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Lo specchio

Il portone del palazzo Vitelleschi del Verbano era interamente aperto, perché la salma del compianto marchese ne aveva ormai varcata la soglia, per recarsi, tra salmodiar di preti e strofinio di suole sui lastricati fangosi, al Colombario. Ma il portinaio in berretto gallonato non si teneva – cerbero solenne in mezzo all’androne. Due agenti di P.S. ne guardavano la severa portineria, di sul tavolo della quale il registro per le firme era scomparso. E in quanto al portinaio, costui, in uniforme, faceva un bel meschino vedere, seduto come era in un angolo della stanza, col berretto sulle ginocchia e senza più autorità e solennità.

Se il cadavere aveva esulato verso l’ultimo riposo, una donna dai capelli rossi e dall’irregolare beltà turbevole si trovava nel palazzo in stato di arresto, guardata a vista dal brigadiere Cruni e da altri due agenti.

Il brigadiere Cruni – tozzo e pesante, con quel torso troppo grande per le sue corte gambe ercoline, vestito di stoffa rude cardata a mano, proiettato a linee ferme, a rilievi decisi – stonava nell’ambiente. Tra quei mobili antichi, tutti dorature e sagomature era il bove tra le porcellane. E lui lo sapeva e si sentiva a disagio e per reazione si muoveva più pesantemente calpestando quasi con voluttà i tappeti soffici con le sue doppie suole chiodate.

De Vincenzi gli aveva dato la consegna di sorvegliar da presso la marchesa, non perché temesse una fuga, che – adesso, dopo la morte di Harry Gordon – sarebbe stata per lei vana e irragionevole, ma perché non voleva ritrovare un altro cadavere a palazzo. Che quella magnifica creatura non avesse equilibrio era evidente e c’era da aspettarsi da lei anche l’effrazione disperata. Sicché Cruni, messo in quel timore, non l’abbandonava di vista un solo istante.

Delia, dopo aver dormito sulla poltrona, s’era destata assai tardi al mattino. E a destarla era stato il rumore dei vespilloni e dei preti, ch’eran venuti a chiudere la cassa e a portarsela via. Appena aperti gli occhi, aveva veduto quell’uomo piantato saldamente quasi sulla soglia della porta e a tutta prima non si era resa ragione del perché vi si trovasse.

Subito aveva fatto per uscir dallo studio e Cruni, eseguendo la consegna, le aveva annunziato che il commissario sarebbe tornato e che lui non poteva lasciarla sola.

«Anche nel bagno?» aveva chiesto Delia, guardandolo con ineffabile ironia.

Il brigadiere aveva risposto, arrossendo: «Anche nel bagno».

Allora lei era andata di nuovo a sedere nella poltrona e vi era rimasta. Cruni era seduto accanto alla porta.

La cassa, tutta dorature e bronzi, era passata e nessuno dei due aveva fatto un movimento. In casa, ormai, non v’erano che Pietro, le cameriere bianche e nere, la cuoca e quei due dentro lo studio.

Pietro girava le stanze una a una, come per riprenderne possesso. Aveva dovuto togliere il tappeto macchiato di sangue dall’ingresso... Aveva dovuto far scomparire le macchie di cera da quelli della stanza da letto e rimettere i fiori di legno alle spalliere... Aveva acceso tutti i fuochi nei caminetti, per dar calore di vita agli appartamenti. E passava e ripassava davanti alla porta dello studio, che rimaneva chiusa.

Vi era bensì entrato, sul mezzogiorno, per chiedere alla «signora marchesa» se volesse far colazione nella sala da pranzo; ma Delia gli aveva risposto che le portasse due uova da bere e un bicchiere di Porto. Poi aveva anche spiluccato un grappolo d’uva nera, conservata fuori stagione e fatta rinverdire in acqua tiepida.

Cruni, per suo conto, non aveva voluto mangiare e il sacrificio era stato grande. Lui sperava soltanto che De Vincenzi venisse a toglierlo da quella guardia, che era la più martoriante di tutte quelle che gli fossero capitate fino allora. Alle tre, De Vincenzi arrivò. Appariva chiuso, concentrato, con una ruga profonda a mezza fronte. «Pietro, vediamo un po’ di trovare gli anelli che mancano...».

«Mancano gli anelli?» e il servo sbarrò gli occhi in volto al commissario.

De Vincenzi non sorrise. «Sì, mancano ancora molti anelli alla catena. E qualcuno potrete, forse, darmelo voi. Venite con me...».

Si diresse verso la porta della camera da letto del marchese. Le finestre erano aperte. Le tende tirate. Si vedevano gli alberi del giardino. Il letto era vuoto. Ancora, presso al caminetto, c’era un po’ di sghembo la poltrona, ch’era stata del marchese e sulla quale si era addormentata Bambina. La porticina segreta aveva il suo unico battente spalancato, come se, una volta scoperta, non avesse avuto più ragione di richiudersi a combaciare vita, in tutto lo sviluppo della sua personalità.

«Conosce la signorina Sutton?».

Pietro si teneva diritto davanti a De Vincenzi, che si era seduto. «Non la conosco, signore. Non è mai venuta qui».

Dunque, Margaret era sempre passata per la porticina. Certo, la prima volta, il marchese doveva essersela trovata davanti, mentre forse credeva di veder comparire suo nipote.

«Il marchese aveva fiducia in voi?».

«Non so che cosa lei intenda per fiducia».

«Voi dovevate conoscerlo meglio di ogni altro».

«Come si può credere di conoscere un quadro, che si sia visto sempre dal basso? Il giudizio è necessariamente unilaterale».

Pietro era troppo colto e intelligente. Poteva risultare prezioso o deleterio, a seconda della sincerità che avrebbe voluto adoperare.

«Sedetevi, Pietro».

«Il signor commissario può interrogarmi a suo beneplacito, anche lasciandomi in piedi. Ci sono abituato».

«Questa volta occorre che mi parliate dimenticando che siete il cameriere».

«Non potrò mai dimenticarlo, signore. E poi? A che cosa servirebbe dimenticarlo, se lo sono? Non potrei perdere in un minuto tutte le deformazioni professionali subite in quarant’anni di servizio».

Ma sedette. Composto, rigido, mantenendo quel suo fare fieramente ossequioso.

«Che uomo era il marchese Vitelleschi?».

«Io l’ho conosciuto che aveva circa trent’anni. Era vivo suo padre, allora. Ma ebbi poco a servirlo, nella sua giovinezza. Il marchesino Goffredo andò a Roma e, quindi, seguì la carriera diplomatica. Non è stato che nel 1920, ch’egli è tornato in Italia, a Milano, per rimanervi. Ed era già un uomo più che anziano ed era succeduto al padre nel titolo e nel potere di capo della casata. Tutte le altre volte che vi era venuto, anche dopo la morte dei genitori, non si era trattenuto qui più di una quindicina o una ventina di giorni... Come vede, io non ho potuto conoscere il defunto marchese in tutto il corso della sua vita, in tutto lo sviluppo della sua personalità».

«E in questi sei anni?».

«Il marchese faceva vita ritirata. Era di poche parole. Aveva un segreto tarlo roditore. Molte volte ho pensato che il soggiorno all’estero, in quei paesi così diversi dai nostri, gli avesse lasciato qualche ricordo doloroso... o cattivo... o ingombrante...».

«Quali ragioni ve lo facevano credere?».

«Nessuna ragione. Io non posso parlare che delle mie impressioni».

«Quando si sposò e la marchesa venne a palazzo, quali furono le vostre... impressioni?».

«Il signor commissario mi fa una domanda imbarazzante! La marchesa è giovane. Lo era molto di più di suo marito».

«Andate avanti. E il marchese se ne accorgeva?».

«Debbo credere di no, signore, se l’ha sposata».

«L’amava molto?».

«Posso risponderle di sì. Le ha donato la collana di brillanti che aveva appartenuto alla marchesa madre. Non lo avrebbe fatto, se non l’avesse amata molto».

«Perché aveva appartenuto alla madre?».

«No. Perché era di brillanti. Tutti di prima scelta, di acqua purissima, senza un carbone, senza una scalfittura... E il signor marchese non si separava facilmente dalle gemme».

«E la marchesa?».

«Il signore che cosa vuole precisamente chiedermi?».

«La marchesa amava suo marito?».

Pietro guardò il fuoco. «Non crede il signor commissario che sia necessario far levare un po’ la fiamma?».

«Pietro! La marchesa ha ucciso un uomo».

Il servo fece il volto attonito. «Io, non so nulla, signore. Ho trovato un cadavere; ma ignoro da chi l’uomo sia stato ucciso».

«Non importa! Io vi dico: quell’uomo è morto. È necessario mi diciate tutto quel che sapete».

«È necessario?».

«È indispensabile, se non volete che vi mandi a San Vittore».

«Non è di questo che mi preoccupo; ma del valore che può avere una mia testimonianza. Del valore morale, e del diritto e dovere ch’io abbia a farla».

De Vincenzi si fece ancora più scuro in volto. Capiva benissimo il senso riposto delle parole del servo. Pietro aveva più cuore di quanto non gli fosse necessario pel suo mestiere. E lui stesso, commissario di polizia, si trovava davanti a una preoccupazione consimile.

«La giustizia...».

Il servo scosse lentamente il capo grigio e lo guardò.

«La verità...».

Ancora il capo grigio ondulò lento e lo sguardo si fece più profondo.

«Non c’è che una cosa peggiore della morte, ed è la vita...».

Pietro assentì vivamente.

Un filosofo era, e De Vincenzi un poeta. Mai interrogatorio poliziesco si era svolto più in urlante contrasto con le comuni regole della logica e della consuetudine; e mai inquisito aveva trovato più aderente e adatto inquisitore.

«Amava suo marito la marchesa?».

«Il defunto marchese le aveva dato la collana e i braccialetti di brillanti... Avrebbe potuto darle la collezione delle gemme... Perché non lo avrebbe amato?».

«Che cosa sapete di Harry Gordon?».

«Era giovane, forte, brutale, non aveva scrupoli, sapeva uccidere e accarezzare».

Questa volta il commissario guardò il cameriere con un lampo di ammirazione sincera.

Pietro fece per alzarsi.

«Rimanete seduto! Non ho finito».

A malincuore Pietro rimase seduto. Una volta in piedi, sarebbe tornato servo e lui non chiedeva altro in quel momento.

«Era mai venuto a palazzo Harry Gordon?».

«Per la porticina segreta? Sì, signore. Mi è successo un paio di volte di trovarlo nella camera del marchese a colloquio col mio padrone, che si affrettò a mandarmi via appena vedutomi».

«E con la marchesa?».

«Le telefonava».

«Di nascosto del marchese?».

«Quando era Harry Gordon al telefono, io dovevo annunziare alla signora marchesa una chiamata del Decamerone».

«Il marchese dubitava?».

«Ho sempre creduto che non dubitasse. Soltanto poche ore prima della sua morte avevo cominciato a temere che una chiaroveggenza martoriante e morbosa stesse per farlo soffrire».

«E come spiegate tale chiaroveggenza?».

«Una delazione».

«Spiegatevi, Pietro!».

«Sarebbe troppo tardi per non farlo. Con la posta delle diciassette, lunedì, era arrivata una lettera con l’indirizzo scritto a macchina. Non ricorderei neppure quella lettera, se alla sera non l’avessi veduta tra le mani del marchese. Era seduto nella sua poltrona e la fissava con una cattiva luce nello sguardo. Mi vide entrare e se la mise in tasca».

Le ceneri nel caminetto! «Null’altro? Proprio null’altro avete veduto?».

«No. Martedì mattina, il giorno in cui io trovai il signor marchese morto, giunse con la posta di mezzogiorno un’altra lettera simile alla prima».

De Vincenzi balzò in piedi. «E me lo dite soltanto adesso! Dove l’avete messa?».

Pietro si alzò. Rispose con voce mutata. Aveva ritrovato il suo sguardo fuggevole e la sua fierezza di cameriere di gran casa. «Il signor commissario non me l’aveva chiesto e io credevo che fosse mio dovere consegnarla al notaio Narboni con tutte le altre carte e i documenti che si trovavano nella casa».

«Andate a prenderla!».

La lettera era laconica e volgare:

Ieri vi ho scritto per la prima volta. Se di esser becco siete contento, non tenete conto neppure di questo mio secondo avvertimento. Un vecchio non dovrebbe mai sposare una donna giovane e bella.

Scritta a macchina su carta comune, di quella che si compera nelle tabaccherie. De Vincenzi, quando l’ebbe letta, ripiegò il foglio lentamente, lo rimise nella busta, lo fece sparire in tasca.

Era assorto. Fissava il fuoco.

Pietro aveva distolto lo sguardo da lui e affettava di guardare la cima degli alberi fuori della finestra.

«Andate». Aveva bisogno d’esser solo. Sedette nella poltrona. Strinse con dita nervose i braccioli. Chi aveva scritto quelle lettere? Qualcuno certo che conosceva la sua vittima, perché esse ferivano al cuore. Erano acute come strali. Come il pugnale dal manico d’oro, che s’era confitto nel petto del vecchio di via Fiori Oscuri.

E qual era lo scopo?

Uno solo! Uno solo! Non avrebbero potuto averne altri o se no bisognava ammettere che fossero state scritte da uno squilibrato affetto da mania di delazione. Ma l’ipotesi non reggeva, perché il marchese era stato fatto morire col cloruro d’anile.

De Vincenzi si alzò. Fece qualche passo. Era in preda a una agitazione dolorosa. Gli sembrava di rivivere le ultime ore del marchese, lì in quella camera, col martirio improvviso della rivelazione inaspettata. Amava la moglie – come avrebbe potuto non amarla? nel sangue doveva averla! – e adesso sapeva che lo tradiva. Poiché certo lui aveva dovuto avere di colpo la sensazione che quelle lettere dicevano la verità. E s’era sentito vecchio, vecchio, vecchio...

De Vincenzi si avvicinò al caminetto. Un brivido di freddo lo aveva percosso e istintivamente aveva teso le mani alla fiamma. Fissava davanti a sé la sua immagine nello specchio. E di colpo la verità gli apparve. Quasi cacciò un grido, tanto essa era plastica, aderente.

Una verità psicologica.

Ecco perché il marchese aveva voluto uno specchio vero, uno specchio moderno, in cui si fosse potuto vedere!

Sua moglie lo tradiva. Era più giovane di lui, non poteva amarlo. Ma lui fino a quel momento non si era sentito vecchio. Lo era? Si guardò nello specchio – in quello specchio livido come l’acqua di una palude – e si vide sfocato, senza rilievo, senza colore, senza vita. Era realmente così? E aveva voluto uno specchio, un altro specchio. E aveva ordinato a Pietro di comperarlo e di portarglielo la mattina dopo, subito appena desto. Ma non si era destato più... E che cos’altro aveva ordinato a Pietro? Che chiamasse il notaio Narboni. Che lo facesse venire a palazzo alle undici e mezzo... I due ordini – dati in quel momento – erano in stretta relazione fra loro.

Il marchese voleva cambiare il suo testamento.

Per questo aveva voluto il notaio appena sveglio.

Ma non si era svegliato più...

Dunque il testamento avrebbe dovuto contenere l’indicazione decisiva... De Vincenzi si allontanò dal caminetto. Traversò la stanza, andò a chiudere la porticina segreta.

Chi era passato per quella porta dalle nove di lunedì sera al momento in cui il marchese si era abbattuto a terra, fulminato dall’embolia? Forse il vecchio di Fiori Oscuri. Certo, il signor Marco aveva dovuto tentare da solo il colpo delle pietre preziose, senza bisogno di valersi di Margaret Sutton.

Ma chi aveva addormentato e immobilizzato la ragazza? De Vincenzi alzò le spalle. Problema secondario e di facile soluzione. Bastava interrogare a fondo Vannetta Arcangeli. Non dubitava neppure che la donna avrebbe parlato. I vivi parlano sempre, o presto o tardi.

Era ingiusto! Anche i morti parlano. Il marchese non gli aveva forse rivelato il suo segreto anche dopo morto?

E chi altro era entrato in camera del marchese quella notte? Chi altro che lo aveva ucciso?

Il medesimo, che aveva bevuto il whisky con lui e che poi aveva fatto scomparire i due bicchieri e la bottiglia. Uno, dunque, con cui il marchese avrebbe potuto trattenersi in conversazione amichevole, bevendo whisky. De Vincenzi uscì dalla stanza. Si trovò nel salotto, guardò la porta dello studio in cui erano chiusi Delia e il brigadiere.

Esitò. Rivederla? Perché? Lei che cosa avrebbe potuto dirgli? No. Non l’avrebbe mandata alle carceri fino a quando non fosse stata data lettura del testamento.

Entrò nell’ultimo salottino e afferrò il telefono.

«Il notaio Narboni? Desidero che domani mattina alle undici venga al palazzo Vitelleschi col testamento. Naturalmente! Troverà i possibili eredi. Provveda lei stesso ad avvertire il nipote. Grazie». Depose lentamente il ricevitore e rimase qualche istante con la mano appoggiata al telefono.

Poi si scosse. Sì. Non c’era da far altro. Era antipatico; ma necessario. Per il giudice istruttore l’induzione e la deduzione non avrebbero potuto costituire basi d’accusa.

Si è mai visto un collegio giudicante condannare qualcuno, perché un commissario di polizia ha indotto e dedotto?... E sorrise.

Pietro nell’anticamera gli si inchinò. «Quando potrò lasciare questa casa, signor commissario? Non avrei la forza di rimanervi!».

«Credo che domani sarà tutto finito, Pietro...».

Per le scale pensava che, molto probabilmente, neppure quella notte si sarebbe coricato. E anche si diceva che Margaret non avrebbe più avuto ragione di soffrire ormai, oppure avrebbe sofferto da morirne.