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Risveglio
Le ore del pomeriggio, in una corsia d’ospedale, d’estate sono ronzanti di mosche; di febbraio, con la pioggia sottile che cade, sono stagnanti d’una tragicità fatta d’umidore e di sentori farmaceutici.
Sui letti della corsia seconda in quel pomeriggio di mercoledì 11 febbraio 1926, le ammalate immobili giacevano in silenzio al lento processo dei veleni assorbiti. Il reparto disgrazie – sezione donne – accoglieva in maggior parte casi volontari o accidentali o criminosi di avvelenamento. Il veleno predilige le donne, forse perché è un mezzo squisitamente femminile nei suoi effetti. Non mai o assai raramente un uomo ingurgita per errore varechina o cloruro; per desiderio di liberazione, belladonna o sublimato o fosforo; e non mai o quasi mai chi ha da sopprimere un uomo (da meno che l’assassino non sia una femmina) si vale del veleno per sbarazzarsene. Qualcuna di quelle donne avrebbe voluto lamentarsi ma non lo faceva.
Una sola esalava di quando in quando – con ritmo misurato – un piccolo grido roco e gorgogliante. Il medico e le infermiere, che se ne intendono, chiamavano quel ritmo spasmo e attribuivano a quel grido l’aggettivo di preagonico.
La luce paludosa, che entrava dalle grandi finestre per metà difese da tende bianche, illividiva le pareti smaltate di bianco, gettava riflessi sinistri sulle spalliere dei letti, scavava di ombra e le occhiaie dei volti, incideva i segni ai lati della bocca, rendeva diafane e trasparenti le cartilagini nasali.
Fu a questa luce che Margaret, dopo trentasei ore di letargo, riaprì gli occhi, ché la droga aveva esaurito il suo effetto e la natura riprendeva a farla vivere e pensare. Si sentì subito come legata e costretta all’immobilità da mille legami invisibili e tenaci. Fece per sollevarsi e non riuscì a distaccare la nuca dal guanciale. Tutto il suo corpo era di piombo. Ma perché si trovava in quel letto e dove si trovava?
Non riusciva a vedere che le pareti bianche lucide e il soffitto bianco calcinoso. Dove? Come? Perché?
Le cambiali di Harry Gordon, l’intimazione minacciosa. Atroce! E Gastone, e sua madre... e Bruno Della Casa, che l’aveva seguita e le aveva detto: «È pazzia! Pensate a voi stessa!».
Ma perché? E come? Dove?
No, non ricordava, non poteva capire, non sapeva. E mille legami la vincolavano al letto!
L’accanimento furibondo e disperato della sua ragione contro un muro di nebbia opaca si protrasse lungo e martoriante. Più le tornava l’intelligenza, più comprendeva di non comprendere. Finalmente, riuscì a muovere una mano e il braccio. La sollevò e le ricadde. Stremata, era. Ma soprattutto col sangue inerte, coi muscoli incapaci di compiere il più piccolo sforzo. Rinunciò a capire, a muoversi. Disse a se stessa: «Ecco! Io sono paralizzata. Io sono morta».
Morta non era. E lo comprese, quando sentì il grido roco e gorgogliante, che vibrava ritmico, spaziato, inesorabile e che la percuoteva dall’esterno. Fino a quel momento, il grido era stato dentro di lei.
La luce mancava sempre più, si spegneva. Era come se l’acqua salisse in quella vastissima sala, sommergendo letti e volti. Quando fosse giunta al soffitto, sarebbe stata la tenebra. Ma no. A un tratto una nuova luce si accese, chiara, metallica, di colpo. Gli occhi di Margaret erano aperti. Un volto ossuto, di donna, si chinò su lei. «Sveglia? Ah! È stato breve!».
Margaret vide le labbra che si muovevano, due labbra pallide, screpolate, con tante sottilissime fenditure trasversali. Poco dopo le aprivano la bocca e le cacciavano in gola un liquido acceso, che le fece formicolare il sangue e le diede d’impeto una sensazione di benessere nuovo. Lei sollevò la nuca dal cuscino e poté anche guardarsi attorno.
E non capì ancora che si trovava in una corsia d’ospedale, nella corsia seconda delle disgrazie... anche perché non avrebbe saputo immaginare quale disgrazia le fosse capitata.
Fu soltanto la mattina seguente che De Vincenzi poté interrogare Margaret Sutton nella sua casa, dove l’avevano trasportata dall’ospedale.
La giovane era ancora debole e assai pallida; ma aveva ritrovato il suo sguardo limpido, così diritto e fermo sotto l’alta fronte, che i capelli d’oro illuminavano. Ravvolta in una vestaglia azzurra, distesa sopra un divano, certo ella appariva assai gracile. E fragile. Ma gli occhi, no: gli occhi avevano bagliori grigi d’acciaio.
In casa era sola con suo fratello, che De Vincenzi aveva fatto rimanere assieme a Sani, nella stanza vicina, durante l’interrogatorio.
«Mi dia notizie di mia madre», disse per prima cosa Margaret.
«Sua madre ha avuto un attacco di cuore, ma lo ha superato e certo si rimetterà...».
«La ringrazio anche se lei esagera nell’ottimismo! Mia madre era molto più ammalata di quanto lei stessa non credesse».
De Vincenzi sedette accanto al divano. Era la prima volta che vedeva Margaret «viva». Cercava di capirla, per sapere da qual parte incominciare. Quegli occhi grigi gli facevano temere un’altra lotta. Una lotta diversa da quella che aveva sostenuta con Delia, ma pur sempre pericolosa. Se non voleva andare incontro a una disfatta, doveva non sbagliare dal principio.
«Esco dal profondo di un abisso. C’è una parentesi chiusa nella mia vita, della quale ignoro il contenuto. Che cosa è avvenuto mentre io dormivo? Perché hanno voluto che dormissi? E adesso costui vorrà che io parli o sarà lui a dirmi quel che è accaduto? E Gastone? Gastone saprà tutto, adesso!».
«Signorina Sutton, vuole che parliamo a cuore aperto? Io sto conducendo un’inchiesta per assassinio...».
Gli occhi grigi scintillarono. Un’ombra velò la fronte. Fu come uno specchio d’acqua che s’increspasse impercettibilmente, che fremesse. Ma fu rapido. Lui s’interruppe. «Non mi chiede chi abbiano assassinato?».
«A cuore aperto? Certo! Per questo le dico: io esco dall’incubo di un sonno senza visioni. Non so nulla! Poiché ha voluto questo colloquio, penso che lo ritenga necessario. Ho la sensazione che sia avvenuto qualcosa di terribile e di fatale... Di irrimediabile, anche per me... Per questo non le ho chiesto subito chi abbiano assassinato... Se crede opportuno ch’io debba saperlo, me lo dica».
«Hanno assassinato il signor Marco e...».
«Vada avanti!».
«... e lei è stata trovata nella casa di lui, narcotizzata e legata alle caviglie e ai polsi...».
«Per questo non potevo muovermi!... Ma no! Che sciocca! Non potevo muovermi, a causa del sonnifero... Non capisco... non capisco ancora!».
«Si son presa una pena inutile!».
«Come dice?».
«Che il narcotico bastava».
«Già. Ma lei sa perché le abbiano dato un narcotico?».
«Per farmi dormire trentasei ore!».
«Avevano paura che agisse e parlasse, in quelle trentasei ore?».
«Può darsi».
«Interessante!».
«Oh, non avrà mica pensato che mi abbiano legata e addormentata per farmi uno scherzo!».
«È proprio l’unica cosa che non ho pensata. Dunque, lei aveva visto qualcosa?».
«Ma no! Nulla! Se mi hanno addormentata, è perché non vedessi!».
Gli occhi grigi! Non si era ingannato. Anche questa lottava, eccome! «Bene. Ammettiamolo. Ma mi vuole aiutare a ricostruire quel che è avvenuto prima che lei si addormentasse?».
«Certo! È proprio quel che lei deve volere da me... questo...».
«Crede di poterlo fare?».
«Lo credo. Mia madre è all’ospedale... Io sono stata trovata in casa del signor Marco...». Sollevò le ciglia e guardò in volto il suo interlocutore, che la fissava: «Ma perché in casa del signor Marco? Non capisco!».
«Eppure, poco fa, quando gliel’ho annunciato, non se ne è meravigliata!».
«Non mi ero resa conto del fatto... Io ho tentato di entrare in quella casa, ma non ci sono riuscita!».
«Ne è sicura?».
«Ma sì... Mi sono gettata contro quella porta. L’ho percossa. Volevo entrare! Ma la porta non si aprì. Nessuno comparve».
Infatti, sulla porta si erano trovate le impronte di una mano femminile, della mano di Margaret.
«E perché voleva entrarvi?».
«Perché avevo bisogno assoluto di parlare col signor Marco».
«Erano le nove di sera?».
«Sì».
«Lui le aveva dato appuntamento?».
«Sì».
«Ed era uscito!».
«Non lo so».
«Lo so io».
«Certo la porta non si aprì».
«E allora, lei?».
«Ho atteso. Ma...».
«Naturalmente! Che m’importa? Gli dirò anche questo! Ormai!».
Con dolcezza, De Vincenzi insinuò: «A cuore aperto! Io so che lei fumava, signorina Sutton!».
«Ah!». Ancora di più si era sbiancata. «Lo sa... lei solo?».
«Credo proprio d’essere il solo. E a ogni modo Gastone Vitelleschi lo ignora...».
Ebbe un fremito d’orgoglio ferito. Si strinse nella persona, come per chiudersi in sé. «Non importa!» disse e le gote le si accesero lievemente. «La sua domanda?».
«Che cosa fece quando vide che la porta non si apriva?».
«Salii al terzo piano».
«Da Vannetta Arcangeli».
«Sì».
«Trovò anche il visconte Della Casa?».
«No. Lo avevo incontrato nell’andare in via Fiori Oscuri, pochi minuti prima».
«E gli aveva parlato?».
«Lui lo aveva fatto».
«Per dirle?».
«È pazzia! Pensate a voi stessa!».
«Cioè?».
Con voce netta, pacata, Margaret rispose: «Io quella sera avrei dovuto recarmi dal marchese Vitelleschi, per offrirgli in vendita alcune gemme».
«Lei?».
«Io. Ma in realtà dovevo cercar di scoprire dove tenesse la sua collezione di pietre preziose».
«Lei?» ripeté per la seconda volta De Vincenzi. Tutto assumeva una luce così nuova, così inaspettata! E come mai la ragazza si mostrava tanto pronta a parlare?
«Io. Il marchese mi conosceva. Ero stata da lui altre volte, per incarico di Gastone».
Ah! Dunque, il giovanotto si valeva della sua... fidanzata per intenerire il cuore dello zio!
«A chiedergli denaro?».
«Gastone ne aveva diritto. È suo nipote».
«Sicuro! E il signor Marco aveva pensato di valersi di lei?».
«Sì. Io avevo bisogno di denaro...».
«E lui le aveva imposto le condizioni?».
«Sì».
«Ma come avrebbe fatto a chiedere un colloquio al marchese a quell’ora?».
«Sarebbe stato sufficiente che fossi entrata nel giardino e avessi suonato il campanello della porticina segreta. Lui mi avrebbe fatta salire. Apriva sempre dall’alto, a qualunque ora, perché conosceva le persone che avrebbero potuto annunziarsi a quel modo».
«Ed erano?».
«Gastone, il signor Marco, qualche altro... io...».
«Ma perché proprio quella sera?».
«Harry Gordon e il signor Marco avevano bisogno di fare il colpo quella notte stessa... Era arrivato a Milano colui a cui dovevano consegnare la barchetta di cristallo».
«Da Shangai?».
«Dalla Cina. La barchetta doveva ritornare laggiù o altrimenti il signor Marco sarebbe morto».
«È morto egualmente, il signor Marco...».
«Ecco! È stato perché sapevo tutto quanto le ho detto, che il suo annunzio non mi ha sorpresa».
«Ma l’astuccio dello smeraldo è stato trovato sotto il cadavere del vecchio!».
«E lo smeraldo?».
«Nelle tasche di Harry Gordon».
«Ci erano riusciti, dunque! E io avevo accettato, perché volevo avvertire il marchese del pericolo che lo minacciava!». Sorrise. Era la prima volta che lui la vedeva sorridere. Ma era un sorriso amaro, infinitamente doloroso. «Oh! non mi creda migliore di quel che sono... oppure non creda che io menta... Avevo realmente bisogno del denaro. Harry Gordon mi aveva nelle mani. Completamente! Mia madre... io non la giudico... per avere il denaro che le occorreva a giocare, aveva consegnato ad Harry Gordon cambiali con la firma falsa del marchese... Era stato lui stesso a consigliarglielo, altrimenti non le avrebbe dato nulla! E adesso minacciava di mandarle al marchese... Per salvare me stessa... me sola, badi bene... perché io amo Gastone e se lui avesse saputo...». Ebbe un fremito. Si coprì il volto con le mani. Ma subito le tolse. Aveva gli occhi asciutti e le brillavano freddamente. «Per me sola... e non per mia madre, io avevo accettato la proposta del vecchio. Ero decisa ad avvertire il marchese e a dare una indicazione falsa al signor Marco... Era questione di ore, per me, perché la mattina seguente, se non fossi riuscita ad avere la somma occorrente al ritiro delle cambiali, Gordon avrebbe certo eseguita la minaccia... Perciò mi accanii contro la porta del vecchio... Gli avevo scritto che sarei andata da lui alle nove... E lui non c’era! Andare egualmente dal marchese non potevo, perché il signor Marco avrebbe dovuto consegnarmi le pietre da offrirgli, e poi non sarebbe servito a nulla, se non avessi trovato il vecchio... Non sapevo che cosa fare! Salii al terzo piano, sperando di trovarvelo, perché anche lui fumava... Non c’era, invece... Vannetta mi disse di attenderlo. Sarebbe certo venuto... Lo attesi. Non avevo scelta! La donna mi offrì la pipa... Non seppi resistere... Dopo, non ricordo più nulla!». Aveva parlato d’impeto e adesso si era lasciata ricadere sul divano, stremata.
Aveva detto la verità. De Vincenzi ne era convinto. Ma quella verità, se spiegava molte cose, non spiegava tutto. Perché il signor Marco non l’aveva attesa? Come mai era già in possesso dello smeraldo o per lo meno, come aveva fatto a impadronirsene quella notte prima di essere ucciso?
Certo lo avevano ucciso per lo smeraldo, ed era stato Harry Gordon a pugnalarlo. Ma che cos’era quell’ignobile intrigo delle cambiali con la firma falsa? Un lampo gli si fece nella mente.
Sì. Questo avrebbe spiegato tutto... Anche il colpo di rivoltella di Delia Vitelleschi...
Guardava la ragazza, che aveva la testa abbandonata sulla spalliera ed era bianca, bianca... Lei amava Gastone! Era caduta nell’abisso per difendere la propria felicità! E il giovanotto mangiava brioche e si preoccupava del testamento, che doveva essere a suo favore.
De Vincenzi si alzò.
Margaret lo guardava. «Ormai, io non posso salvare più nulla».
«Quando si hanno vent’anni, signorina Sutton...».
Ebbe un pallido sorriso. Un altro sorriso. Ed era come il primo amaramente doloroso. «Vent’anni!». Scosse il capo. «Forse, sarebbe meglio che mia madre non uscisse dall’ospedale...».
De Vincenzi non rispose. Che cos’altro avrebbe potuto dirgli Margaret che lui non sapesse? Doveva andarsene. Eppure sentiva che abbandonarla così, sola, era doloroso. «Signorina Sutton, sono costretto a lasciare in questa casa il mio collega Sani».
«Perché non dovrebbe farlo? Io ho parlato affinché lei facesse tutto il necessario».
«Non è quel che crede! Ma potrò forse aver bisogno che lei mi dia qualche particolare che ignoro. Io sarò occupato altrove. Lasciando qui Sani, mi sarà facile mandare un agente da lui e farle chiedere quanto mi interessa». Era una povera spiegazione; ma non ne aveva saputo trovare altra.
«Non credo che avrò nulla da aggiungere a quanto le ho detto».
De Vincenzi si diresse alla porta.
«Vorrei chiederle un unico favore!».
«Dica».
«Se fosse possibile che il marchese ignorasse delle cambiali e di me...».
«Il marchese Vitelleschi è morto, signorina Sutton!».
Margaret non poté parlare. Aveva sbarrato gli occhi, come se le fosse apparsa una visione d’orrore.