13

Gastone Vitelleschi dei Marchesi...

Andava di fianco al corteo, sul marciapiede, tra i passanti che si scoprivano al passaggio del carro e che riprendevano subito a camminare sotto l’ombrello. Alcuni si fermavano di colpo e De Vincenzi li urtava senza volere. Lui teneva gli occhi sul gruppo, che veniva dietro il carro.

I parenti. Ma di parenti non c’era che il nipote. La moglie, poverina, dal gran dolore s’era trovata senza forze per uscir di casa, dicevano sogghignando le amiche. Delia, infatti, era rimasta a palazzo. Il giudice istruttore avrebbe voluto mandarla subito alle carceri; ma il commissario si era opposto, assumendosi lui la responsabilità dell’eccezionale provvedimento che il Questore aveva approvato, per quanto a malincuore.

Piovigginava. Una nebbiolina rada e filacciosa cominciava a scendere. Occorreva mettere i piedi con precauzione sulle lastre bagnate e pattumose. Giornata fatta apposta per trasportare qualcuno al cimitero.

La famiglia Vitelleschi del Verbano aveva la tomba al Colombario. In mezzo al Famedio il carro si fermò, e tutto il corteo. Un gruppo di persone punto contrite, ma in compenso assai eleganti e distinte. La migliore aristocrazia della città. Il defunto non aveva amici; ma tutti i suoi pari lo conoscevano, naturalmente. E c’erano poi le patronesse e le socie del Decamerone con Sofia Moroni in testa.

La povera Sofia avrebbe voluto che il circolo partecipasse con qualche manifestazione clamorosa al cordoglio e al lutto di una sua socia di casato così preclaro. Aveva persino immaginato e fatto parola di un opuscolo in memoriam, di cui sarebbe stata lei la compilatrice. Era pronta, diceva, a sacrificare anche qualche pagina del suo romanzo inedito Liù, fior d’acanto, inserendola nell’opuscolo là dove avrebbe ricordato il soggiorno del ministro plenipotenziario a Shangai. Ma De Vincenzi era intervenuto energicamente – quella stava già telefonando alle tipografie, per trovarne una disposta a fare il lavoro in poche ore – e Sofia aveva dovuto limitarsi a mandare una corona, col nastro tricolore e la scritta: All’Uomo illustre le amiche dell’inconsolabile Vedova e socie del Decamerone.

E lei stessa, la presidentessa, con la scorta d’onore del segretario e delle patronesse, s’era affannata attorno a quei fiori e a quel nastro, perché fossero messi bene in vista sul carro. Voleva anche fare un discorso, lì al Famedio, sui gradini della chiesa; ma il marito arrivò a tempo a fermarla, afferrandola pel mantello e sussurrandole qualche parola, che De Vincenzi indovinò violentemente energica. La violenza della paura. Il cavaliere aveva paura, infatti, e ne aveva tanta!

Lui aveva trascorso il resto della notte – dopo l’ultimo interrogatorio del commissario – a rigirarsi sui tappeti, con cui s’era fatto il letto sul palcoscenico del circolo. Gli incubi lo avevano ossessionato. S’era sentito gettar nel tombone di San Marco con uno smeraldo, che pesava almeno mezzo quintale, appeso al collo e poi veniva una barchetta di cristallo a tirarlo fuori e lo portava a Shangai, dove il capitano Parodi lo aspettava sulla porta della fumerie con uno stilo dall’impugnatura d’oro in mano, per conficcarglielo nel petto...

Venuta la mattina, aveva riveduto Sofia e il brigadiere Cruni gli aveva detto che poteva, sì, andare con la moglie al funerale del marchese; ma che tutti e due dovevano far ritorno subito dopo la cerimonia in via Fiori Oscuri a disposizione del commissario.

E adesso il tanto temuto commissario era lì, al Famedio, e li teneva certo d’occhio, come li aveva sempre tenuti, per tutto il percorso. Ma che cosa voleva dire quell’altro assassinio? Perché, dopo il signor Marco, il marchese Vitelleschi? Non ci capiva nulla; ma una cosa gli era ben chiara nel cervello: da quella storia lui e Sofia non sarebbero usciti senza danno. E che danno!

Parlava un signore con la barba bionda, che magnificava le virtù dell’estinto e ne ricordava le preclare benemerenze nel campo della beneficenza. «Non v’era uomo bisognoso, che non uscisse dal palazzo del defunto con un poco del suo denaro!».

Soprattutto i ricettatori di pietre preziose, pensò De Vincenzi, mentre continuava a non perdere di vista il giovane Gastone.

Alla barba bionda seguì sul gradino più alto della chiesa, pel discorso di ringraziamento a nome della famiglia, il volto pallido e senza ciglia del dottor Narboni. Fu breve anche se disse che cinquanta e più anni di assistenza dei notai Narboni alla nobile casata dei Vitelleschi gli conferivano il doloroso obbligo e onore di parlare in simile luttuosa circostanza.

E la pioggia sottile seguitava a venir a fili lunghi, senza misericordia, sulla fungaia degli ombrelli aperti.

Quando il dottor Narboni ebbe finito, si sentì lo sghignazzamento soffocato di Violetta Sartori, che alle undici del mattino – vestita con quel suo abito bianco e nero – era pallida come un cadavere e aveva gli occhi cerchiati e pesti. De Vincenzi si era domandato dove avesse potuto trascorrere la notte a giocare e a fumare, dato che il Decamerone era occupato dalla polizia e la casa di Vannetta Arcangeli del pari. Quando ebbe quello scatto isterico di riso, il commissario fece per accostarlesi, ma già Carletto Vinci l’aveva trascinata via, cacciandola in un tassì appena fuori del cancello.

Il nobile Gastone Vitelleschi dei marchesi del Verbano, fermo davanti al carro, ricevette le strette di mano di prammatica da tutti i presenti, che se ne andavano con una certa fretta. Il giovane appariva compunto e sapeva mascherare a meraviglia ogni impazienza e ogni noia. Un bel ragazzo, pensava De Vincenzi, che sa d’esser bello e che cura di conseguenza la propria persona.

E faceva lo studente in medicina, vivendo a carico dello zio. Ed era amato fino al sacrificio da Margaret...

Il carro si avvicinò al porticato, sotto cui era la tomba Vitelleschi. I vespilloni trassero la cassa massiccia, il prete l’asperse ancora d’acqua santa e poi la cassa sparì nel loculo e la pietra di chiusura venne provvisoriamente appoggiata contro l’orifizio, in attesa che fossero andati i muratori a cementarla.

Era finito.

Tirandosi su la sottana, con l’ombrello e il breviario nell’altra mano, il parroco di San Babila – la parrocchia della nobiltà, e lui il confessore e il consigliere delle nobili dame – se ne filò verso il cancello, col subdiacono e il chierico alle calcagna. I vespilloni saltarono sull’autocarro nero e oro, che si allontanò silenzioso e veloce, quasi l’essersi tolto dal corpo quella cassa avesse servito a ridargli giri al motore e allegria alle ruote.

Già tutti i partecipanti al corteo se ne erano andati e le auto padronali, che li avevano seguiti, eran scomparse una dopo l’altra dal piazzale.

Gastone aveva dato l’ultimo sguardo alla pietra ancora tutta bianca, ché lo scalpellino sarebbe andato nel pomeriggio a incidervi il nome del defunto con l’alfa e l’omega e col PAX sopra alla corona marchionale e allo stemma dei Vitelleschi del Verbano. Il notaio gli si teneva al fianco, neutro e paziente, a occhi semichiusi, tutto nero, anco nei guanti.

«Me ne vado», disse il giovane.

«L’accompagno», fece il dottor Narboni.

A una ventina di passi, De Vincenzi li seguiva. Sul cancello li vide avviarsi a piedi verso il piazzale Farini. Disse a Cruni di tornar subito al circolo.

«La presidentessa e il segretario mi aspettino. Se hanno fame, soprattutto lei, mandino pure a prendersi la colazione; ma non farli uscire».

«E se vengono i soci?».

«Il circolo è chiuso. Non c’è nessuno dei soci del Decamerone, che m’interessi per ora. Voglio dire che m’interessi ai fini dell’inchiesta...». Allontanatosi il brigadiere, De Vincenzi prese Sani per un braccio. «Vieni con me. Ho parecchie cose da dirti. Entr’oggi ha da essere tutto finito».

«E non è finito?» esclamò Sani, che aveva saputo della morte di Harry Gordon. «Quando avrai spedito alle carceri la marchesa, non ti rimarrà che d’incriminate il cavaliere e la moglie, per aver prestato mano al signor Marco, incriminare Vannetta Arcangeli e il suo visconte. Cercheremo i complici, se ci sono come hanno da esserci... e poi...».

«E poi nient’altro, eh? Darei un gran sospiro se fosse così e potessi andarmene a dormire. Ma, ho paura che di dormire, per me non se ne parlerà tanto presto...». Camminava lentamente, perché il nipote e il notaio andavano adagino, senza parlare, come se passeggiassero. «Ascoltami», riprese il commissario. «Salta in un tranvai e va’ a San Fedele. Per prima cosa, attiva le ricerche del visconte. Vorrei averlo fra le mani prima di sera. Poi informati all’ospedale dello stato di quella ragazza. Se si fosse svegliata e capisse e parlasse, avrei ogni probabilità di finirla presto. Certo, non potrò vederci chiaro fin quando lei non sarà tornata in sé. Con quel suo colpo di rivoltella, la marchesa ha fatto tacere per sempre l’unico uomo che sapesse tutto, o quasi tutto... per quanto del cloruro d’anile forse non avesse sentito mai parlare...». Avevano passato la porta e scendevano verso corso Garibaldi.

I due davanti tacevano sempre e camminavano di fianco uno all’altro, separati dagli ombrelli aperti.

Sani chiese: «Debbo far altro?».

«No. Ti telefonerò».

«Dove ti trovo, se ho da farti qualche comunicazione?».

«Adesso non so... Ho qualcosa da fare. Tra un’ora o due mi troverai a palazzo Vitelleschi».

Il vice commissario si mise ad aspettare un tranvai alla fermata.

Quando furono in via Statuto, il notaio tese la mano al giovanotto. I due rimasero fermi a scambiar qualche parola. Poi il notaio fece segno a un tassì. Gastone Vitelleschi lo guardò scomparire e s’avviò quindi verso via Solferino. Di faccia c’era un caffè, e lui vi entrò.

De Vincenzi lo seguì e lo vide andare alla cabina del telefono. Si avvicinò per ascoltare, senza curarsi molto che la padrona e il cameriere lo guardassero con curiosità preoccupata; ma la cabina doveva essere molto imbottita e non si sentì nulla.

Quando il giovane ebbe telefonato e ricomparve, gridando al cameriere: «Un cappuccino e brioche!» il commissario attese che si fosse seduto a un piccolo tavolo, presso alla cabina, nella seconda sala, ch’era quella del biliardo, e poi andò a sederglisi di fronte.

«Ho bisogno di parlare con lei, signor Vitelleschi...».

«Ah!» il giovane sapeva perfettamente chi fosse, perché, passata la prima sorpresa, sorrise e disse: «M’ha fatto paura, commissario! Le posso offrire qualcosa?».

De Vincenzi si fece portare un caffè.

Gastone mangiava di gusto. La morte dello zio e il funerale non gli avevano di certo tolto l’appetito. «In che cosa posso esserle utile?».

«A me? In ben poco. Ma perché non mi chiede notizie di Margaret Sutton?».

L’altro depose la brioche e alzò le ciglia nere, pesanti, lunghe e lo guardò. Aveva lo sguardo acuto e lucente. «Che cosa c’entra la signorina Sutton?».

«Non lo sa che si trova all’ospedale, addormentata da un sonnifero?».

«No!».

Era stato un grido; ma di stupore. Non c’era lacerazione, non c’era ferita. Lei lo ama, pensò il commissario, e lui molto meno.

«Perché? Come sa lei che la signorina e io... che Margaret... sì, insomma che io conosco la signorina Sutton? E che cos’è questa storia del sonnifero. Non avrà mica fatto qualche sciocchezza?».

«No, non ha fatto una sciocchezza. Per lo meno quella sciocchezza che crede lei. Il sonnifero le è stato dato da altri...».

Il giovane non capiva. Proprio non capiva e si era dimenticato della brioche.

«Vuol parlarmi dei rapporti che correvano tra lei e il marchese suo zio?».

Adesso, quello aggrottò le sopracciglia e strinse le labbra. «Commissario, il notaio mi ha informato del dubbio del medico sulla causa della morte del povero zio. Io stamattina ho saputo anche... sempre dal dottor Narboni, che alla zia era capitata.... uhm... una disgrazia... Immagino che sia per questo che lei m’interroga... Che cosa vuol sapere da me?».

«Quando ha veduto il marchese per l’ultima volta?».

«Veduto? Non potrei dirglielo con precisione, adesso... Uno dei giorni dell’altra settimana... giovedì, venerdì, non ricordo... Ma gli ho parlato al telefono nel pomeriggio di lunedì. Sì, proprio il giorno in cui morì».

De Vincenzi lo ascoltava. Fece di sì col capo. «Vada avanti».

«C’è poco da dire. Lo zio mi telefonò a casa. Mi disse che aveva bisogno di parlarmi, che andassi da lui il giorno dopo, cioè ieri. Io avevo lezione a Pavia e dovetti pregarlo di rimandare a oggi. Non mi parve contento, ma non insisté... ‘Va bene. Vieni mercoledì, allora, ma non mancare’. Oggi, invece, dovevo accompagnare la salma al cimitero!».

«Quando seppe che era morto?».

«Ieri sera, al ritorno da Pavia. Ne lessi l’annuncio sul giornale e telefonai subito al palazzo, ma il telefono era occupato».

«Telefonò dopo le sette?».

«Precisamente. Provai quattro o cinque volte, a distanza di minuti, ma sempre inutilmente. Pensai che stessero servendosi del telefono per disporre i funerali... che so? E mi misi in contatto col dottor Narboni. Egli m’informò di tutto e io gli dissi che lui aveva fatto perfettamente bene a opporsi all’autopsia. Anche mio padre, se si fosse trovato in Italia, si sarebbe opposto. Pensare che il povero zio potesse essere stato ucciso era mostruoso! Ma poi... adesso...». S’interruppe ed ebbe un gesto, come se si fosse pentito d’aver troppo detto.

«Adesso?».

«Lasciamo andare!».

«Adesso, lei pensa che invece suo zio può benissimo essere stato ucciso».

«Non ho detto questo».

«No, non lo ha detto. E perché lo pensa?».

«Dio!... La disgrazia... di mia zia è alquanto singolare!». S’accorse che il suo tono d’indifferente leggerezza era stonato e si fece grave. Il volto gli divenne duro. Una piega di severità gli segnò la fronte. Il lampo degli occhi, sotto le ciglia troppo lunghe, stranamente femminee, fu spietato, ma subito s’appannò e le pupille gli divennero sfuggenti. «Perché mia zia ha ucciso quell’uomo?».

Fu un curioso brano di colloquio, quello che seguì. Ognuno rispondeva con una domanda e tutti e due sapevano che l’altro non sarebbe stato tratto in inganno dal gioco.

«Lei conosceva Harry Gordon?».

«Come avrei fatto a conoscerlo?».

«Sapeva che sua zia lo conosceva?».

«Crede che la zia potesse far proprio di me il suo confidente?».

«E il marchese?».

«Perché non mi chiede se mio zio era affetto da senilità?».

De Vincenzi fu il primo a mutar tono. «Non credo che suo zio lo fosse», opinò con tranquilla indifferenza. «Ma vediamo di procedere con metodo. Non ha detto che vuol essermi utile, lei?».

«Ma sicuro! Però, non mi faccia dire cose che non desidero dire. Non mi permetto esprimere giudizi su chicchessia, e tanto meno sulla moglie di un mio stretto congiunto, che è morto! Io ho molto rispetto e molta ammirazione per Delia e ho sempre pensato che il torto era dello zio, che aveva sposato, sacrificandola, una donna tanto più giovane di lui...».

«Dunque, vuol essermi utile? Allora, mi dica perché suo zio le aveva telefonato lunedì, chiamandola a un colloquio, di cui lei non deve ignorare l’argomento e lo scopo».

«Ma no! Le assicuro. Lo zio mi disse soltanto che aveva bisogno di parlarmi e io non so ancora supporre di che cosa si trattasse».

«La voce dello zio era agitata?».

«Questo sì! Voglio dire: concitata, preoccupata quasi».

«Non le parlò di una lettera ricevuta?».

Stava per aggiungere, «di qualche carta trovata»; ma s’interruppe, perché vide che la sua domanda aveva colpito il giovane.

«Lettera? Ma no... Aveva ricevuto qualche lettera, forse?».

«Ho detto a caso».

«Una lettera è stata trovata presso di lui?». Ma l’accento era già più tranquillo e una punta d’incredulità lo rendeva quasi ironico.

«No. Nessuna. Lei conosce il testamento di suo zio?».

«E come avrei fatto a conoscerlo? Il marchese non era uomo da render conto dei fatti suoi neppure a un parente».

«Così, lei non sa chi possa essere l’erede?».

«Ma lo zio non aveva altri parenti che mio padre e me!».

«E la moglie, no?».

«Naturalmente!».

«Non crede che possa aver lasciato tutto il suo alla moglie?».

«Può averlo fatto...».

«Già!». De Vincenzi tacque e continuò a fissarlo. Lui bevve il suo cappuccino.

«Mi dica, commissario. Non si può evitare lo scandalo, il processo?».

«Si preoccupa di questo?».

«E perché non dovrei? Il nome dei Vitelleschi è il mio...».

«Sicuro!».

«Tutto quanto si può fare per aiutarla. Credo di interpretare quello che sarebbe stato certamente il modo di agire dello zio, occupandomi della difesa di Delia, provvedendo a tutto il necessario... Andrò subito dal migliore avvocato di Milano. Ordinerò al notaio di versare il denaro occorrente». Già si sentiva erede del nome e della sostanza e disponeva con generosità.

«E se l’erede unica fosse la zia?».

«Impossibile!».

La risposta era partita da sola e gli veniva dal profondo del cuore. Non aveva potuto fermarla e si morse le labbra. «Non è probabile», corresse.

«Perché?».

«Oh, sa? Io non me ne sono mai occupato. Non ho tentato mai di saper dallo zio quali fossero le sue intenzioni al riguardo. Ma c’è quel benedetto nome dei Vitelleschi! Lo zio Goffredo non avrebbe mai permesso che il suo patrimonio, che il palazzo del padre, la tenuta storica del Verbano andassero in mani estranee...».

«Estranee?».

«Intendo, nel caso che Delia si fosse tornata a maritare. La zia è giovane».

«Capisco». De Vincenzi si alzò. Pagò il suo caffè.

Il giovanotto lo guardava. «Io rimango. Abito qui accanto, al numero 28. Quando abbia bisogno di me...».

«Grazie». E uscì in fretta. Appena fuori prese un tassì e si fece portare a San Fedele.

Seduto nell’angolo della vettura, De Vincenzi aveva il volto scuro e gli occhi pieni di tristezza. Pensava a Margaret Sutton e ad altre cose niente affatto liete.