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Martedì

(Bagliori)

ORE 21

Delia era sempre vestita di nero, con quel suo abito di crespo, corto quasi ai ginocchi e chiuso attorno al collo e attorno ai polsi. Si era levata di tavola e si teneva in piedi, nello studio di suo marito, davanti al caminetto.

Adesso che il marchese era morto, prediligeva quella stanza. Non aveva alcuna particolare ragione per farlo. Guardò la pendola di Boule. Da un’ora circa quegli uomini se ne erano andati. E non le avevano detto nulla. Lei si era seduta a tavola, al suo posto, come sempre. Come sempre, Pietro l’aveva servita.

Poteva darsi che il cadavere – la salma! – fosse rimasto nel palazzo; poteva darsi che non vi fosse più. La risoluzione di un tale problema la interessava mediocremente. In ogni caso, l’autopsia si sarebbe dovuta fare o era già stata fatta, a quell’ora.

E lei sapeva quel che sarebbe risultato dall’autopsia.

Suo marito non poteva non essere stato assassinato.

Però, cominciava a trovare che avevano agito verso di lei con troppa disinvoltura e senza rispettare per nulla i riguardi dovuti alla sua qualità di vedova. O forse si erano conformati alle norme che la legge sancisce in simili casi...

Un sorriso di sarcasmo le aleggiò sul volto. Il dottor Veretti non aveva voluto dar l’ordine d’inumare! Uno scandalo... A quell’uomo giallo e disseccato dovevano piacere gli scandali.

Fissò il bottone del campanello, quasi nascosto tra la cornice della specchiera e il marmo del caminetto. Il notaio le aveva detto che sarebbe tornato alle nove.

Fece un passo e tese un braccio. Una grande mollezza era in lei. Non proprio stanchezza; piuttosto, intorpidimento. Certo, avrebbe dovuto scuotersi. Molte azioni doveva compiere, necessarie, indispensabili. Non che dovesse forgiare ancora il suo destino. Esso era già tracciato. Meraviglioso! Un destino tempestato di pietre preziose, colmo di tanto denaro. In fondo, aveva dovuto sempre compiere uno sforzo per ottenere il denaro. Il denaro apparteneva a lui. Era lui che glielo dava. Col braccio teso e la mano appoggiata al marmo, si volse verso l’angolo della sala, dove si trovava la piccola scrivania di palissandro, incrostata d’avorio. Lui sedeva davanti a quel piccolo mobile, così fragile sotto le sue mani pesanti, brutali; apriva il tiretto, ne estraeva quasi con rabbia il libretto degli assegni... Non aveva alcuna delicatezza! Quando le tendeva finalmente quella sottile strisciolina di carta, aveva già messo a dura prova la sua resistenza. E lei aveva dovuto sorridergli, far la vezzosa, avvolgerlo nel calore animale, che poteva sprigionare dal suo corpo, quando avesse voluto...

Il sorriso di sarcasmo si accentuò.

Premette il bottone. Attese.

Pietro comparve, silenzioso, cauto, senza che neppure la porta gemesse al suo passaggio.

Ne sentì di colpo la presenza e si volse, un poco fremente.

«Ah!».

«La signora marchesa ha chiamato?».

«Il notaio?».

«È nel salotto giallo, che attende...».

«Gli altri?».

«Sono andati via da molto tempo, signora marchesa».

«Chi... chi è rimasto?».

«L’infermiera».

«Sola?».

«Sì, signora marchesa».

«Che cosa... che cosa fa ancora qui?».

«Veglia la salma, signora marchesa».

Non lo avevano portato via! Tutto era ormai terminato. Ma come avevan potuto? Non lo avevano portato via. Dunque, ancora lei non poteva entrare nella camera di lui, non poteva cercare. Occorreva far presto! Chi aveva ucciso il vecchio di via Fiori Oscuri?

Strinse nervosamente le mani; ma fu un attimo. Pietro le stava sempre davanti, a fissarle la punta delle scarpine, compreso della propria importanza, carico di rispetto.

«Pregate il notaio di venire da me...».

«Il notaio non è solo, signora marchesa. Con lui si trova un funzionario di polizia».

«Volete dire il Questore?».

Il garofano rosso, gli sguardi indagatori, le antenne mobili...

«No, signora marchesa. Un altro funzionario».

«Ha chiesto di parlare con me?».

«Non ancora. Si è subito appartato col notaio nel salotto giallo».

Nessuno chiedeva di lei, nessuno si preoccupava d’informarla di nulla! Tutto si svolgeva attorno a lei e al di fuori di lei. «Sta bene, Pietro. Dite al notaio che ho assoluto bisogno di parlargli».

Il cameriere scomparve silenziosamente, come era apparso.

«Un destino tempestato di pietre preziose, colmo di tanto denaro», pensava lei. E reagì all’attimo di smarrimento. Di nuovo piena di forza, accesa di energia, si volse a guardare la porta per la quale sarebbe apparso il notaio.

ORE 21

«È il notaio del defunto marchese?».

De Vincenzi era giunto al palazzo, mentre la «signora marchesa» si trovava in sala da pranzo.

Nell’anticamera aveva trovato Ada e Fiorina, compostamente sedute una di fronte all’altra, ai due lati della stanza, coi loro abiti neri e i grembiulini bianchi: due rondini sulla grondaia.

Le cameriere – la bionda sottilina e la bruna repleta – si erano alzate di scatto, un poco spaventate, un poco fremebonde, come foglie agitate da un improvviso colpo di vento. Ada era corsa ad avvertire Pietro, prendendolo al passaggio, dalla sala da pranzo alla cucina, fra un servizio e l’altro.

De Vincenzi non aveva voluto che si disturbasse la signora. Poteva benissimo occuparsi nel frattempo di molte altre cose. Anzi preferiva dar prima un’occhiata alla salma. Il dottor Veretti? «Sono tutti usciti poco fa. Credo che abbiano tenuto un consulto...». Pietro dava i ragguagli con circospezione. De Vincenzi lo aveva sentito prudente e accorto. E aveva benedetto in cuor suo il caso, che gli permetteva di conoscere l’ambiente, di far parlare le cose, prima di trovarsi alla presenza di Delia. Quella presenza era bastata a sconvolgere persino il suo capo!

«Andate pure, senza occuparvi di me...».

«Il signore ha senza dubbio un mandato?». De Vincenzi si era accontentato di mostrare al cameriere la sua placca di cuoio da commissario di polizia. Pietro aveva chinato il capo e un poco la persona, forse per ossequio, forse per osservare meglio il distintivo, che l’altro teneva sulla palma. «Se il signore vuol favorire da questa parte, la metterò in rapporto col notaio della famiglia». Così lui se ne lavava le mani, senza lasciarlo solo. «Questo prudente cameriere potrebbe dirmi molte cose, se volesse...» pensava il commissario, entrando nel salotto giallo.

Il dottor Narboni era vestito di grigio scuro e aveva una busta di cuoio nero davanti a sé, sul piccolo tavolo dorato. Il salotto giallo era carico d’oro. Anche la luce del lampadario aveva un caldo colore ambrato.

Il notaio si alzò e osservò il commissario, socchiudendo gli occhi senza ciglia, sicché il suo volto, a pupille spente, apparve ancor più slavato, ancor più senza età e quasi senza sesso.

«Con chi ho l’onore di parlare?».

«Commissario De Vincenzi della Questura Centrale».

«Dottor Narboni, notaio appunto del defunto marchese Goffredo Vitelleschi del Verbano. E ora della vedova».

«Vogliamo sederci?».

Uno di fronte all’altro, col tavolino dorato tra loro, tacquero qualche istante. Poi il notaio deglutì e affermò con accento, che a De Vincenzi parve trionfante. «È davvero ottima cosa che oramai tutto sia terminato...».

De Vincenzi sollevò le ciglia. Che voleva dire? Era possibile che la sua soddisfazione provenisse dal fatto che il marchese aveva tirato le cuoia?

«Come?».

«Già. Ella, signor commissario, non avrà da darsi alcuna pena... Oh! Lo scandalo sarebbe stato molto spiacevole! La casata dei Vitelleschi del Verbano è una delle più nobili della provincia, una delle più antiche d’Italia. E la povera marchesa... così giovane ancora, così fragile, tanto colpita dalla immensa sventura, non avrebbe meritato che la sorte si fosse accanita a cospargere di losco il suo doloroso rimpianto...».

«Lei intende dire?».

«Nessun bisogno di autopsia! La morte del marchese... uhm... non so dire quanto deplorata... ma insomma non immatura, dacché il compianto defunto aveva i suoi anni... è stata riconosciuta dal medico legale e dagli altri luminari della scienza convocati dal dottor Veretti come derivata da un’embolia... Eccessiva pressione arteriosa... arteriosclerosi... e il resto...». Aprì la borsa nera, ne trasse un gran foglio, lo mostrò, senza porgerlo. «Ecco la dichiarazione medica debitamente firmata». Estrasse un secondo foglio. «Ed ecco il permesso d’inumazione».

Così, tutto era finito! Il marchese era morto di morte naturale. Immediatamente, De Vincenzi sentì che il suo capo aveva ragione di supporre... aveva ragione di credere al dramma... I medici avevan decretato che il marchese era morto naturalmente... Lui non poteva certo mettere in dubbio il responso dei medici; eppure, ora più di prima, era convinto che le cose non fossero andate così lisce come le apparenze volevano far credere, ora più di prima sentiva di non dover lasciare quella casa...

Giustificazioni a sé e agli altri poteva trovarne: il nome di Delia Vitelleschi non era forse compreso fra quelli delle persone che Sofia Moroni aveva denunciate come frequentatrici della casa di Vannetta Arcangeli? Che altro? Ah! Una sua idea repentina, che gli era balenata dopo il colloquio con Claudia Sutton; ma come avrebbe potuto parlare al Questore di quella sua fantastica ipotesi, che gli era germogliata all’improvviso nel cervello?

«Tutto è terminato, dunque, prima ancora di cominciare e sono lieto...». Fece una pausa: «Vuol avere la cortesia di darmi i particolari del consulto tenuto dai medici?».

«I particolari?». Sembrava scandalizzato. «Per me i particolari sono contenuti tutti in questi due fogli... Però, se vuol sapere... Alle diciotto i medici si sono riuniti nella stanza del marchese...».

«Non avranno sezionato il cadavere lì dentro!».

«Ma se le dico che non c’è stato alcun bisogno di autopsia? Oh! Il dottor Veretti avrebbe voluto far trasportare subito la salma al Monumentale; ma il medico legale e il professor Mariani, il grande specialista di malattie cardiache, hanno opinato che fosse opportuno visitare il cadavere accuratamente, prima di procedere a un atto di cui ognuno comprendeva la gravità. La visita è stata lunga e, come può credere, esauriente. Hanno osservato il corpo con tutti i mezzi e tutti gli apparecchi scientifici più moderni. Non si è avuta discussione: la morte per embolia è apparsa lampante. Nessun bisogno di autopsia, nessuna necessità di martoriare un corpo la cui anima aveva raggiunto l’eternità per cause naturali. A che scopo provocare lo scandalo? Ed eccoci tranquilli...».

De Vincenzi ascoltava il notaio e si chiedeva da che cosa provenisse in lui una così evidente soddisfazione. Il suo attaccamento alla casata dei Vitelleschi era certo una ragione logica...

«Il marchese Vitelleschi ha lasciato un testamento, naturalmente?».

«Naturalmente».

«Potrebbe accennarmene le linee fondamentali?».

Il notaio socchiuse le palpebre in quel suo modo che toglieva ogni espressione al volto. Era come se si mettesse una maschera. «Se ella non ha un ordine tassativo, un ordine della Procura del Re, non mi è possibile aprirlo e comunicargliene i termini! No, davvero! Non mi è possibile».

Seguì un silenzio. De Vincenzi intuì facilmente che nessuna forza avrebbe potuto smuovere quell’uomo dal suo proposito.

«Come vuole che abbia un tale ordine?».

L’altro si strinse nelle spalle.

«Quando procederà all’apertura del testamento?».

«Attendo che la signora marchesa voglia darmi le sue istruzioni pei funerali. Subito dopo convocherò gli interessati per la lettura».

«Ella a ogni modo può dirmi... anche senza bisogno di un ordine della Procura, quali siano questi interessati, ch’ella convocherà».

«I parenti».

«E cioè?».

Sembrava un giuoco di società o da bambini: ogni risposta produceva una domanda, a catena.

«In primis la consorte...».

«E poi?».

«Il fratello, nobile Defendente Vitelleschi dei marchesi del Verbano...».

«Ah! Il defunto aveva un fratello?».

«Sicuro! Ma ora che lei mi ci fa pensare... il nobile Vitelleschi risiede all’estero, molto lontano... Occorrerà avvertirlo!».

«E dove si trova?».

«In Cina, a Shangai».

Diventava un’ossessione! Tutte le persone di quella storia avevano avuto o avevano a che fare con la Cina! E precisamente con Shangai!

«Vada avanti...».

«Il nobile Gastone Vitelleschi dei marchesi del Verbano, nipote del defunto e figlio del nobile Defendente».

«Anche costui... in Cina? ».

«No, il signor Gastone si trova a Milano, è un giovane studente universitario».

«Meno male! E ci sono altri parenti?».

«Non credo... non mi risulta...».

«Una piccola informazione, dottore, se può darmela senza l’ordine della Procura!».

«Lei scherza, commissario!».

«Non mi sembra il momento! Vorrei chiederle: il patrimonio lasciato dal marchese è cospicuo?».

«Il signor marchese aveva quasi tutto il suo investito in titoli di Stato; o, per lo meno, questo è quel che io suppongo. Di immobili non c’è che questo palazzo e di latifondi la tenuta di Verbano, ma sono passivi o quasi».

«Cosicché, il grosso dell’eredità lo si troverà alla Banca?».

«Può darsi».

«O altrimenti...».

Questa volta fu il notaio a interrogare, e anche con una certa ansia malcelata: «Altrimenti? Che cosa intende dire?».

«Nulla di preciso. Ho inteso parlare di una collezione di gioie, di pietre preziose...».

«Ah... naturalmente». Di nuovo il volto gli era tornato impenetrabile.

«Si parlerà di essa nel testamento...».

«Può darsi. Ma io ignoro completamente il contenuto del testamento, sa? Il signor marchese me lo confidò chiuso in una busta, e non credette opportuno darmi alcun ragguaglio al riguardo».

La porta del salotto giallo si aprì e Pietro, di sulla soglia, disse: «La signora marchesa desidera parlare immediatamente col signor notaio».

Il notaio afferrò la busta nera e si levò di scatto. «Vengo, Pietro!».

Si toccò il nodo della cravatta nera, si lisciò i capelli.

«Se lei permette...».

«Vada... vada pure, e preghi la signora di ricevermi, dopo di lei. Io approfitterò dell’attesa per dare un’occhiata alla camera del defunto...».

«Se le sembra proprio necessario! In tal caso, Pietro si metterà a sua disposizione...».

ORE 21,30

Pietro precedeva il commissario.

Passarono per l’anticamera. Un grande oggetto avvolto in carta d’imballo marrone era deposto sulla cassapanca.

«Lo specchio nuovo! Ma perché il povero marchese aveva desiderato uno specchio moderno, un vero specchio, proprio poche ore prima di morire?».

De Vincenzi vide il cameriere fermarsi a guardare l’involto marrone. La sosta fu brevissima. Quando riprese a camminare, Pietro sospirò.

«Un quadro?».

«Eh... Uno specchio!».

«Antico? Comperato? Da vendere? Da riparare?».

Ancora gli sembrava di dover strappare le risposte al notaio e aveva sgranato le possibilità tutto d’un fiato.

«Niente! Non è questo!». S’era fermato a fissare il commissario. «Ieri sera, io sono stato l’ultimo a parlare col signor marchese...».

De Vincenzi annuì col capo. «Naturale! A che ora?».

«Alle nove. A quell’ora, ogni sera, andavo a prendere i suoi ordini, gli portavo il decotto, mi assicuravo che tutto fosse pronto per il suo riposo».

«Si trovava nella sua camera?».

«Nella sua poltrona».

«Subito dopo aver bevuto il decotto, si coricava?».

«Secondo... A ogni modo, non usciva più dalla camera».

«Dunque, ieri sera?».

«Ieri sera, il marchese mi disse: ‘Domani mattina, Pietro, comprerete uno specchio nuovo, uno specchio moderno, un vero specchio, nel quale ci si possa specchiare’».

«Strano! Dove avrebbe potuto mettere un tale specchio in una casa come questa?».

«Il marchese non aveva mai voluto alcun oggetto moderno, anche nel suo bagno i pochi mobili indispensabili sono antichi!».

«Appunto!».

«E aggiunse: ‘È inutile che la marchesa lo sappia’».

«Ah! E non vi diede alcun altro ordine?».

«Dovevo, stamane, avvertire il notaio Narboni di venire a palazzo alle undici, senza fallo...».

«Ah! E non voleva che la marchesa lo sapesse?».

«Precisamente! Come lo sa, lei?».

«Non lo sapevo. Me lo avete detto voi, ora».

Pietro crollò il capo con imbarazzo ed entrò nel salotto, che precedeva la stanza da letto del defunto.

La porta era spalancata. Quattro ceri ardevano ai lati del letto monumentale. Un forte odore di disinfettanti veniva da quella stanza.

L’infermiera in camice bianco, quando i due uomini entrarono, si volse a guardarli.

«Ah! Se venissero a darmi il cambio per un’ora, per una sola ora, o almeno a tenermi compagnia!».

Era seduta accanto al camino, davanti al ceppo spento, e volgeva quasi le spalle al cadavere.

«Buona sera, signora!».

«Buona sera, signore...».

«Un parente? Un altro medico?».

Sul caminetto una pendola segnava le sette.

«Quella pendola s’è fermata, signor commissario».

«Ah! Dunque è un commissario! Perché un commissario? Quante strane cose avvengono, quando i ricchi muoiono. Prima il consulto davanti al cadavere, a cui non avevano chiuso gli occhi! Adesso, un commissario...».

De Vincenzi sentì le parole di Pietro. Egli, infatti, aveva guardato la pendola, ma non meditava sull’ora. In quella camera, con quel grosso cadavere disteso sulla coltre di damasco rosso, nulla era meno ragionevole che pensare «al tempo». La sensazione esatta che aveva era di trovarsi di colpo fuori dallo spazio concluso, proiettato nell’assoluto. Era difficile per lui da concretare, ma insomma le ore non contavano, la durata non aveva più limiti.

Si scosse. Reagì. Volse lo sguardo attorno. Poi tornò a fissare il cameriere. Fu uno sguardo denso di significati. Pietro li comprese. Era strano quante cose poteva comprendere Pietro! Si diresse verso la porta spalancata. «Signora, venga con me... Le farò prendere qualcosa... la veglia sarà lunga...».

La donna si alzò subito, come liberata.

«Lei era l’infermiera della casa?».

«No, signore. È la prima volta che metto piede in questo palazzo».

«Appartiene a un ospedale?».

«Prima... Ora faccio il mestiere libero».

«In quale ospedale, prima?».

«Maggiore».

«Reparto?».

«Chirurgico».

«Questa sera... qui, hanno tenuto un consulto?».

«Sì».

«Si son trovati tutti d’accordo?».

«Tutti, tranne il medico curante, il dottor Veretti. È stato lui a farmi venire al palazzo».

«Ho capito. Vada... vada a prender qualcosa...».

De Vincenzi percorse lentamente la grande camera. Osservava. Cercava d’imprimersi, attraverso lo sguardo, nel cervello, a piccoli quadrati, ogni pollice di superficie. Era come se avesse perquisita la stanza, senza toccare nulla materialmente. Si fermò davanti al camino. Si chinò. Questa volta toccò. Trasse di tasca un foglio e raccolse, tra gli alari e sul ceppo morto, un pizzico di cenere bianca, che conteneva frammenti infimi di carta bruciata. Si era servito del foglio come di una spatola. Lo piegò con cura, lo fece sparire in tasca.

Rimase a osservare il ceppo, la poltrona, il piccolo tavolo sul quale era ancora il vassoio con la tazza del decotto. Interrogava quei muti oggetti, testimoni della morte del marchese.

Si chinò rapido, raccolse un oggettino, ch’era andato a incunearsi fra il tappeto e il marmo della base del caminetto e, senza guardarlo, se lo cacciò in tasca.

Poi riprese a percorrere la stanza.

Toccare? Non doveva più toccare alcuna cosa. Neppure l’inginocchiatoio accanto al capezzale, neppure la coltre, neppure il corpo...

Lo avevano vestito con l’abito nero da società. Il volto già turchiniccio, violaceo sotto gli occhi – chiusi – risaltava macabro contro il biancore dello sparato. Gli avevano legato un nastro bianco sotto il mento, dalle mandibole al cranio. Naturalmente! Altrimenti, sarebbero stati costretti a metterlo nella cassa a bocca contorta.

Aveva le mani distese ai fianchi... La rigidità cadaverica... E un Cristo d’avorio sul petto. Era stato impossibile far stringere il Cristo a quelle mani.

«La signora marchesa è disposta a riceverla, commissario...».

«La signora marchesa è molto gentile, dottor Narboni...».

ORE 22

«La morte non è soltanto la fine della vita. Ne è il rimedio. In nessun posto si sta così bene come in una bara. La cassa da morto è il solo abito che non dia fastidio».

De Vincenzi non aveva dato alcun segno di sorpresa. Neppure di ammirazione.

«Si segga, commissario! E non badi a quel che dico. Io mi sono sempre chiesta se nei momenti gravi, nei momenti decisivi, abbiano più valore le parole o la sostanza di esse. Le parole in se stesse, voglio dire. Dottor Narboni, nessun bisogno ch’ella rimanga, ad assistermi. Potrò benissimo parlare da sola al commissario».

Il notaio s’inchinò, fece un segno di saluto col capo a De Vincenzi, uscì rapido dallo studio con la busta nera sotto il braccio.

Delia lo guardò uscire. «Questi uomini di legge credono sempre che sia necessario proteggerci dalla legge. Vuol chiudere la porta, commissario?».

Quando tornò verso le due poltrone, presso al caminetto acceso, la marchesa si era seduta. Aveva il capo contro la spalliera, un poco reclino su di una spalla e lo seguiva nei suoi movimenti.

«Segga e parliamo...».

«Insetti! Dove ha le antenne costui? Perché non le sento ancora cercare? Ah! Comincio a esser stanca di dover fare la regina di tutti questi insetti!».

De Vincenzi sedette e sorrise. Un sorriso pieno d’innocenza. Attendeva. Era come un foglio bianco sul quale lei avrebbe potuto scrivere quel che voleva. Ma lei non avrebbe voluto scrivervi nulla.

«Adesso, dunque, tutto è finito. Io l’ho detto al suo Questore, quando me lo ha chiesto: ‘Mio marito può esser stato ucciso, ma può anche esser morto di angina pectoris o di arteriosclerosi’. Molte volte non si compie un omicidio, perché non si giunge a tempo... la morte, la morte naturale è arrivata prima di noi...».

De Vincenzi fece un vivo cenno di assenso e il suo sorriso fu pieno d’indulgenza e di comprensione. «Molti avrebbero voluto uccidere suo marito?».

«Oh! Chi glielo ha detto?».

«La tua voce è troppo soave, mio caro! Hai le antenne nella voce, tu! Io non mi fido ancora di te!».

«Nessuno. O forse lei, quando ha ammesso che il marchese poteva essere stato ucciso...».

«Pura letteratura! Nei romanzi, si è sempre uccisi. Pei romanzieri, la morte naturale è una conclusione, non uno spunto di vicenda... Mi comprende?».

«Cerco di comprenderla. Io non leggo romanzi».

Mentiva. Lei subito si disse: costui mente.

«È stato il Questore a mandarla da me?».

«Mi ha detto che lei aveva bisogno di un funzionario a cui affidarsi...».

«Naturalmente! Il dottore voleva l’autopsia, il notaio temeva lo scandalo. Hanno discusso qui, in questa stanza. Io ero presente. Allora, ho telefonato al Questore».

«Logico».

«Eppure di solito le donne mancano di logica».

«Non tutte le donne, marchesa».

«Io comunque non seguivo un filo logico, facendolo. Avevo semplicemente paura...».

«È meglio dire a costui tutta la verità che si può, per celargli quella che non si vuole dirgli. Io sento il pericolo in lui... Come è possibile che non riconosca in me la regina... degli insetti? Eppure non sembra affatto disposto a obbedirmi!».

De Vincenzi continuò a non dimostrare meraviglia e neppure ammirazione. «Naturalmente».

«Avevo paura, capisce?».

«Capisco. Aveva paura che da una possibile discussione... accesa tra il suo notaio e il medico, sorgesse uno scandalo anche maggiore. E nello stesso tempo desiderava disarmare il dottor Veretti, impadronendosi lei delle sue armi».

Fece di no col capo, violentemente. «Oh, no!». Guardò il fuoco nel camino, poi pronunciò con lentezza: «Avevo paura d’essere uccisa anch’io...».

«Già». E sempre più s’impose di rimanere tetragono alla sorpresa. Era l’unico modo per stimolarla a parlare. Forse, per costringerla a commettere un’imprudenza. «Ma perché lei, marchesa, aveva paura d’essere uccisa, e da chi?».

Non rispose. Fissava ancora il fuoco.

«Non ti dirò, mio caro, tutta la verità. Contentati che ti abbia rivelato qual genere di paura era ed è il mio...».

«Ma poiché ora i medici hanno affermato che il marchese non è stato ucciso, ecco che anche la sua paura deve essere scomparsa...».

«Crede?». Sorrideva ambiguamente. Distolse lo sguardo dalla fiamma. Si mise a osservare De Vincenzi con interesse.

«Non è forse un fatto ch’io so sprigionare dal mio corpo un sottile fascino che turba? E perché costui dovrebbe non cedere al fascino del mio corpo?».

«Conosceva il signor Marco Parodi?».

«Ecco che comincia a muovere le antenne!».

«Perché me lo chiede?». Prendeva tempo.

«Conosce questo astuccio?».

Lei lo prese fra le dita delle due mani, lo tenne lontano da sé, al di là delle ginocchia; gli occhi le si erano smisuratamente aperti. «Mio marito è stato davvero ucciso, dunque?».

De Vincenzi assentì col capo gravemente. «Credo di sì, signora. Anche se il mezzo di cui si sono serviti per ucciderlo è di quelli che non si scoprono».

«Lei come fa ad avere questo astuccio?».

«L’ho trovato... sotto un cadavere...». Sollevò lo sguardo, stava per pronunciare qualche parola, ma si trattenne in tempo. «Non vuol dirmi altro?». chiese, invece.

«Ma sì... Sotto il cadavere del signor Marco». Ebbe un brivido. Si strinse tutta nella persona con un movimento felino. Aveva realmente paura, adesso.

«Non ha risposto alla mia domanda, marchesa. Alle due mie domande».

«Questo è l’astuccio che conteneva...» e lo allontanò sempre più «... lo smeraldo di Budda...».

Per qualche minuto De Vincenzi rispettò il silenzio. La voce di lei si era spezzata quasi in un singhiozzo. Si sentiva il ceppo gemere dolcemente. E anche il tic tac della pendola di Boule. «Apparteneva a suo marito lo smeraldo di Budda?».

Tentò di ridere e ci riuscì; ma non fu il suo riso squillante, tutto cristallo, quello che le uscì dalle labbra. «Lo chiamavo io così... Non v’era ragione alcuna! Non pensi a qualche leggenda, a qualche storia avventurosa. Era uno smeraldo che mio marito aveva acquistato a Shangai. Di grande valore, certo! Forse, una delle pietre più interessanti della collezione...».

«Dove si trova ora la pietra?».

«Perché lo domanda a me? L’astuccio lo aveva lei!».

«Volevo soltanto pregarla di verificare se dalla collezione del suo defunto marito lo smeraldo realmente manca...».

«Ma io non so dove si trovi la collezione di mio marito!».

«Non capisco. Vuol dire che suo marito non le ha mai mostrato la sua collezione?».

«Sì. Ma non si è mai fatto vedere da me, quando la chiudeva di nuovo, dopo avermela mostrata. Io ignoro dove la tenesse. Ignoro dove adesso si trovi».

«Quindi può anche darsi che sia stata rubata?».

«No!». Era un grido di disperazione il suo.

«Il mio destino tutto di gioia, di ricchezza, con tanti brillanti, con tante pietre preziose!».

De Vincenzi si alzò. Si allontanò dalle poltrone. Camminò per la sala. La porta era chiusa. La piccola scrivania di palissandro, incrostata d’avorio, attrasse per un istante la sua attenzione. Poi gli altri mobili. Perché prima di morire il marchese aveva voluto uno specchio vero, uno specchio moderno?

Tornò verso il camino.

Il volto della donna si era nuovamente disteso. Gli occhi le erano tornati limpidi.

«Vuole che cerchiamo assieme le gemme?».

Scosse il capo e i capelli mandarono bagliori. «Non si può... Non si può...». Si appoggiò con le mani ai braccioli, si sollevò in piedi. «Chi veglia la salma?».

«C’è un’infermiera».

«Bambina!».

«Come dice?».

«L’infermiera si chiama Bambina. Me lo ha detto lei... Vuole che parliamo di tutto domani? Oppure dopo... i funerali?».

«Non crede che sia troppo tardi?».

«Troppo tardi, perché? Per chi?».

«Di chi aveva paura, lei?».

«Oh! Non badi a tutto quel che le ho detto. Ho i nervi un po’ scossi. Stamane mi hanno svegliata assai presto...

«È stata nella casa di via Fiori Oscuri, questa notte?».

«Al Decamerone vuol dire? Sì, ci sono stata. Fino alle due di notte».

«E nella casa di via Fiori Oscuri?».

«Ma dove?».

«Nella casa di Vannetta Arcangeli?».

«Non so quel che lei voglia dire...».

«Già».

Rimasero uno di fronte all’altra. Il ceppo gemeva. La pendola batteva il suo tic tac.

«Vuole che metta un agente di guardia al palazzo, questa notte?».

Sollevò un poco le spalle e sorrise ironicamente. «Per proteggermi?».

«Naturalmente».

«E perché non rimane lei?».

Subito De Vincenzi annuì. «Infatti, è questa la migliore decisione da prendersi. Ma poiché penso che certamente le ore più pericolose saranno quelle dopo la mezzanotte, le chiedo il permesso di assentarmi e di tornare. Ho ancora qualcosa che mi preoccupa in via Fiori Oscuri».

«Lei mi ha parlato del cadavere di... di quel vecchio, del signor Marco. Lo hanno ucciso?».

«Sì».

«In che modo?».

«Un colpo di pugnale».

«Per non far rumore?».

«O per altre ragioni».

«Quali?».

«Chi poteva sentire il colpo di una rivoltellata esplosa nel primo salotto del Decamerone, alle tre o alle quattro di notte?».

«Non so... Perché lei mi chiede tutte cose che non so?».

«Mi scusi. A tra poco...». S’inchinò, si diresse alla porta, l’aprì.

«Dove si metterà a vegliare, questa notte?».

«Nella camera del marchese».

«Con l’infermiera».

«E con la salma...».