Pavolone era innamorato. Mi chiederete, cosa c’è di strano se un ragazzo di poco più di 20 anni si innamora? Ebbene, se mi fate questa domanda vuol dire che non conoscete ancora Pavolone e sarà bene che ve lo presenti.
Chi aveva la sorte di incontrare Pavolone anche una sola volta non se lo dimenticava più e conservava nella memoria, e per sempre, il ricordo dell’uomo più grosso del mondo. Pavolone pesava, alla nascita, esattamente 6 chili e per venire al mondo aveva quasi ucciso sua madre e certamente aveva spaventato i medici, che non avevano mai visto un bambino così grosso. La sua nascita era stata molto complicata dal fatto che neppure i diametri più piccoli della sua testa sembravano avere intenzione di impegnarsi nel pur ampio bacino materno (la mamma di Pavolone era sempre stata chiamata la Bastianaza e si raccontava che nella sua famiglia non c’era mai stato uno che pesasse meno di un quintale). Così, in assenza dell’anestesista – che aveva avuto un incidente stradale e si era dovuto ricoverare lui stesso – non essendo possibile ricorrere a un taglio cesareo, era stato applicato un forcipe, un’applicazione difficilissima destinata a provocare danni ad entrambi, madre e figlio. Come conseguenza di quell’intervento, la Bastianaza smise di fare figli e Pavolone, poverino, non divenne mai intellettualmente un’aquila, e tutte le energie di cui poteva disporre le impegnò nella sola crescita del corpo che divenne ben presto smisurato, una cosa che si vedeva solo nei fumetti. Crescendo, il ragazzo capì – non era poi completamente stupido – che gli erano precluse tutte le carriere intellettuali e, seguendo il proprio istinto, si dedicò completamente al culturismo. A 18 anni si guardò allo specchio: quello che vide lo lasciò molto perplesso, e con ragione, perché aveva sì un tronco formidabile e gambe erculee, ma tra questi due perfetti esempi di come la natura e l’esercizio quotidiano possono plasmare un corpo, c’era un culone ragguardevole che aveva resistito senza perdere un grammo di grasso a tutti gli esercizi ginnici, agli innumerevoli massaggi e persino a qualche esorcismo. Malgrado ciò, Pavolone tentò una prima incursione nel mondo del culturismo professionale e fallì. Si fece operare da un chirurgo plastico «per poveri» e si ritrovò con due grandi bisacce vuote al posto delle natiche, uno spettacolo deplorevole. Da quel momento evitò di togliersi i calzoni e cercò un lavoro che gli consentisse di sopravvivere. Dei vari intrapresi, quello che durò più a lungo fu il mestiere di buttafuori nelle balere delle spiagge romagnole, un lavoro che durò fino al momento in cui tutti si resero conto – padroni e avventori – che Pavolone reagiva solo se era personalmente coinvolto, ma se gli si chiedeva di buttar fuori un ubriaco finiva con lo schierarsi dalla parte di quel poveretto, per il quale tendeva a provare una pericolosa compassione. Ci furono – è vero – altri episodi critici, ma si trattò, almeno secondo Pavolone, di cose senza importanza. La conclusione fu che il ragazzo aveva cominciato ad andare alla deriva quando incontrò Primo, che l’aiutò inizialmente senza una vera ragione, ma poi si affezionò e lo prese con sé, per badare alle bambine, fare qualche piccolo lavoro in casa e in giardino, ascoltare le storie di Proverbio.
Intendiamoci, se dico che Pavolone non si era mai innamorato, intendo alludere all’amore vero, quello che implica sentimenti, passione, tenerezza, piani per il futuro. Pavolone conosceva un altro amore, quello dei sensi, che spegne le fiamme che bruciano un ragazzo di vent’anni dal di dentro. Pavolone era convinto – per alcune letture che aveva fatto, per alcune cose che aveva ascoltato – che la masturbazione impedisse un regolare sviluppo del corpo, fosse causa di malattie delle ossa e rendesse alcuni uomini storti e gobbi: come vedete, aveva deciso, giustamente, di non dar credito alle voci che insinuano che chi si masturba tenda anche a diventare stupido. Per avere creduto a questi racconti il ragazzo si era sempre trattenuto e aveva evitato di «lasciarsi andare». Ma durante quelli che gli anziani definivano sogghignando «i ann dla manon», gli anni della manona, Pavolone aveva avuto varie occasioni di «sfogare la piena dei suoi sentimenti» e, quando era stato nelle condizioni di farlo senza danni per gli altri, ne aveva approfittato. Il periodo più felice era stato quello in cui aveva lavorato nelle discoteche, d’estate, un mondo bacato in cui bravi ragazzi, che avrebbero potuto sviluppare muscoli forti e guizzanti, si facevano corrompere dall’alcool e dalla droga. Uno dei suoi compiti era diventato quello di riportare a casa, con la macchina del direttore, i ragazzi e le ragazze che dai e dai erano praticamente finiti in coma e a casa, da soli, non sarebbero mai arrivati. Coi ragazzi, c’era poco da inventarsi, ma le ragazze, perbacco, persino quelle che non facevano che vomitare… Pavolone fermava la macchina in un posto tranquillo, si trasferiva nei sedili posteriori, toglieva gonne e mutande alle poverette e giù, due o tre volte di seguito, in pratica senza nemmeno fermarsi per rifiatare. Poi le rivestiva e le portava a casa, dove i genitori lo ringraziavano e qualche volta gli davano anche una mancia. Le ragazze si svegliavano il mattino dopo con un gran mal di testa, qualche confuso ricordo – subito accantonato – e qualche disagio in più se le mutandine se le trovavano messe al rovescio.
Primo, che queste storie non le aveva mai sapute – e comunque non sarebbe mai riuscito a convincere Pavolone che certe cose non si fanno – era uomo di mondo, conosceva bene certe esigenze, e ogni sabato sera, puntualmente, metteva Pavolone sulla strada del peccato, dopo averlo debitamente istruito: niente transessuali, uso obbligatorio del preservativo, soldi contati per due prestazioni, non t’innamorare.
Quest’ultima raccomandazione Pavolone non l’aveva mai capita bene, a dire il vero era convinto che innamorarsi volesse significare infilare il proprio pisello nella passerina di una ragazza volenterosa, fino al punto di dire tutti e due oh, oh, oh che bello che bello. E poi, lì l’amore finiva. Fino a che giunse il giorno in cui Pavolone scoprì il vero amore.
Quel giorno – quel giorno particolare e inatteso – Pavolone si trovò improvvisamente di fronte a una venere celeste, alla personificazione stessa della beltà, a una giovane donna sfuggita misteriosamente alle insidie degli studi cinematografici di Hollywood. Insomma Pavolone si trovò di fronte all’amore, e se lo ingoiò tutto, come fa un pesce con un’esca appetitosa. Pavolone non lo sapeva, ma da quel momento e per molto tempo a seguire si comportò come un personaggio dei libri per signorine. Come un innamorato cotto. Stracotto. Fuso.
La ragazza si chiamava Maite, era argentina e aveva poco più di vent’anni. Era allegra, carina – no, non più che carina – sempre disponibile, in senso molto lato. Maria l’aveva scelta per farsi aiutare in casa e Maite veniva tutti i giorni, dal lunedì al sabato, dalle 9 alle 15, contratto regolare, salario conveniente, non ci mancherebbe altro. Di avere provocato quel terremoto di sentimenti in Pavolone non si era assolutamente accorta: per lei Pavolone era un gigante un po’ tonto, che non rispondeva mai subito alle domande ma che si dimostrava sempre servizievole e gentile, in fondo l’idea che lei aveva di un gentiluomo, forse un’idea un po’ bislacca, ma lei di gentiluomini veri non ne aveva mai incontrati. Che avesse delle mire nei suoi confronti, non lo immaginava nemmeno, in genere i ragazzi che avevano qualche progetto che la riguardava glielo dicevano, e lei diceva regolarmente di sì, non le sembrava di far nulla di male, il sesso lo interpretava come una ginnastica più divertente e meno faticosa. Pavolone, a parte qualche largo sorriso, non le inviava mai messaggi che potessero essere interpretati in questo senso. Fatto si è che Pavolone di far sesso con lei non aveva alcuna intenzione, lui questa volta era innamorato e anche se non gli sembrava di avere le idee proprio chiare, era certo che l’amore non potesse avere niente a che fare con piselli e passerine, e per intuire certe cose non c’era bisogno di sapere chi era Platone o di aver letto Petrarca. L’unica persona che si era accorta di questi sentimenti – rispettabilissimi, encomiabili sentimenti – era Maria che, d’abitudine, non si faceva i fatti degli altri e parlava generalmente poco. Forse se ne sarebbe accorto Proverbio, ma quello era il periodo in cui era stato male e non aveva avuto né voglia né tempo di guardarsi intorno. Era una situazione senza un’apparente soluzione, bisognava solo aspettare che Pavolone si disinnamorasse, il che tardava ad accadere.
A questo punto è legittimo che qualche lettore mi interroghi sulle ragioni che mi hanno indotto a raccontare questa storia di Pavolone, che apparentemente non ha niente a che fare con le storie precedenti e sembra condurci in un vicolo cieco. Questo, però, è un libro basato sulle concomitanze, sulla casualità degli eventi, sulle coincidenze statisticamente improbabili: bisogna aver pazienza. L’unica cosa che mi sento di potervi dire, al momento, è che i fatti dei quali vi sto parlando non superano il cosiddetto limite di probabilità universale, che se non sbaglio riguarda eventi stocastici le cui probabilità di realizzarsi sono inferiori a 10 alla meno 150, e che perciò non siamo costretti a immaginare che questa complicata storia prenda origine da una causa non causata. Intanto, solo per darvi un indizio, vi dirò che da qualche tempo Maite aveva cominciato a soffrire di una fastidiosa malattia della pelle.