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Venerdì tredici
La lettura di un testamento di venerdì 13, per chi sia superstizioso, non è piacevole.
Per quanto, un testamento implichi di necessità un erede; e quindi, per costui, il venerdì 13 sia un giorno fortunato.
Nello studio, sotto la pendola di Boule, che segnava le undici meno cinque, Delia Vitelleschi, vestita di nero, col suo abito corto ai ginocchi, chiuso al collo, chiuso ai polsi, attendeva. Nell’angolo più buio, quasi incastonato nel muro, Cruni si teneva ritto. Quella fazione lo aveva stremato. No! Non si può rimanere chiuso in una camera con una donna – bella d’una bellezza strana e coi capelli rossi – per quasi ventiquattr’ore, senza maledire il destino. E quella donna aveva ucciso!
Cruni la considerava come una qualsiasi accusata da tradursi a San Vittore.
Ma erano i mobili di quella stanza, il sottile e pur penetrante profumo, che alitava lì dentro, a dargli la sensazione di un caso insolito, di un caso che gli era capitato addosso di traverso e che non rientrava nel compito delle sue mansioni e dei suoi doveri.
La porta si aprì ed entrò De Vincenzi.
«Commissario, lei non si è fatto più vedere!».
«Sono stato molto occupato, signora».
«Occupato a che cosa, se io le ho ucciso Harry Gordon?».
«Occupato anche a cercar di capire perché lei lo abbia ucciso».
«Non ha mai provato a guardarsi in uno specchio?».
Anche lei! Perché? Che cosa c’entrava lo specchio, adesso?
«E non ha mai avuto il desiderio di frantumare la sua propria immagine, frantumando lo specchio?».
Ah! Dunque era vero! Aveva amato Harry Gordon per affinità naturale.
«Io sì! Io ho voluto uccidere me stessa, uccidendo lui».
«E le gemme?».
La donna ebbe un fremito.
«Un destino tutto di gioia... colmo di tanto denaro... Sì, forse, così avrei risparmiato Harry! Ma era stato proprio lui a far deviare il mio destino».
Entrava il notaio Narboni, seguito da Gastone Vitelleschi. Il giovanotto era vestito a lutto, come si conviene a un erede.
Anche il notaio aveva la redingote nera e i guanti neri. Funebre. Senza ciglia, neutro, senza volto. Delia lo vide senza volto. Anche perché lui evitava di guardarla.
«Può cominciare, dottore».
Entrò un altro personaggio. De Vincenzi, ignaro della procedura notarile, non se lo aspettava. Anziano. Forse, vecchio. Curvo, con la giacca a code. Verdognolo. Era tutto verdognolo, anche nel volto oltreché nell’abito. Ma il curioso era che i suoi calzoni si fermavano a una spanna dalle scarpe a stivaletto, con gli elastici. Sicché si vedevano quattro dita di calze grigie, di lana pesante. Sotto il braccio l’uomo recava una busta di pelle nera.
«Ci siamo tutti? Segga a quel tavolo, Vercingetorige».
L’ometto dai calzoni corti si chiamava Vercingetorige. Ma forse non era vero! Forse, il notaio aveva soltanto voluto far colpo, dandogli quel nome.
Comunque, non protestò e sedette al piccolo tavolo di palissandro intarsiato. Aprì la busta di pelle, ne trasse un plico sigillato di rosso e alcuni grandi fogli bianchi, soltanto rigati sulla loro immacolatezza.
«Non ho calamaio e penna», disse. Aveva una voce assolutamente normale, comune. Era strano che avesse una tal voce.
De Vincenzi andò lui stesso in anticamera e tornò con Pietro, che portava il calamaio e la penna.
«Anche Pietro deve rimanere, non è vero, dottore? Il testamento può contenere qualche legato che lo riguardi».
Pietro andò a mettersi nel fondo. Il notaio prese una seggiola e sedette accanto a Vercingetorige. Cominciò a dettare a voce corrente, bassa, mangiandosi le parole. «In mezzo: rogito per l’apertura del plico contenente le ultime volontà del Nobile Uomo Goffredo Vitelleschi marchese del Verbano. Io, Vittorio Beniamino Agapito Narboni, notaio autorizzato, eccetera... il giorno 13 febbraio dell’anno 1926... eccetera... sito... eccetera ... ho proceduto alla presenza... eccetera... all’apertura... eccetera ...».
Vercingetorige scriveva. Quand’ebbe finito, si fermò e si mise a succhiare il cannello della penna.
Il dottore fece saltare i suggelli, dopo aver mostrato la busta agli astanti, sollevandola. «Perché non seggono?» chiese.
Gastone solo sedette. De Vincenzi rimase ritto accanto a Delia, con le spalle al fuoco e alla pendola di Boule.
Adesso, il notaio dava lettura del documento.
«Io Goffredo Vitelleschi, marchese del Verbano, in perfetta sanità di mente, ho scritto e firmato il presente testamento, che contiene le mie ultime volontà, da eseguirsi e rispettarsi dopo la mia morte, che non mi auguro prossima».
Il lettore fece una pausa.
Delia ascoltava e continuava a fissare un punto lontano, oltre la testa del nipote, che le stava seduto davanti; oltre la parete; oltre il visibile.
De Vincenzi aveva socchiuso gli occhi. Non voleva che l’intensità del suo sguardo, diretto all’osservazione di una sola persona, lo tradisse.
«Lascio tutto quanto posseggo, siano beni mobili e immobili, come da elenco aggiunto, e la mia collezione di pietre preziose...».
Delia ebbe un brivido.
«... a mia moglie Delia Vimercati in Vitelleschi del Verbano».
«No! Non è possibile! Quello non può essere il testamento di mio zio!». Gastone era balzato in piedi. Aveva il volto acceso e lanciava attorno sguardi disperati. Tremava tutto, preso da un vero convulso isterico.
Delia si scosse dalla sua meditazione. Tornava da lontano.
«Che cosa c’è? Che dice? Che è accaduto? » chiese con profondo stupore.
A lei quel testamento non poteva più interessare, oramai.
Il nipote s’era lanciato verso il tavolo di palissandro e il notaio era scattato in piedi. Vercingetorige aveva dovuto togliersi la penna dalla bocca. «Signor marchese! Signor marchese! Il testamento è questo! Reca la data del 14 maggio 1922 e non dice altro, non dice assolutamente altro! Ma è firmato ed è olografo, e non può essere validamente contestato!».
«Non è possibile! Lo zio deve averne fatto un altro posteriore. Occorre cercarlo! Non sono quelle le sue ultime volontà, e io le conosco... Me le ha confidate. Non sono quelle!... Lunedì sera mi ha detto che l’unico erede di tutto il suo patrimonio ero io!».
Il notaio taceva. Tutti tacevano. Delia disse lentamente: «Io non posso ereditare nulla... L’eredità andrà egualmente a Gastone...».
«È vero? È vero?» chiese il giovane, afferrando il notaio per il bavero della redingote.
«Se la signora firma un atto di donazione, ma in tal caso il fisco riscuoterà il sessanta per cento...».
«E tu mi fai la donazione, zia?».
«E perché non dovrei?».
Seguì un altro silenzio.
«Ha scritto il verbale di lettura, Vercingetorige?». E si affrettò a firmarlo, lui pel primo. «Vogliono firmare come testimoni?».
Si guardò attorno. Tese la penna a Pietro, la tese a De Vincenzi. «Venga, venga!».
Vercingetorige chiudeva la busta di pelle, si alzava.
E uscì seguito dai pantaloni corti sulle calze grigie e sugli stivaletti a elastico. Gastone anche uscì, dietro di lui, dopo aver preso la mano di Delia e averla baciata. Tutto non era durato più di dieci minuti, come faceva fede la pendola di Boule. Allora, De Vincenzi aprì gli occhi, sorrise. S’inchinò alla marchesa. Si diresse alla porta.
Cruni fece un passo verso di lui e a voce bassa il commissario gli disse: «Puoi condurla alle carceri... Passa a San Fedele a farti dare da Sani l’ordine d’incarcerazione».
Per le scale, si affrettò un poco, e sul portone vide Gastone, che all’angolo di via Serbelloni saliva sul primo tassì della fila. De Vincenzi prese il secondo.
«Segui quella vettura».
In via Solferino i due tassì si fermarono. Il commissario raggiunse il giovanotto per le scale. «Ho bisogno di parlare con lei, signor marchese».
«Perché? Che cosa vuole? Non ho nulla da dirle, io!».
«Entriamo in casa sua, se permette».
Quando furono nel piccolo ingresso, De Vincenzi andò diritto a una porta e l’aprì. «Che cosa fa? Quella è la cucina!».
«Appunto. Venga con me».
L’altro lo seguì quasi barcollando. Aveva negli occhi il terrore della bestia presa al laccio. De Vincenzi aprì un armadio, ne trasse una bottiglia di whisky e due bicchieri. «Vuole che le descriva come ha fatto a uccidere suo zio con una dose sufficiente di cloruro d’anile?».
Il giovane, livido, tacque.
De Vincenzi lo prese dolcemente per una mano e lo condusse in un’altra stanza. Sopra un piccolo tavolo si vedeva una macchina da scrivere. «Ecco la macchina con cui è stata scritta questa lettera, signor marchese...». E trasse di tasca la lettera anonima, che era giunta al palazzo di corso Venezia con dodici ore di ritardo sul previsto.
«Ma come ha fatto? Come ha fatto» mormorò il giovane. E poi con più forza: «Ma quando e come è entrato qua dentro?».
«Ieri sera, mentre lei era al caffè... E in quanto al come, lei non ha neppure una serratura yale alla porta! Quelle serrature lì, col più semplice dei grimaldelli si fanno girare.»
Lo scatto delle manette.
Per trovare un tassì, dovettero andarsene uno accanto all’altro – e il commissario sembrava un amico, che sostenesse un ubriaco o un ammalato – sino al largo dell’Università Bocconi.
In tassì, De Vincenzi chiese, senza guardarlo: «Suo zio le telefonò realmente?».
«Sì».
«Aveva ricevuto la prima sua lettera... anonima?».
«Sì».
«Lei andò la sera stessa?».
« Sì».
«E le parlò proprio... del tradimento della moglie?».
«Sì».
«E le disse che aveva lasciato tutta l’eredità a lei?».
«Sì. M’ingannò!».
De Vincenzi non volle dirgli che suo zio non lo aveva ingannato, e che il testamento in favor suo lo avrebbe fatto la mattina dopo alle undici e mezzo, se lui non gli avesse fatto annusare il cloruro d’anile.