12
Le gemme
L’attesa fu così breve che De Vincenzi non arrivò a contare fino a duecento. Quando voleva vincere i suoi nervi, sempre li placava col sedativo di una sequenza di numeri.
Si era nascosto nel vano della finestra, dietro le tende pesanti, che aveva lasciate ricadere un poco aperte, sicché, dalla fessura, vedeva la camera e nella camera il letto col morto e i tendaggi del baldacchino contro la parete. Attendeva che quella parete si aprisse.
E si aprì, infatti, prima che il suo cervello avesse scandito tutti i numeri del secondo centinaio.
Aveva spento le luci del lampadario e soltanto i ceri illuminavano. Anche un poco il ceppo nel caminetto con le sue fiamme verdi.
La porticina color della parete girò sui cardini e raggiunse la sponda del letto. Apparve un uomo e De Vincenzi non fu affatto sorpreso di vederlo a testa nuda e con la giacca di cuoio da motociclista. I suoi lineamenti si stagliavano fermi e regolari, e la durezza di essi – soprattutto della mascella quadrata e della fronte bassa – furono addolciti dalla luce delle candele.
Fermatosi un istante sulla soglia, spense la lampadina elettrica, che aveva protesa dinanzi a sé. Non vide subito il cadavere – il battente della porticina lo nascondeva – ma vide i ceri.
Esitò, si tenne pronto a balzare, per la fuga o per l’aggressione. Quella luce insolita gli aveva dato immediatamente il senso del pericolo. Sembrava una fiera dinanzi ai fuochi d’un bivacco. Era belluinamente goffo dentro quella sua giacca di cuoio fulvo.
I minuti passarono lenti, in un silenzio vivo, pieno di palpiti, di respiri. Soltanto le cose palpitavano e respiravano: il ceppo, la fiamma dei ceri, le ombre sui muri. Non l’uomo nel quadro della porticina; non De Vincenzi dietro le tende pesanti.
Poi l’uomo avanzò, stringendo nella destra una rivoltella nera, che mandava riflessi turchini. Vide il cadavere e s’immobilizzò. Una tale stupefazione si era dipinta sul suo volto, che da sola bastò a far sì che il commissario lo togliesse di colpo dal novero dei possibili assassini del marchese. Ma, se non lui, chi?
L’uomo girò finalmente lo sguardo prima sulla fiamma del caminetto e poi attorno sulle cose. Era, più che perplesso, inceppato addirittura. Aveva l’aria di un lottatore che si fosse lanciato contro un nemico di carne e ossa e si fosse trovato fra le braccia un fantoccio di stracci e cotone.
No! Decisamente quel cadavere non riusciva a spiegarselo... Ne aveva orrore – era evidente – per quanto non fosse la morte che potesse spaventarlo.
Come trovò la forza per muoversi, per agire, per camminare? Ma una favilla era sprizzata, scoppiettando, dal ceppo e quel rumore gli aveva ridato il senso materiale dell’azione e della vita.
«Che cosa farà, adesso? Perché è venuto?» pensava De Vincenzi, e subito si pose la domanda più grave: «Perché ha voluto la barchetta di cristallo, se non aveva già lo smeraldo; e come poteva avere lo smeraldo e ignorare che il marchese era stato ucciso?».
Ma adesso l’uomo s’era assuefatto a quel cadavere inaspettato. Andò rapido alla porta che dava sul salotto e ascoltò. De Vincenzi aveva chiuso quella porta; ne girò la chiave dall’interno. Poi si mise la rivoltella in tasca e cominciò ad agire. Non ebbe esitazioni e si diresse al letto.
«Anche lui è sicuro che la collezione delle pietre si trova nel letto!» pensò De Vincenzi. « Rimane da vedere se tale sicurezza gli è stata data da lei o se è fondata sulla diretta conoscenza dei fatti».
I candelieri di legno dorato vennero allontanati. Uno se ne rovesciò. L’uomo guardò con tranquillità la fiamma, che già lambiva il tappeto. E De Vincenzi vide che sorrideva. Poi si avvicinò al cero e calpestò la fiamma.
«L’idea che questa casa potesse andare a fuoco gli ha sorriso! È una fortuna che il candeliere si sia rovesciato quando lui non aveva ancora trovato le gemme!».
Adesso sollevava i materassi dai lati e faceva scorrere le mani lungo i sostegni di legno massiccio. Il cadavere si piegò da una parte, poi dall’altra. Operava con metodo; veloce, ma senza fretta. Venne la volta delle spalliere. Ne considerò lo spessore, le batté con la nocca in ogni punto, a piccoli colpi netti e brevi. Erano piene. Allora si allontanò e si mise a osservare il letto con concentrazione. Poiché si trovava con la faccia rivolta verso la finestra, De Vincenzi vedeva lo sforzo intenso che faceva per capire, per trovare. E fu meravigliato del fatto che i drappeggi pendenti dal baldacchino non attirassero per nulla la sua attenzione. Eppure, essi potevano celare le gemme meglio del legno, tanto ricadevano a pieghe fitte e nell’alto poi il baldacchino era veramente un nascondiglio ideale.
Ma no. L’uomo rivolgeva gli sguardi alla spalliera di testa. Si avvicinò di nuovo al letto, tese la mano sul grande fiore scolpito, che si elevava a una delle estremità... tentò di farlo girare, di piegarlo, di svellerlo. Il fiore non resistette e lui se lo trovò tra le mani. Era cavo nell’interno, ma non conteneva le gemme. Lo gettò sulla coltre, accanto al cadavere e, girando attorno al letto, ripeté l’operazione con gli altri fiori. E nei due fiori della spalliera più bassa trovò...
Per qualche istante rimase coi due sacchetti in mano. Poi li fece scomparire nelle tasche della giacca di cuoio. Svelse anche l’ultimo fiore di legno, ma i sacchetti eran due e non di più.
I quattro fiori si trovavano adesso, enormi, a giacere col cadavere sulla coltre, due presso la testa bendata di bianco, due ai lati dei piedi. Quel morto non s’era acquistata la pace! Dei propri resti, almeno... E prima di morire aveva voluto uno specchio vero, uno specchio che non riflettesse come l’acqua d’una palude.
E non era stato costui a ucciderlo, costui che pure era venuto a rubargli le gemme, ben deciso certo a fargli lui la festa, se fosse stato necessario...
De Vincenzi aveva messo la canna della rivoltella fra le due tende aperte. Pensò al cadavere dell’agente, che cadeva come un fantoccio macabro dalla seggiola sulle lastre sudice, e abbassò la molla di sicurezza.
L’uomo non aveva più nulla da fare in quella camera e la porticina segreta era rimasta aperta, eppure non sembrava volere andarsene. Qualcosa lo tratteneva. Qualcosa di vago, di oscuro nella sua coscienza, come un desiderio morboso.
Fece qualche passo verso la porta chiusa. Esitò. Camminò ancora.
«Vuol veder lei...» pensò De Vincenzi.
Ma si era fermato. Le gemme dovevano avere una consistenza materiale, ponderabile nelle sue tasche. Diede uno scrollo alle spalle e si volse con decisione.
Adesso passava tra la finestra e il letto, a un paio di metri dalle tende.
«Fermo o sparo!».
Le tende s’erano aperte.
Lui diede un balzo, poi alzò le mani. Aveva in volto un grande stupore, che diventò ghigno rabbioso, quando si rese conto di aver dinanzi un uomo che lo aveva spiato e che lo minacciava con una rivoltella nera, dai riflessi turchini come la sua.
«Non muoverti!».
Gli si avvicinò. Gli appoggiò quasi la canna alla fronte e con l’altra mano gli estrasse dalle tasche la rivoltella e i due sacchetti; uno dopo l’altro se li mise in tasca.
Sempre fissandolo e senza abbassare l’arma, indietreggiò fino alla porta e fece girare la chiave, fece girare la maniglia.
«Vieni avanti... Presto!».
L’uomo gli passò dinanzi e lui gli appoggiò l’arma alla schiena e lo seguì, spingendolo. Gli aveva messo la mano libera sulla spalla e lo guidava.
Gli fece traversare il salotto, la sala; aprì la porta dell’anticamera.
Pietro balzò in piedi.
«Non muovetevi, voi! E tu, cammina».
L’uomo non sentiva il bisogno di parlare. Doveva essersi raccolto in sé, arrotolandosi proprio materialmente come una molla a spirale. Era pronto a cogliere l’istante possibile in cui avrebbe dato il balzo, fatto lo scarto, tentato il colpo d’ariete. De Vincenzi sentiva, persino sotto il cuoio, i muscoli di lui che si gonfiavano.
Gli mise la bocca della rivoltella contro la nuca e l’uomo al contatto diede un guizzo.
«Fermati».
Parlava con voce fredda.
«Pietro, andate in basso. In portineria troverete due agenti. Conduceteli qui. Nessun bisogno di correre».
Pietro aprì la porta – un poco le sue dita si erano attardate sulla serratura, non riuscendo a farla funzionare – uscì sul pianerottolo, lo si sentì discendere.
L’uomo rimaneva immobile.
De Vincenzi gli tolse la mano dalla spalla e indietreggiò di un passo. A distanza lo avrebbe dominato più agevolmente. Nell’a corpo, se quello fosse riuscito a evitare il proiettile, lui avrebbe avuto la peggio e lo sapeva. Un altro minuto passò. De Vincenzi aveva tutta la sua attenzione tesa verso le scale. Non sentì nulla, non il più lieve fruscio, non lo spostamento dell’aria; gli mancò il presentimento di una presenza nuova.
E il colpo esplose secco, insignificante come uno sternuto, mortale come la folgore.
L’uomo crollò, faccia avanti, di schianto.
Il sangue rosso carminio gli sgorgò dal cranio sui capelli neri, sull’orecchio, sul tappeto, mostruoso serpente dalle scaglie brillanti.
De Vincenzi lasciò cadere il braccio con la rivoltella e spezzò fra i denti una bestemmia. Come aveva fatto a non prevederlo? Perché aveva creduto che fosse andata a coricarsi? La sua docilità lo aveva ingannato.
La donna era rimasta sotto l’arco della porta e fissava il corpo schiantato. Certo il rosso vivo di quel sangue la ipnotizzava. Aveva i pomelli accesi, le labbra semiaperte, le braccia abbandonate.
Per le scale si sentirono i passi degli uomini che salivano. De Vincenzi le si avvicinò e le tolse di mano la piccola rivoltella dal manico di avorio, graziosa e leggera come un gingillo.
«E adesso?».
Lei sorrise. «Sì, non dovevo farlo».
«Tanto più che quell’uomo non sapeva neppure che il marchese fosse morto».
Delia lo fissò. Alzò le spalle. «Ma aveva trovato le gemme!».
«Per questo lo ha ucciso?» e inconsciamente trasse di tasca uno dei sacchetti.
Gli occhi di lei lampeggiarono. «Sì. Io le avevo perdute. E lui mi avrebbe uccisa!».
«Il mio destino tempestato di pietre preziose, colmo di tanto denaro! Eccolo lì , racchiuso in quel sacchetto. Lo sapevo che Harry lo avrebbe trovato. Ma si era fatto prendere. Per me erano perdute!».
«E adesso?» ripeté De Vincenzi. L’accaduto lo aveva colto di sorpresa. Si era tracciata una linea, e quel colpo – insignificante come uno sternuto, mortale come la folgore – gliel’aveva spezzata. E non era neppure una conclusione! Non risolveva nulla. Non spiegava nulla. I due agenti si erano fermati sull’uscio e guardavano il cadavere. Dietro di loro il cameriere era rimasto con le braccia aperte, le palme distese, gli occhi fissi su De Vincenzi, pietrificato dallo stupore. Perché mai il commissario lo aveva ucciso?
Delia fece un passo. «Mi farà condur via dai suoi agenti, adesso?».
De Vincenzi non rispose. Si diresse al cadavere. Lo voltò. Il viso dell’uomo appariva rappreso convulsamente e gli occhi erano chiusi. Il proiettile lo aveva raggiunto come una mazzata, facendolo contrarre su se stesso.
Il commissario cominciò a frugarlo. Trasse dalle tasche della giacca vari oggetti. I guanti grossi e pesanti, un portasigarette d’oro, la lampadina elettrica, un mazzo di chiavi, un corto punteruolo d’acciaio aguzzo. Li disponeva a mano a mano in terra, e gli oggetti si allineavano con uno strano rilievo sul tappeto. Un accendisigari, un fazzoletto, alcune lettere ancora chiuse. De Vincenzi ne lesse gli indirizzi: Harry Gordon, Bar delle Sirene, Corso Buenos Aires, Città. Recavano tutte il timbro di Milano. Se le mise in tasca.
Aprì la giacca ed esplorò le tasche interne, quelle del panciotto. In uno dei taschini trovò una scatola di fiammiferi. L’agitò e comprese subito quel che conteneva. Lo smeraldo!
Era magnifico, riluceva di mille fuochi cupi, valeva la vita di molti uomini, e a parecchi uomini già l’aveva presa.
Delia, dietro di lui, mandò un lieve sospiro, che sembrò un lamento. Lui non si volse, e chiuse subito la piccola scatola, facendosela sparire in tasca.
La barchetta di cristallo, evidentemente, doveva averla deposta in qualche luogo. Al sicuro.
Ormai De Vincenzi non aveva alcun dubbio che fosse stato Harry Gordon a uccidere il vecchio, a uccidere l’agente nel portone, a rubare la barchetta, a darsi quindi a quella sua folle e sanguinosa corsa in motocicletta, per tentar finalmente il colpo supremo d’impadronirsi delle gemme. Ma, certamente, non era stato lui a far morire il marchese. E non poteva esser stata la donna, la quale dalle ventuno in poi non si era allontanata dal Decamerone, e alle ventuno Pietro aveva parlato col suo padrone, che gli aveva ordinato di acquistare uno specchio e di chiamare il notaio Narboni.
De Vincenzi si sollevò. Quel cadavere non aveva più nulla da rivelargli. «Voi due, rimanete qui di guardia. Appena giorno, avvertirete la Procura. Pregate il giudice di venir subito e di far portar via il cadavere al più presto».
Dovevano farsi le esequie al marchese, doveva darsi lettura del testamento. Lui contava su tutte e due quelle cerimonie e aveva il suo piano... E adesso?
Col proprio atto la donna si era eliminata dal gioco. Aveva buttato le carte... Tutte?
«Andiamo...».
Delia sollevò le ciglia, sorpresa. «Andiamo!» ripeté De Vincenzi e si diresse verso la sala.
Tornarono nello studio, caddero di nuovo sulle poltrone, uno di fronte all’altra, entrambi stremati, con un gran vuoto nel cervello, una mollezza di convalescenti nelle membra. Quella donna aveva ucciso e lui, senza provarne orrore, aveva sentito il bisogno di non abbandonarla a se stessa e più che mai adesso voleva guardarle nel profondo. Ma in quel momento era incapace di agire. Aveva bisogno di ritrovare le forze. Tutto si eri svolto con troppa rapidità. La donna abbassò le palpebre; insensibilmente abbandonava il capo sullo schienale, le membra le si rilassavano, le mani inerti pendevano fuori dei braccioli. Il collasso dopo la crisi.
La pendola di Boule scandì quattro colpi.
De Vincenzi cedette anch’egli a una specie di sonnolenza ovattata che gli velava gli sguardi, gli sigillava le orecchie. E cadde nell’incoscienza piena d’incubi.
L’alba entrava dai vetri, un’alba livida di febbraio. E il lampadario in mezzo al soffitto ardeva ancora. Il fuoco era spento.
De Vincenzi si scosse e guardò con occhi attoniti le cose attorno a sé, e quella donna dai capelli rossi, pieni di riflessi di bronzo, bianca, stranamente bella, che dormiva in una poltrona di fronte a lui e sorrideva con le labbra laccate. Quella donna aveva ucciso un uomo davanti ai suoi occhi.
Balzò in piedi completamente sveglio. La pendola del caminetto segnava le sei e mezzo.
Nella stanza accanto c’era un cadavere senza pace sul letto, che avevano manomesso. L’infermiera doveva giacere ancora in preda al letargo della droga. In anticamera, Pietro e i due agenti vegliavano – o forse dormivano – attorno a un altro cadavere.
Ebbe un brivido. Faceva freddo in quella stanza. Si sentiva le membra spezzate; a muoverle gli dolevano. Che cosa doveva fare lui, adesso? Guardò Delia. Destarla? Interrogarla? Per strapparle che cosa? Quale rivelazione avrebbe potuto aggiungere a quella fatta con lo sparo della sua rivoltella, graziosa e leggera come un gingillo? Che cosa aveva da confessare ancora che lui non potesse prevedere o sapere?
E quel che ancora non sapeva e non prevedeva non era la donna che avrebbe potuto apprenderglielo.
Fece per dirigersi in anticamera e si fermò. Aveva veduto lo specchio nuovo, lo specchio moderno, messo da Pietro sul divano.
Perché il marchese aveva voluto quello specchio? Ah! Forse, se avesse potuto rispondere a quella domanda, avrebbe saputo anche chi era stato a fargli annusare il cloruro di anile, che produce l’embolia, senza lasciar tracce.
La pendola batteva le sette e lui si staccò dalla contemplazione dello specchio e dalle sue riflessioni, che eran state lunghe.
In anticamera i due agenti e Pietro si alzarono, appena comparve. Nessuno dei tre dormiva. Non guardò il cadavere, non guardò neppure i tre uomini. Tornò nel salottino e andò al telefono.
Chiamò il Questore a casa sua e gli diede il cattivo risveglio con quell’altro assassinio, compiuto dalla marchesa Delia Vitelleschi.
«Ha vendicato i nostri agenti!» commentò De Vincenzi; ma il capo non era in vena di cinismo e non poteva comprendere a qual punto di tensione fossero i nervi del commissario, dopo più di venti ore di quella giostra.
«E adesso che cosa intende fare?» gli chiese con voce concitata. «Ha ritrovato lo smeraldo, ha ritrovato le pietre preziose, s’è fatto ammazzare davanti agli occhi l’assassino del signor Marco e degli agenti, che cosa vuole di più? Faccia spiccare il mandato d’incarcerazione per la mar... per la donna», e la voce un poco gli tremava, «e chiuda la pratica del Decamerone e del palazzo!».
Lui sorrise e fu con tono dimesso, pieno di rispetto, che rispose: «E chi ha ucciso il marchese del Verbano? E chi ha dato un sonnifero a Margaret Sutton? E che cosa dice il testamento del defunto? E perché, prima di morire, il marchese aveva chiesto uno specchio? E dove hanno nascosto la barchetta di cristallo? E chi erano i complici di Harry Gordon e del signor Marco? E di dove provengono almeno alcune delle gemme, che in questo momento si trovano nelle mie tasche?».
«Faccia quel che vuole e mi lasci tranquillo! Ma per carità, non racconti ai giornali tutte le sue storie e non mi crei un romanzo da spaventare mezza città!». E riappese il ricevitore.
De Vincenzi conosceva il valore di quelle sfuriate e sapeva che tra poco il suo capo lo avrebbe richiamato, se addirittura non lo avrebbe raggiunto dove si trovava.
Mise un uomo di guardia nello studio, dove Delia continuava a dormire. «Se si sveglia, non farla uscire da questa stanza; ma trattala con molta cortesia e dille che io ritornerò».
Pietro doveva vegliare la salma e preoccuparsi dell’infermiera e avvertire il notaio, appena possibile, perché andasse a palazzo e si occupasse lui delle esequie. L’altro agente avrebbe provveduto al giudice e a far trasportare il cadavere di Harry Gordon al Monumentale.
Andò a prendere il cappello sulla seggiola dove lo aveva lasciato e uscì. Per la strada, appena vide un tassì, lo chiamò e si fece condurre a casa sua. Se non si metteva in un bagno caldo e poi sotto la doccia, non avrebbe potuto continuare: di andare a letto non pensava neppure.