».
Entrò un gruppo di uomini. Quanti erano? Tre, quattro... Avevano un’aria di circostanza. Uno li precedeva e sembrava guidarli e comandarli, alto, disseccato, giallo. L’ultimo, piccolino, biondo, portava una valigia nera.
Il portinaio s’inchinò, si affrettò davanti a essi, aprì la porta dell’ascensore. Quando tornò e vide l’ometto pallido sempre lì, ad aspettare, ebbe un gesto d’impazienza. «Dunque?» tese la mano per restituirgli il biglietto. «Le ho detto che la marchesa non riceve!».
Per uno strano fenomeno di reazione improvvisa, lui si intestardì, trovò il coraggio di ribattere, seppe farsi misterioso e insinuante. «Vedrete che la signora marchesa mi riceverà... appunto perché Sua Eccellenza è deceduta». Poi aggiunse, afferrando il biglietto che il portinaio gli tendeva sempre, e cavando dal taschino una matita: «Date qua!». Scrisse le parole suggeritegli da Sofia: urgente, da parte di mia moglie; di sua ispirazione completò: è accaduto qualcosa di molto grave.
«Volete darmi una busta?».
L’uomo, scosso da quella sicurezza, entrò nella stanza severa, frugò nel tiretto del tavolo, tornò con la busta richiestagli.
Lui vi introdusse il biglietto, la chiuse, vi scrisse sopra una sola parola: Urgente.
«Ecco! Fate pervenire... Attendo...».
ORE 17,45
Delia, seduta sulla poltrona accanto al caminetto sotto la pendola di Boule, guardava la fiamma.
Aveva l’impressione di essere un insetto e di aver sostenuto una lotta con un altro insetto. Meno intelligente di lei, meno pronto. Curioso, dopo tutto, con quel suo fiore rosso e coi suoi occhi frugacchianti, irrequieti come antenne. Ecco! Dovevano esser le sue antenne, quegli occhi, e poteva benissimo trattarsi di un grillo colossale.
Tutti del resto, nel palazzo e fuori, al Decamerone, in quell’altro luogo, in quel luogo che a ricordarlo sentiva un brivido delizioso correrle per la schiena, tutti erano insetti in movimento, insetti laboriosi e affannosamente occupati a costruire. O forse a distruggere. Certamente a prendere.
Ma lei era indubbiamente l’insetto migliore. La regina degli insetti. Appunto questo: un’ape regina. Gli altri erano schiavi attorno a lei! Le pecchie laboriose... Perciò lei aveva i capelli di fiamma, aureola di fuoco, e i suoi brillanti, le sue gemme, che nessuno più le avrebbe tolti... nessuno!
Le fiamme del caminetto serpeggiarono; il ceppo fischiò, saettò... Di dove veniva l’improvvisa corrente d’aria?
Non voleva voltarsi. Non si voltò. Il fuoco l’affascinava. La fiamma era verde, coi bordi d’argento...
Perché era morto suo marito? Non si aspettava che morisse così presto, lei! E adesso? E adesso?
Tutti schiavi! Tutti?
Ma lei, a ogni modo, li dominava con l’intelligenza. Con la bellezza. Col suo corpo, che sapeva carico di emanazioni elettriche...
La faccia, rivolta verso la fiamma, illuminata dalla fiamma, era immobile. Un poco soltanto aveva le labbra sollevate agli angoli, come a un sorriso di trionfo, un sorriso colmo di sottintesi...
Il dottore voleva l’autopsia!
Un fiore rosso alla bottoniera e le antenne, che si agitavano, si agitavano...
Il sorriso si accentuò.
«Tanti potevano voler la morte di mio marito... io per la prima...».
Era vero!
Ma non si muore anche di angina e di arteriosclerosi?
Una tosse discreta.
Si volse lentamente. «Che cosa volete, Pietro?».
Ecco di dove era venuta la corrente d’aria, che aveva fatto serpeggiare la fiamma...
Il domestico s’inchinò e le porse una busta.
Insetti, insetti laboriosi, in continuo movimento, e lei la regina.
Lacerò un lembo della busta. «Fatelo venire...».
Pietro uscì. Di nuovo la fiamma vacillò, serpeggiò, verde e argento... Sofia le mandava il marito.
Perché? Perché... Ah! Quel morto. Il Questore glielo aveva detto. Hanno trovato il cadavere di un uomo con un pugnale conficcato nel petto.
E a lei era venuto da ridere... Come non ridere?
Sofia!
Rise ancora, ma questa volta di un riso contratto, teso, silenzioso. «Che c’è, cavaliere?».
«Questa notte... nel salottino del Decamerone hanno ucciso...».
«Prosegua!».
Lo fissava e lui, lì davanti, tremava.
Insetti! Insetti! Anche questo aveva le antenne, ma quanto poco sensibili! Gettava gli occhi sul pavimento, smarrito, per non guardarla...
Finora, nessuna sorpresa. Adesso sarebbe venuto il nome. Volse di nuovo il volto alla fiamma. Il cavaliere poteva vederle soltanto i capelli, la nuca bianca, la scollatura discreta dell’abito di crespo.
«... il signor Marco, con una pugnalata al petto...».
Non si mosse. Era questo, dunque? E Sofia aveva subito sentito il bisogno di mandarla ad avvertire! Cara Sofia! Non c’era nulla da dire. Nulla! «La polizia ha invaso il circolo. Io ho dovuto fuggire dalla finestra della sala da gioco, per venire qui da lei...».
Lo guardò. «E poi?».
«Sofia, mia moglie, ha voluto che lo facessi. Adesso torno laggiù, mi arresteranno...».
«E poi?».
«Non dirò mai, però, d’esser venuto qui da lei!».
S’era messa la mano sul cuore. Era solenne e ridicolo. Anche pietoso. Doveva avere una paura infantile, che vinceva soltanto col compenetrarsi nel senso eroico della sua azione.
«Grazie, cavaliere. Non lo dica, infatti, non le crederebbero». E gli sorrideva.
Lui indietreggiò, girò su di sé, inciampò nel tappeto, arrivò alla porta, proiettando il cranio in avanti, proteggendosi con le mani. Fu un miracolo se non andò lungo per terra. Trovò il modo di uscire.
Lei era rimasta immobile. Non aveva riso.
Chi aveva ucciso il signor Marco? Perché lo avessero ucciso poteva supporlo facilmente, ma chi era stato? Se non lui, chi? Si alzò, si guardò attorno. Occorreva affrettarsi! Non qui dentro – pensò – so benissimo che non le aveva qui!
Si passò una mano sulla fronte. Nella camera di lui! Nella camera dove giaceva cadavere!
L’autopsia! Lo avrebbero portato via, per l’autopsia? E l’infermiera che non doveva muoversi, che sorvegliava i movimenti di ognuno!
Si diresse alla porta, traversò la sala; nel salottino, che precedeva la camera di suo marito, si fermò. Aveva sentito rumore di voci.
Subito risuonò la voce stridula, tagliente, del dottore: «Chiuda la porta della camera, infermiera!».
Lei aveva veduto un gruppo di camici bianchi. La porta del bagno era spalancata.
L’infermiera le disse con dolcezza: «Permette?».
Lei si allontanò, pensando che l’infermiera si chiamava Bambina.
ORE 17,45
«Vieni con me... E anche voi. Tu», e si volse all’agente, che aveva mandato a chiamarli, «va’ a cercare un tassì, fallo venir qui».
Salì pel primo, in fretta. Sul secondo pianerottolo, davanti alla porta chiusa, Cruni gli disse: «Ma non abitava al secondo piano?».
«Sì, ma noi andiamo al terzo».
Quando furono nell’anticamera moresca, si volse: «Accendete i fiammiferi».
Entrarono nella seconda stanza al lume delle fiammelle. Vannetta Arcangeli era ancora in terra. Che pugno! Forse, aveva esagerato.
Ma quando, in quattro, la sollevarono, la donna mostrò gli occhi aperti. Aveva lo sguardo duro, cattivo, e li fissò uno dopo l’altro, per fulminarli.
«Su, in piedi, voi!».
Lei si afflosciò ancor di più.
«Giù nel tassì, e accompagnatela a San Fedele. Mettetela in guardina. Se si ribella, le manette!».
Si ribellò. Fu un altro inferno di calci, di pugni, di strattoni, di graffi. Cruni dovette aiutare i due agenti, che da soli non bastavano.
Per le scale si sentì un franamento apocalittico. Uscirono gli inquilini del primo piano e il brigadiere li ricacciò in casa. La donna arrivò al portone con l’abito a brandelli, i capelli sciolti e arruffati, schiumando come una dannata. Gli agenti e Cruni erano stremati e ansavano.
«Peserà un quintale».
Pesava di più, aveva l’inferno in corpo.
La portinaia, a tutto quel ciclone, s’era chiusa nello sgabuzzino e guardava di dietro il vetro. Uscì quando la vide nel tassì.
«La signora Arcangeli? Ma che ha fatto?».
Cruni si contentò di mandare una specie di ruggito e tornò in alto.
De Vincenzi aveva già cominciato a cercare.
L’appartamento era identico a quello del vecchio. Anticamera a due porte: una dava nel salotto dove s’era scatenata l’ira di Dio, l’altra nella cucina in cui evidentemente la padrona dormiva anche, perché c’era una branda e perché non avrebbe potuto dormire altrove. L’ultima camera, quella da cui aveva fatto la sua apparizione il visconte, quando si era incontrato con De Vincenzi, era appunto la camera dell’inquilino.
«Ma chi è quella furia, dottore?» chiese Cruni, a cui doleva ancora un ginocchio per un calcio ricevuto.
De Vincenzi aveva acceso la luce. La camera conteneva mobili strettamente necessari: il letto, il cassettone, l’armadio pei vestiti, un piccolo tavolo, qualche seggiola. In un angolo era il lavabo a muro e il rubinetto dell’acqua corrente, lusso voluto certo dal visconte, perché in quella vecchia casa dove mancavano i bagni non poteva evidentemente esservi acqua corrente nelle camere.
Sul letto disfatto si vedeva un pigiama di seta a colori. Le pantofole sullo scendiletto. Nella vaschetta del lavabo piena d’acqua saponata nuotava una spugna.
Tutto rivelava che l’uomo s’era realmente svegliato assai tardi, e doveva avere appena terminato di vestirsi, quando il commissario aveva suonato.
Un particolare colpì subito De Vincenzi e fece sternutire lui e Cruni dopo cinque minuti che si trovavano nella stanza: la finestra era spalancata.
«Aveva bisogno d’aria pura!» fece con un ghigno il brigadiere, che andò a chiuderla.
«Dove dà quella finestra?».
Cruni si era fermato a contemplar qualcosa con profonda meraviglia. Trasse di tasca una lampadina elettrica e ne proiettò la luce fuori della finestra. «Venga a vedere, dottore!».
Sì, adesso molte cose si spiegavano e anche il fatto che il visconte si fosse fatto sorprendere in casa dal commissario, mentre avrebbe avuto tutto il tempo di fuggir prima.
La finestra dava sopra uno stretto cortile rettangolare, lungo e umido, di cui un lato era costituito dalla casetta cimiciosa e l’altro dal palazzo di marmo. Di fronte alla finestra dalla quale si affacciavano i due funzionari e quasi alla stessa altezza si aprivano quattro finestre, che dovevano evidentemente appartenere all’appartamento del secondo piano del palazzo.
«Ha visto?» e Cruni indicava davanti a sé, in basso.
Aveva veduto, infatti. Dalla facciata della casetta a quella del palazzo, era stato gettato un ponte! Una trave lunga, che poggiava da una parte nell’incavo di un foro fatto nel muro della casetta col toglierne qualche pietra e dall’altro sul largo cornicione, che correva sotto le quattro finestre di fronte. Nulla di più semplice che passare dalla camera del visconte nell’appartamento del secondo piano del palazzo, poiché la trave finiva proprio al disotto di una delle quattro finestre e quella finestra era aperta.
«Chi abita lì di fronte?».
«Nessuno... È uno dei due appartamenti del palazzo, sopra il Decamerone, che presi in affitto da una Società di Assicurazioni non saranno occupati che in marzo... Terminiamo di cercar qui dentro e poi andremo a vedere quale altra sorpresa ci attende lì».
Terminarono presto, nella stanza del visconte, perché dentro l’armadio dei vestiti – coi capi abbastanza numerosi di un guardaroba da giovanotto elegante – trovarono qualche etto di oppio e tutta una serie di pipe e lampade per fumare.
«Ma perché non è scappato dalla finestra e ha lasciato qui questa roba?».
«Pensava appunto di poterlo fare come sempre, e non s’è dato premura. Alle cinque mi hanno sentito suonare e lui si è affrettato a varcare la passerella; ma, quando s’è trovato dall’altra parte e ha fatto per scendere le scale, deve essersi accorto che il palazzo era piantonato e le scale piene di agenti e non ha potuto che tornare indietro. Allora, con l’aiuto della mite Vannetta, ha rapidamente concepito la scena della ribellione e del lampadario strappato dal soffitto e gettato fra le mie gambe...». Aveva dato tutte quelle spiegazioni al suo subalterno soprattutto per chiarire la situazione a se stesso, e il brigadiere gongolava dalla soddisfazione. Lui aveva un vero feticismo pel suo capo e a sentire che gli parlava come a un eguale, non stava più in sé. Osò chiedere: «Lei crede, dottore, che ci sia nesso tra il morto e...».
«E Vannetta Arcangeli, ospite premurosa del visconte, pronta a sacrificarsi di persona per facilitargli la fuga, e il giovanotto stesso? Altro che nesso! Una cosa, però, è forse certa: che lui non sapeva dell’assassinio del vecchio, o ignorava che fosse stato compiuto in una sala del Decamerone, perché altrimenti avrebbe facilmente immaginato che il palazzo era occupato dalla polizia e che, quindi, la fuga da quella parte gli era preclusa. Scendiamo. Qui per ora non c’è più nulla da fare».
Sul portone, De Vincenzi chiese alla portinaia il nome dell’inquilino del terzo piano, e la vecchia gli sfoderò di nuovo quel suo foglio sudicio.
Visconte Bruno Della Casa, 28 anni, da Livorno, benestante.
«Lei crede?» fece Cruni; ma questa volta De Vincenzi lo guardò con leggera ironia e gli disse soltanto: «Che vuoi che creda?».
ORE 18,45
Il Questore, rincantucciato in fondo all’auto, aspettava.
A che scopo salire? Non voleva che parlare a De Vincenzi. Lo aveva mandato a chiamare dall’autista e gli aveva detto che il commissario doveva trovarsi a compiere un sopralluogo nella casa accanto.
Il delitto di via Fiori Oscuri stava per diventare il corollario del delitto di corso Venezia? Sperava con tutte le sue forze che così non fosse, ma sentiva che la sua era una speranza vana. Che strana creatura quella donna! Aveva l’aria di una giovane tigre dai muscoli bendati... Si toccò il garofano doppio all’occhiello. Sorrise. Una giovane tigre! Mica male... De Vincenzi avrebbe apprezzato il paragone. Avrebbe perfino pensato che lo avesse preso da qualche libro. Lui non leggeva e aveva orrore della psicanalisi. In questo caso, però...
Perché in quella vasta sala, davanti a quel caminetto che ardeva – ardeva meno, però, della chioma rossa della donna – era stato preso da uno strano senso di smarrimento? Il suo spirito, sempre così vigile e preciso, così rapido e succinto, s’era messo a vacillare. Vacillava come la fiamma del ceppo... Era questo, era questo: qualcosa gli batteva attorno come un soffio!
Sensazione imprecisa. Ricordo vago di quella sensazione. E anche delle cose e di lei.
Quali parole gli aveva dette, precisamente?
Quali di esse avrebbe ripetute al commissario?
Non sapeva. Eppure aveva voluto parlare subito con De Vincenzi, appunto per dirgli qualche cosa di sostanziale, di immanente, che lui sentiva immanente e definitiva.
«Tanta gente aveva ragione di uccidere mio marito... e io per la prima...». Parole. Atteggiamento estetico di donna, che si guarda e che si ascolta. Ma il morto c’era!
Il dottore gli aveva parlato di ecchimosi impercettibili, di vasomotori, di arresto cardiaco provocato ad arte... Ad arte? L’arte dei Borgia!
Sicuro: che facesse l’autopsia! E il più presto possibile... Avrebbe dovuto riferirne a Roma. Ah! Se non ci fosse stato nulla! Era un vecchio diplomatico, ministro plenipotenziario in Cina.
«Mio marito aveva un solo amore! L’amore per le pietre preziose...».
«Amore?».
«Passione! Viveva per la sua collezione di gemme...».
«E lei ha verificato che la collezione sia intatta?».
«Che vuol dire? io non ho mai saputo dove mio marito avesse la sua collezione...». E aveva riso. Sinistramente.
Le fiamme del ceppo avevano vacillato. La sua ragione vacillava, quella sì. Questo ricordava di essersi detto... «È la pazzia! Attenzione! Io sto per diventar pazzo...». Si toccò il garofano e sorrise. Quella era roba da De Vincenzi.
Aveva ordinato l’autopsia. «Qui, nella sua camera?».
Dove volevano. E il dottore (ma perché il dottor Veretti aveva voluto destare in lui il sospetto e dirigerlo contro la marchesa?) aveva chiamato il medico municipale, aveva voluto un consulto con uno specialista.
«Sono qui, commendatore...».
«Salga! Venga dentro».
«Debbo riferirle? Credo che ci troviamo di fronte a una banda».
«Ah!».
«Una banda di ladri di gioielli e di ricettatori».
«Che cosa?».
«Ma sì. Guardi... Era sotto il cadavere...».
Il Questore prese in mano l’astuccio vuoto e lo contemplò. Aveva acceso la luce. De Vincenzi guardò fuori dal vetro. Non avrebbe voluto che li vedessero dentro quell’auto. Ma perché era rimasto con l’astuccio sulla palma e lo fissava, come ipnotizzato?
«E poi c’è altro...».
Ma a che scopo parlare? Non lo ascoltava! E guardava l’astuccio. Non gli era mai capitato di vedere il suo capo in contemplazione di qualcosa, a quel modo. E neppure che tacesse e non lo ascoltasse.
«Mi darà il suo rapporto in seguito. Lei ha ancora molto da fare, qui?».
«Molto da fare? Tanto da fare! Comincio adesso! E sarà calda! Avrò bisogno di mobilitare mezzo San Fedele!».
«Mobiliti quel che vuole! In che modo, calda?».
«In tutti i modi. Quello che ritengo uno dei capi della banda è riuscito a fuggirmi, dopo aver strappato un lampadario dal soffitto e avermelo gettato tra i piedi... Ma tornerà! E chi altro ancora? Ci troviamo dinanzi a una vera e propria associazione a delinquere, senza contare che c’è tutta quella masnada del Decamerone!».
Il Questore si fece grave. Abbassò la voce. «Mi ascolti, De Vincenzi. Le ho detto della morte del marchese Goffredo Vitelleschi, ma non le ho ancora detto che, forse, si tratta di assassinio...».
Abbassò ancor di più la voce e continuò a parlare.
De Vincenzi lo ascoltava con concentrazione. Cercava di leggergli il pensiero attraverso tutte quelle parole. Che cosa credeva, realmente? Quale era, realmente, la sua convinzione?
«Ma lei suppone?».
«Nulla! Vada lei. Supponga lei!».
Un’altra donna!
«E l’autopsia?».
«Prima di sera sarà fatta...».
«Andrò laggiù tra un’ora, forse due. Vorrei sgomberare prima il campo qui...».
«Bene! Vada quando vuole. Forse, io mi sono fatto prendere dalla fantasia! Quel maledetto dottore coi suoi vasomotori. Arrivederla!».
De Vincenzi scese dall’auto, chiuse lo sportello, la macchina si mosse, aprì...
Cruni aspettava sul portone. «Andiamo a visitare l’appartamento vuoto?».
Adesso, era lui che non ascoltava. Finalmente, disse:
«Andiamo...».
Quando fu di nuovo nell’anticamera del Decamerone, vide che i suoi ordini erano stati eseguiti. Tre agenti piantonavano l’ingresso.
Si volse al brigadiere: «Hai dato tu le consegne, prima di venire da me, poco fa?».
«Sì, dottore. Altri due agenti li ho messi di là, nel salone».
«La presidentessa?».
«Là dentro, nella sala da gioco».
Il commissario aprì la porta e guardò. Sofia Moroni stava seduta davanti a un tavolo e faceva un solitario. Era tanto assorbita nel chiedere alle carte la sua sorte, che non sentì neppure lo scatto della serratura e lo stridere dei cardini.
De Vincenzi ebbe un sorriso. Lasciò aperta la porta e tornò verso gli agenti.
«È venuto nessuno?».
«Sì, dottore. Sei o sette persone. Quasi tutte donne».
«E le avete fatte andar via?».
«No, dottore. Il brigadiere ci aveva dato ordine di trattenerle».
«E dove le avete messe?».
«Di là, nel salone...».
«Il cameriere?».
«Sempre nel guardaroba. Poco fa dormiva».
«Chiamalo».
Romeo comparve, zoppicando sulla sua gamba dura.
«Che cosa ci sarà adesso?... Ma che vogliono da me? Che dica tutto quello che so? Stanno freschi! Io non so nulla!».
«Venite qui, voi! Dove stanno le chiavi dell’appartamento superiore?».
«Come?».
«Anche questo? Ma chi glielo ha detto?».
«Non fare lo scemo! Dove teneva il... cavaliere le chiavi dei due appartamenti vuoti del secondo e del terzo piano?».
L’idea gli era balenata all’improvviso e dalla faccia dell’uomo che gli stava davanti capì di aver colto nel segno.
«Lo domandi al cavaliere».
«Ditemelo voi! E subito, altrimenti vi faccio condurre in Questura e vi ci tengo fin quando non vi sarete convinto che si va a finire in carcere anche soltanto per aver taciuto!».
«Eccole lì...».
Erano appese a un chiodo, nell’angolo della porta, sul muro. Un anello con due chiavi inglesi, simili, se non addirittura identiche, a quelle che aprivano il Decamerone.
De Vincenzi le prese. «Ritornate a dormire!».
«Ma a casa mia, quando mi ci manda? Che cosa c’entro io, se hanno ammazzato quel vecchio...».
Il commissario era già fuori dell’uscio, seguito da Cruni, a cui aveva fatto segno. Dovettero aggirarsi per le camere vuote del secondo piano alla luce delle lampadine tascabili.
Non trovarono null’altro che tracce visibili di cera in una delle stanze, quella che aveva la passerella alla finestra. E anche altrove, sul pavimento. In un angolo dell’ingresso videro un paio di candele a metà consumate.
«È evidente che prendeva questa strada, per uscire da casa della donna, senza essere veduto...» osservò Cruni. Quella poteva essere la spiegazione della passerella e delle tracce di cera.
Ma De Vincenzi pensò che non si entra dalla finestra in un appartamento disabitato e non ci se ne procura le chiavi della porta – come evidentemente doveva aver fatto il sedicente visconte – per uscire inosservati da casa propria. O almeno non per questo soltanto. Dovevano servirsi di quell’appartamento per ben altre ragioni e in più persone, come luogo di convegno...
A meno che... sì, poteva darsi... Ma occorreva conoscere a uno a uno tutti i soci e le socie del Decamerone! Sofia Moroni e il cavaliere non avevano forse avuto a Shangai una fumerie? E l’avevano impiantata anche a Milano. Nell’appartamento di Vannetta Arcangeli, al quale facevano accedere gli iniziati attraverso le stanze vuote, sopra la passerella lanciata da una casa all’altra... Certo che, a entrare nel portone del palazzo, non era come infilarsi in quello lercio e sudicio della casetta cimiciosa. Non si era notati. Non ci si comprometteva. Mentre chiudeva la porta, si disse che il giorno dopo, con la luce, avrebbe compiuto un’altra perquisizione ben più accurata e profonda.
Scesero. De Vincenzi stava dirigendosi verso la sala da gioco: avrebbe turbato il solitario della presidentessa, ed era deciso a non turbar quello soltanto, quando un’esclamazione soffocata di Cruni lo fece voltare. Sulla soglia era apparso il cavaliere.
«Ah! È tornato? Bravo. Vada di là nel salone a far gli onori di casa ai soci. Credo che la sua assenza sia stata deplorata...».