10
De Vincenzi non scherza più
Fino a quel momento il fattore tempo era stato di prima importanza. De Vincenzi aveva girato con le sfere dell’orologio.
Dalla scoperta del primo cadavere, ch’era avvenuta alle undici del mattino, alla mezzanotte, le sfere avevano compiuto un giro quasi intero. E sul quadrante giacevano tre cadaveri. Adesso, per De Vincenzi il fattore tempo aveva perduto ogni interesse.
Erano dodici ore che agiva. Avrebbe continuato sino a quando non fosse caduto sfinito. Non gli era neppur necessario conoscere più che ora fosse. E neppure gli era necessario riflettere, arguire, dedurre. Adesso, sapeva tutto, lui!
La barchetta era scomparsa. Dopo aver strappato lo smeraldo dalle dita adunche del vecchio – e lo avevano ucciso, lanciandogli il pugnale a volo – occorreva loro la barchetta di cristallo, e se la erano andata a prendere, passando sul cadavere di un altro uomo, di un innocente.
Che cosa avrebbe fatto, adesso?
Scese le scale lentamente, gradino dopo gradino. Fu nell’androne. Vide di nuovo il povero corpo senz’anima. Uscì in strada. L’orologio della chiesa di San Marco suonava la mezzanotte.
Entrò nella tabaccheria all’angolo di via Brera con via Fiori Chiari e chiamò San Fedele. Il Questore era ancora nel suo ufficio; ma lui si fece dare Sani.
Gli impartì gli ordini con voce netta, breve, che non tremava. Due uomini subito in via Fiori Oscuri. Avvertire il Monumentale che mandasse a prendere il cadavere. Se ne infischiava lui del nulla osta del giudice: quel disgraziato non doveva rimanere sul piancito sudicio fino alla mattina. Mandassero il ritratto parlato del visconte Della Casa a tutte le Questure e ricercassero l’uomo dovunque, specialmente alle stazioni. Cominciassero la battuta in tutti i locali notturni. Altri due uomini di volata al palazzo del marchese Vitelleschi, e che lo aspettassero sul portone. Dessero l’allarme a tutti i commissariati di rione.
Sani prendeva appunti in fretta. Sentiva che De Vincenzi s’era fatto di ghiaccio. Pochi gli resistevano, quando era così. «E poi?».
«Basta».
«Debbo informare il Questore?».
«Informalo».
«E io?».
«Rimani a San Fedele. Ti chiamerò, quando avrò bisogno».
La voce di Sani si fece trepida: «E tu?».
«Io, per Dio, so bene quel che debbo fare!».
Lo sapeva, infatti. Riappese il ricevitore e tornò quasi di corsa al Decamerone. «Corri su a chiamarmi Cruni!».
L’agente dal portone si precipitò in alto.
Pochi minuti e Cruni stava davanti al suo commissario. «Cruni, hanno ammazzato l’agente che avevi messo di guardia alla casa accanto...».
Il brigadiere lanciò una bestemmia. «Rinaldi? Era uno dei migliori! La moglie stava per dargli un altro figlio!».
«Glielo darà lo stesso, anche se è morto! Domattina andrai tu a portarle la notizia. Dille che lo vendicheremo... Adesso, aspetta qui che vengano a prendere il cadavere. Ti manderanno altri due agenti. Sorveglia la casa e il palazzo. Soprattutto tieni d’occhio l’appartamento del terzo piano, quello della vecchia scatenata, e gli appartamenti sopra il Decamerone. Se qualcuno si accosta, non te lo lasciar sfuggire anche a costo di sparargli addosso. Tornerò...». Gli volse le spalle e scomparve giù per via Borgonuovo. In via Manzoni prese un tassì. «Corso Venezia. Taglia per via Palestro. Corri!».
Quando giunse davanti al portone chiuso del palazzo, i due agenti mandati da Sani arrivavano dalla parte opposta in bicicletta. De Vincenzi suonò. Il giardiniere gli aprì subito. Lo aspettava: il portinaio lo aveva avvertito.
Lasciò gli agenti in portineria e lui salì lo scalone. Si muoveva, adesso, senza fretta. S’era messe le mani nelle tasche del cappotto. Nessuno, che proprio non lo conoscesse a fondo, per lunga dimestichezza, si sarebbe accorto dal suo volto che lui non era il De Vincenzi solito, il De Vincenzi poeta, lo psicologo indulgente, che amava le anime più dei corpi, come il diavolo.
Suonò, premendo appena il bottone del campanello. Soltanto un piccolo scatto elettrico. Era sicuro che stavano vegliando. Infatti, il battente gli si spalancò davanti quasi immediatamente. Pietro si traeva da parte, per farlo passare. Nessuna sorpresa sul volto del cameriere, ma un’attesa paziente e rispettosa.
«Dov’è il telefono?».
Era nel primo salottino, subito dopo l’anticamera. De Vincenzi passò in mezzo alle due panche scolpite, contro le pareti, dove sino a notte erano rimaste sedute le due cameriere bianche e nere, rondini sulle grondaie.
La scatola nera del telefono era posata sopra una mensola d’ebano, in un angolo. De Vincenzi ci si fermò davanti, senza togliersi le mani di tasca, col cappello in testa. Guardava Pietro, alle sue spalle, si teneva immobile.
«Chi ha staccato il ricevitore?».
Il cameriere spalancò gli occhi. O faceva la commedia in modo perfetto o davvero non si era accorto che lo avessero staccato.
Il Questore aveva chiamato il palazzo alle sette: da quell’ora il telefono dei Vitelleschi non rispondeva. «Non lo sapete, eh?».
«No!».
«Naturalmente! Oh! Perché avreste dovuto saperlo, voi? Rimettetelo a posto».
Pietro obbedì.
«Adesso ci sono le vostre impronte sulla cornetta. Prima ce ne saranno state altre...».
L’uomo lo guardò. Si guardò le mani. «Già...» disse.
«Ma io non corro dietro alle impronte!». Sorrise, persino. Si tolse il cappello e lo mise sopra una seggiola. «Andatemi a prendere lo specchio che avevate comperato pel marchese».
L’altro andò. Davvero non capiva, adesso. «Debbo togliere la carta?».
«Lo credo! A che servirebbe, se non gli toglieste la carta?». Apparve uno specchio incorniciato di mogano. Era grande. Splendeva. Rifletteva la figura del commissario, l’angolo del telefono, il cappello sulla seggiola.
De Vincenzi ci si vide dentro e si volse subito, dicendo: «Portatelo nello studio del marchese. Poi tornate qui...». Rimasto solo, chiamò al telefono l’Ospedale Maggiore. Dovette dare molte spiegazioni, prima che lo capissero; finalmente gli dissero che Margaret Sutton dormiva ancora e che la madre andava avanti a iniezioni e a strofanto. Forse, se la sarebbe cavata. Si volse, e Pietro era fermo in mezzo al salottino.
Possibile che il volto di quell’uomo non esprimesse nulla? Neppure la stanchezza, neppure la noia, neppure la paura? Ma perché avrebbe dovuto aver paura? «Le cameriere?».
«A letto, signore. Le ho mandate a letto».
«E voi?».
«Io sapevo che lei sarebbe tornato».
«Dove siete rimasto sinora?».
«In anticamera».
«La marchesa vi ha chiamato?».
«No, signore».
«L’infermiera?».
«No, signore».
Lo guardò negli occhi. «Non avete nulla da dirmi?».
Lo sguardo dell’uomo sfavillò. «Non credo, signore».
«Pensateci bene».
«Sì, signore».
De Vincenzi si avvicinò alla porta che dava nelle altre sale e guardò. «Per di qui?».
«C’è un’altra sala, a destra lo studio e poi la sala da pranzo; a sinistra la porta che dà nell’appartamento della marchesa. Di fronte, la porta conduce a un terzo salotto e subito dopo viene la camera da letto del marchese».
«Le finestre?».
«Soltanto quelle dell’appartamento della signora marchesa danno sulla strada».
«Ho capito. Tornate in anticamera».
Lui entrò nella sala. Sui tappeti il suo passo era silenzioso. Guardò la porta di sinistra: era chiusa. Naturalmente, avrebbe bussato a quella porta, più tardi. Ma non ce ne sarebbe stato bisogno, certo. E si diresse allo studio. Sulla soglia si fermò. Era sorpreso. Lo studio era vuoto. Il fuoco agonizzava. Sopra il divano lo specchio, che vi aveva deposto Pietro.
Dove poteva essere andata a rifugiarsi? Aveva paura davvero, dunque? Eppure sapeva che lui sarebbe tornato, avrebbe dovuto aspettarlo!
Un poco le pulsazioni ai polsi e alle tempie gli si accelerarono. Si lanciò verso l’altra sala. Vide che la porta del defunto era chiusa. Lui sapeva che l’infermiera l’aveva lasciata aperta, quando s’era messa a vegliare.
Avanzò. Non faceva rumore, sui tappeti. La porta si spalancò e apparve Delia. Dietro di lei le fiamme dei ceri attorno al letto. Anche i capelli della donna ardevano. Lei ardeva tutta, per quanto avesse il volto di marmo e l’abito nero, opaco.
«Ho paura!» disse ed ebbe un fremito lungo. Gli occhi le brillavano stranamente. Fece qualche passo verso di lui.
«Non capisco! Non capisco di che cosa... di chi lei abbia paura...».
Ma forse s’era rifugiata in quella camera, per non esser sola, mentre lo aspettava. La compagnia dell’infermiera e quella di suo marito. No, davvero, il suo pensiero non era stato ironico.
Le passò davanti ed entrò nella stanza del defunto. Lei lo guardò ed ebbe un gesto delle due mani. Le protese bianche, diafane, nude – vuote – come per trattenerlo. Ma non parlò e cadde a sedere sopra una poltrona.
De Vincenzi si avvicinò all’infermiera. Dormiva. La toccò. Il cuore le batteva. Il respiro le usciva regolare dalle labbra, che sembrava sorridessero. Sulla pietra del caminetto vide una tazza da tè, in cui qualcuno aveva bevuto.
Scosse di nuovo la donna, che mandò un leggerissimo lamento e continuò a dormire. Le sollevò le palpebre, che si richiusero.
«Ecco!» disse. Avrebbe dovuto aspettarselo. Tornò rapido sulla porta. «Quante?» chiese con voce tagliente.
La donna lo guardò coi suoi occhi splendenti, vagamente fissi.
«Quante?» ripeté. «Presto! Mi dica quante pastiglie le ha date. Dica la verità! Non continuiamo con le morti naturali!». «Una. Una sola. Oh! Non abbia paura... Non può farle che bene. Arriverà a domattina senza accorgersene...». Rise brevemente. «Avrei fatto meglio a prenderla io, invece! Sarei arrivata a domattina... senza accorgermene!».
Lui tornò verso la dormiente. Le sentì il polso, le ascoltò il cuore. Doveva aver detto la verità. Una sola. Tutto gli parve regolare. D’altra parte, non avrebbe voluto chiamare il dottore in quel momento.
Guardò il letto con la salma. Le candele. Evidentemente, il cadavere e i ceri eran stati mossi. Non si chiese neppure il perché, tanto era chiaro. Ebbene, un morto e un’addormentata. C’era pace, lì dentro.
Pensò a quel povero morto sul piancito sudicio e strinse i pugni. Non richiuse la porta dietro di sé; ma, avvicinatosi a Delia, la prese per un braccio dolcemente, la fece alzare, la condusse verso lo studio.
«Venga con me. Qui non si può parlare. Non è bene parlar qui...».
«Ma perché vuol parlare?».
«Venga...».
E si trovarono di nuovo entrambi sulle poltrone, accanto al fuoco, sotto la pendola di Boule.
«Pronto! Centrale? Dammi la Mobile... Qui commissariato di Porta Genova. Pronto! Sei tu, Sani? Sì, ascoltami. Ho disposto per le ricerche, secondo gli ordini. Gli uomini fermano tutte le persone sospette; ma c’è un caso grave. Sul corso Genova, venti minuti fa, due agenti hanno tentato di fermare un motociclista, che correva a fanale spento. Aveva il casco e grandi occhiali, che gli coprivano mezzo volto. Quando hanno veduto che non rispondeva al segnale di arresto e cercava di fuggire, lo hanno inseguito, sparando un colpo di rivoltella in aria... Lui ha risposto e ha ferito gravemente un agente».
«Ha trovate le gemme?».
Lei scosse il capo e i capelli mandarono scintille.
«Credeva che fossero nascoste nel letto?».
«E dove altrimenti?».
«È sicura che non le abbia alla banca?».
«Lui!» e rise. «Non si sarebbe separato dalle sue pietre, neppure con la morte!». Fu colpita dalle parole pronunciate e sbarrò gli occhi, come se l’idea che il marito avesse potuto portarsi le pietre preziose all’altro mondo, con sé, contenesse una qualche possibilità accettabile.
«Ha sempre amato le pietre preziose?».
«Sempre!».
«Ma lei non lo conosceva che da... Da quanti anni lo conosceva?».
«Sei anni... Ci siamo sposati nel venti. Lui era tornato in Italia nel diciannove».
«Dalla Cina?».
«Sì».
«Con le pietre?».
«Ma sì! Se le dico che le ha sempre adorate».
«Più di quel che non amasse lei?».
«Oh, sì!».
«Aveva fiducia in lei?».
«I primi anni...».
«Tanto da dirle la verità?».
«Qualche volta».
Parlavano tranquillamente. Lei un poco protesa verso il commissario, fissandolo. Lui appoggiato allo schienale della poltrona, col capo leggermente riverso, evitando di apparirle interessato al colloquio e teso, vibrante, come dentro di sé sentiva di essere. «Le ha narrato la storia dello smeraldo?».
«Dello smeraldo... di Budda?».
«Già... ma a chiamarlo così fu lei, no?».
«Sì».
«Ebbene?».
«La storia? Che storia?».
«Già! Nessuna storia. E quando ebbe sposato il marchese, lei conobbe anche il signor Marco, il capitano?».
«Fu lui a cercarmi...».
«E le indicò il Decamerone?».
«Diceva che era il miglior luogo per uccidere il tempo... Io ho sempre cercato di uccidere il tempo, dal giorno in cui mi sono sposata».
«Lei non aveva mai fumato prima, vero?».
«Oh! Come avrei potuto? Chi sapeva? Quando mi conobbe il marchese, io ero innocente, sa? Una piccola oca bianca. Furono i miei genitori, che me lo fecero sposare. Uscivo appena dal Sacro Cuore...».
«E i suoi genitori?».
«Sono morti».
«E al Decamerone? I soci?».
«Ah sì... Sono divertenti! Rubano, barano... Un pasticcio! E poi tutte quelle donne».
«Era il signor Marco che dirigeva tutto?».
«Dietro le quinte. Lui non si mostrava mai!».
«E dal marchese?».
«Che c’entra?».
«Dico, qui a palazzo, il signor Marco veniva spesso?».
«Sicuro! Non lo sa che era stato lui a fornire al marchese quasi tutte le gemme della collezione, laggiù, in Cina? E qui continuava. Ci teneva tutti e due! Mio marito con le gemme, me con l’oppio».
«E Margaret?».
«Perché mi parla di Margaret? Che cosa strana che lei mi parli di Margaret!».
«La conosceva, no? Non fumava anche lei?».
«Lo sa? Povera creatura! Era innamorata, però!».
«Di chi? ».
«Ma di Gastone! Di mio nipote...».
«Ah!».
«Pronto! Centrale? Dammi la Mobile... Qui commissariato Sempione. Sani, sei tu? Ebbene, c’è un morto! Sicuro! Un agente. Hanno tentato di fermare il motociclista e lui ha sparato, quasi a bruciapelo. Poi è scomparso pei viali del Parco. Che cosa vuoi che facciano i nostri agenti a piedi?».
«E suo nipote?».
«Così... Però, l’amava. Credo che l’avrebbe sposata».
«E Margaret fumava?».
«Già! Oh, è delizioso fumare, sa? Occorre provare!».
«E suo nipote, adesso, erediterà tutto?».
«Chi glielo ha detto?».
«Oh! Non lo so...».
«Lo smeraldo, a ogni modo, non lo eredita, se è scomparso... e tutte le altre pietre neanche...».
«Scomparse?».
«Dove vuole che le abbia nascoste?».
«Bisognerà vedere!».
«Che cosa pensa, lei, commissario?».
«Io? Nulla... Mi dica... perché ha paura?».
«E non le sembra che ce ne sia ragione?».
«Tutta una banda, vero?».
«Il vecchio era il capo...».
«E poi?».
«E poi... che cosa?».
«Chi altro?».
«Io non so».
«Quel visconte?».
«Io non so».
«Harry... Gordon?».
Balzò in piedi. «Chi le ha detto?».
Anche De Vincenzi si alzò. « Ma non si agiti!».
«Chi le ha detto? Perché? Lo hanno arrestato?».
«E perché avrebbero dovuto arrestarlo?».
Lei era livida. Si appoggiava allo schienale della poltrona. Stava per cadere.
«Segga!».
«Che c’entra Harry?».
«Segga, le dico!».
Quando la vide seduta, si avvicinò al caminetto e ravvivò il fuoco. Cominciava a far freddo.
Delia, abbandonata sulla poltrona, con le mani diafane sui braccioli, aveva chiuso gli occhi e respirava profondamente.
Il commissario la guardò un istante, poi camminò sui tappeti silenziosi: c’era quell’altra di là, che dormiva, perché Delia le aveva dato una pastiglia. Una sola?
Il polso era regolare. Il cuore anche.
Raddrizzò una candela a metà consumata, che faceva gocciolare la cera in terra. E quel morto con la testa legata di bianco sotto il mento...
«Pronto! Centrale? Dammi la Mobile... Addio, Sani. Qui commissariato Garibaldi. Il motociclista ha preso i bastioni. Vedrai che a Porta Venezia piega e fila su Monza. Ci vorrebbero i pompieri a far lo sbarramento...».