Nello studio del notaio Ricci Ribaldi – ampio, pieno di splendidi mobili antichi, librerie a tutte le pareti, eleganza sobria e raffinata – aspettavano il personale dell’ufficio e i tre collaboratori domestici. Al contrario del precedente incontro, che si era svolto all’insegna della tensione, qui sembrava prevalere la curiosità, associata, almeno per alcune persone, al disagio dovuto alla consapevolezza di aver perso un buon posto di lavoro, o se non proprio un «buon» posto di lavoro, un posto di lavoro sicuro.
Alcune di queste persone le ho già presentate nelle pagine precedenti, altre no, ma non farò differenze: dirò di tutte quello che mi sembra necessario ed essenziale.
Nello studio del notaio, che pure aveva un lavoro enorme da sbrigare, c’erano solo tre impiegati fissi, gran parte della routine veniva affidata a personale esterno, che lavorava in uno di quegli uffici che un tempo prendevano il nome di pool di dattilografe e che oggi raccolgono unicamente esperti di lavoro al computer.
La persona meno importante dello studio – se si valuta l’importanza della persona tenendo unicamente conto dello stipendio che porta a casa a fine mese – era Domenico, il signor Domenico per tutti, che era stato lì lì per diventare notaio anche lui e poi era miserabilmente inciampato in un paio di errori, magari non particolarmente gravi ma sufficienti a eliminare in lui ogni velleità di progresso sociale.
La storia era antica, il signor Domenico aveva la stessa età del notaio, quasi 70 anni, e i fatti risalivano a quando ne aveva 24 o 25. A quei tempi lavoravano entrambi, per farsi le ossa, nello studio di un noto professionista: Ricci Ribaldi si era da poco laureato in legge; il signor Domenico affermava di essersi laureato, ma in realtà si era inventato di sana pianta gli ultimi esami e aveva invitato gli amici e i parenti a festeggiare una laurea che non aveva mai ottenuto. La causa di quel guaio era tutta da ricercare nella vita sentimentale del signor Domenico: si era fidanzato – proprio così, fidanzato ufficialmente, con tanto di anello e di richiesta ufficiale della mano della ragazza – con la figlia di un uomo molto ricco, proprietario terriero, speculatore, ammanicato con mezzo mondo, molto orgoglioso per essersi «fatto da solo» e aver, sempre da solo, raggiunto i redditi più elevati di tutta la provincia. Questo signore, che chiamerò il signor X, aveva una sola figlia, e naturalmente covava, per lei, tutte le giuste ambizioni che un padre ha diritto di nutrire. Del resto, sentiva sua figlia come cosa sua – non è a caso che ho usato per lui termini come «covava» e «nutrire» – e la considerava come il suo possibile biglietto per entrare in una società che lo temeva, forse lo ammirava, certo lo invidiava, ma si guardava bene dall’aprirgli le porte di casa. Il giovane signor Domenico era figlio di buona famiglia, certo non era ricco – cosa di modesto rilievo, ai soldi ci avrebbe pensato lui – ma sembrava avviato a una carriera molto promettente, che gli avrebbe garantito una solida posizione sociale e una professione quanto mai redditizia. Così, quando il signor X vide che il giovane signor Domenico faceva la ruota intorno a sua figlia, che chiamerò la signorina Y, decise di incoraggiare i due ragazzi e giunse a sollecitare la figlia a dare visibili segni di gradimento: dopo di che, inevitabilmente, le cose si mossero da sole.
La signorina Y era una ragazza carina, non molto intelligente, pigra fino all’inverosimile, abituata a pensare – non si è invano figli di un simile padre – che tutto nella vita si può acquistare. Personalmente non sono sicuro che tutte le figlie degli uomini che si sono fatti da soli siano fatte in questo modo, propendo a pensare che esistano eccezioni, forse non così numerose come qualcuno pensa, ma certamente consistenti. Per la signorina Y, invece, questa era la realtà della vita: e si immaginò il futuro, plasmato secondo i suoi desideri, e questo futuro comprendeva un marito ricco e operoso, una casa bella e accogliente, pochi figli, molte governanti, e tutta la buona società cittadina a ruotare intorno a lei.
Con una responsabilità così grande sulle spalle, il signor Domenico cominciò a fare i primi errori. La fidanzata gli portava via molto tempo, che fu sottratto allo studio: al primo esame andato male, si inventò un 24 timido timido. Gli esami successivi non riuscì a prepararli e i voti se li scrisse direttamente sul libretto. Venne inesorabilmente il giorno in cui la signorina Y – non molto intelligente, ma non stupida – gli fece notare che gli esami, ormai, doveva per forza averli dati tutti e cominciò a chiedergli i motivi per cui rinviava la data della laurea. Così il signor Domenico si laureò (e le camicie che dovette sudare per tenere parenti e ammiratori lontano dall’aula magna dove la cerimonia si sarebbe dovuta svolgere le poté contare solo lui) e cominciò a passare notti insonni perché non sapeva realmente come rimediare al casino che aveva combinato.
Un giorno venne a sapere, in modo molto casuale, che all’Università c’erano un paio di persone che sistemavano i guai simili a quelli in cui si era ficcato, bisognava naturalmente pagare, e poi loro correggevano, modificavano, completavano. Gli sembrò l’unica via d’uscita e decise di prendere contatto con questi potenziali salvatori. Gli fu richiesta, senza alcuna apparente emozione, una cifra spaventosa: il suo contatto fu addirittura così cinico e tanto divertito per la mortificazione che si leggeva sul suo volto da ricordargli che «Parigi val bene una messa». Poiché il signor Domenico questa messa non se la poteva pagare, cercò di trovare i soldi attraverso le sue conoscenze. Non ci riuscì. Truffò uno dei clienti dello studio facendosi dare dei soldi per un investimento che non esisteva e li usò come acconto. Poi tutta la sua costruzione crollò: i falsari dell’Università erano stati controllati dalla polizia per mesi, così che quando furono arrestati venne fuori anche il nome del signor Domenico. Il cliente truffato lo denunciò e lo fece condannare, una pena molto modesta ma sufficiente a rovinargli la vita. Da aspirante notaio e fidanzato di una ricca ereditiera, il signor Domenico si ridusse al ruolo di un pezzente disonesto, abbandonato da tutti, fidanzata inclusa. Il signor X minacciò di farlo bastonare, non è chiaro da chi. La signorina Y si fidanzò – e poi si sposò – con un vero notaio. Il povero signor Domenico trovò consolazione, alla fine di lunghe ricerche, solo nel suo vecchio compagno di studio, il «nostro» Annibale Ricci Ribaldi, che lo assunse, con un salario da fame, e lo vessò per tutta la vita, facendolo lavorare come un cane senza pagarlo mai in modo adeguato. Ma come è uso scrivere nei romanzi di appendice, al signor Domenico «si era spezzato qualcosa dentro», tanto che non sapeva più veder chiaro e non aveva più voglia di reagire e combattere. La soluzione che gli era stata offerta dal notaio Ricci Ribaldi gli sembrò generosa e salvifica, e non discusse mai con il suo datore di lavoro né lo stipendio né il cumulo di impegni gravosi che gli venivano imposti. Possibile che dentro di lui, sotto questo bel po’ po’ di ceneri, covasse il fuoco dell’astio e del desiderio di rivalsa? Certo, possibile, perché no, ma le sorgenti dell’odio sono altrettanto misteriose quanto lo sono state, per tanto tempo, quelle del Nilo, con la differenza che non mi pare esistano uomini come Stanley o Livingstone disposti a rischiare la vita per cercarle.
La signorina Carla aveva da tempo passato i 70 anni, e in realtà il notaio aveva più volte pensato di sostituirla con una ragazza più giovane, ma aveva poi sempre deciso di rinviare il pensionamento perché capiva quanto sarebbe stato difficile trovare una persona con una memoria altrettanto formidabile e una dedizione al lavoro altrettanto totale. Così la signorina Carla aveva continuato a dedicare tutta se stessa a quello studio notarile: la giovinezza le era scivolata di dosso senza quasi che lei se ne accorgesse, lasciandole ricordi penosi e amarezze a non finire, ma lei, una volta entrata nel suo ufficio, aveva sempre avuto l’impressione che il mondo esterno non esistesse più, le pareti la difendevano e al contempo le consentivano di ignorare tutto quello che la aspettava una volta uscita di lì. Fosse stato in lei sarebbe venuta a lavorare anche di domenica, e in ogni caso lei era sempre la prima ad arrivare e l’ultima a uscire, la parte odiosa della sua vita era quella che l’aspettava fuori.
La signorina Carla non era romagnola, era nata in una città toscana, figlia unica di una famiglia piccolo borghese che l’aveva cresciuta senza amarla troppo e riconoscendo in lei, fin da quando era una tenerissima creatura e con sospetto crescente, il possibile germe di una serie infinita di guai. Perché Carla era stata una bambina vivace, una giovinetta vivacissima e una ragazza esplosiva, in aperto contrasto con una madre beghina e ipocrita e con un padre mortificato da frequenti crisi mistiche. A 18 anni Carla prese il diploma di ragioniera, e il padre le trovò subito lavoro in un istituto di beneficienza controllato dalla Diocesi locale. A Carla, che aveva ben altre speranze, quel lavoro non piaceva, così che aveva subito cercato di trovarsene un altro per i fatti suoi. Non fece a tempo, le cose precipitarono: Carla si trovò a lavorare, per alcuni giorni, fianco a fianco con un giovane sacerdote che aveva tutte le doti apparenti di un divo di Hollywood, era bello, simpatico, pieno di humour, colto. Non ebbero neppure il tempo di accorgersene, l’immediata corrente di simpatia che si era subito creata tra loro si trasformò in qualcosa di molto meno cerebrale e spirituale. Dopo meno di una settimana di questa comunione di vita e di lavoro, il prete la baciò. Dopo una settimana di baci, rubati anche nelle condizioni di maggior rischio, dietro a una porta o dentro all’ascensore, Carla ebbe il primo rapporto della sua vita, in piedi, dentro allo sgabuzzino dove le donne delle pulizie tenevano stracci e scope. Non le parve un granché, sentì male, sanguinò un po’. L’incontro si ripeté, tutte le volte che fu possibile, e Carla scoprì che a lei piaceva molto di più parlare a quell’uomo che farci all’amore. Non ebbe il tempo neanche per affrontare quel sentimento – tutto sembrava muoversi con straordinaria velocità – perché seppe con certezza di essere gravida.
Per Carla, questa scoperta non fu, almeno inizialmente, particolarmente penosa: immaginò le conseguenze, che le sembrarono inevitabili, e non le dispiacquero. Il suo amante avrebbe dovuto lasciare la tonaca, questo bisognava metterlo per forza in conto. Avrebbero cercato lavoro entrambi, magari in un’altra città. Certo, ci sarebbero stati grandi cambiamenti, ma quando ci si vuol bene, si sa…
Il prete, però, non reagì nello stesso modo, quando lei lo informò; anzi, diventò molto serio, quasi gelido. Non fece promesse, non parlò dell’avvenire, chiese tempo. Il giorno dopo andò dal suo vescovo e gli confessò il suo peccato. Il vescovo si accertò del suo pentimento, come non è dato saperlo, ma lo fece, immaginatevi un vescovo che non sa come si affrontano certi problemi. In un batter d’occhio il giovane prete si vide catapultato in una lontanissima parrocchia, appena il tempo di lasciare la sua amante, un addio straziante ma, la dio mercé, rapidissimo. I genitori di Carla furono convocati dalla Curia, ebbero una lunga discussione con un vecchio prelato, che chiese loro di dimostrare compassione e di mostrarsi capaci di perdono: si dimostrarono invece inesorabili, quella ragazza doveva lasciare la loro casa, non era più la loro figlia, lo sventurato bambino che sarebbe nato da quella orribile colpa non sarebbe mai stato il loro nipote. Carla, confusa, rassegnata, trascorse tutto il periodo della gravidanza in una casa per ragazze madri, amministrata da suore in apparenza molto pietose, in realtà di scarsissimo garbo. Quando ebbero inizio le doglie, fu accompagnata alla maternità e ricoverata in una sezione speciale (sulla grande vetrata d’ingresso c’era scritto «Reparto Occulte», proprio così, maiuscolo-maiuscolo) dove partorivano le ragazze come lei. Solo dopo averlo preso in braccio per la prima volta – un maschio, bello a vedersi, molto simile al padre – Carla capì cosa tutti si aspettavano da lei: che non volesse «essere nominata», che lasciasse il bambino a disposizione di qualche coppia sterile per una adozione. Quando lo capì, si rivestì, firmò la cartella clinica, prese il piccolo e lo andò di persona a denunciare all’anagrafe. Poi si fece prestare un po’ di denaro dalle sue amiche, prese un treno qualsiasi e lasciò la città, senza la più pallida idea su dove si sarebbe fermata. Il fatto di arrivare fino alla nostra città fu dovuto al caso, aveva cercato di non fare un viaggio troppo lungo per via del costo del biglietto. Anche il lavoro dal notaio lo trovò per caso, a lei bastava poco, si accontentava, questo al notaio andò molto a genio. All’inizio pensava che si sarebbe fermata poco, in quella città e in quello studio. Poi cominciò a sentirsi bene, e di partire non le venne più nessuna voglia. Crebbe il bambino come poteva e come sapeva, cioè piuttosto male. Comunque riuscì a farlo studiare e lo tenne con sé fino a quando compì i 20 anni. Poi il ragazzo partì per il servizio militare e le scrisse un paio di volte da posti diversi e lontani. Nell’ultima lettera le accennava a un viaggio molto lungo, voleva emigrare, forse l’Australia. Non le scrisse più. Ah, sì, un giorno, per caso, ebbe notizie del padre del bambino: aveva gettato la tonaca, si era fatto una famiglia, aveva – così le dissero – una vita serena.
Questa è la storia di Carla. È anche bene sapere che aveva deciso da molto tempo di aprire il gas il giorno in cui avesse perso il suo lavoro.
Se Carla era innamorata del lavoro, non c’era dubbio che Egle, la donna che era a capo del personale, era innamorata del notaio. No, non c’è errore, non «era stata», «era» innamorata del notaio, tanto che lei sola stava soffrendo per la sua morte. Ai tempi in cui Annibale Ricci Ribaldi era ancora un bravo ragazzo di famiglia che ogni tanto portava a casa le sue occasionali morose per farle conoscere a sua madre, Egle aveva nutrito qualche speranza di veder ricambiata la propria passione, perché di una vera passione si era trattato. Egle frequentava allora l’Università, con l’impegno di laurearsi rapidamente in legge, trovare un impiego il più presto possibile e consentire a sua madre – vedova da anni, che l’aveva tirata su con molta fatica e tanti sacrifici – di tirare un po’ il fiato. Perché si fosse innamorata di Annibale, che da giovane assomigliava più che mai a un ragno dei fumetti, difficile dirlo, l’amore è un altro dei tanti misteri che senza volerlo sto elencando in questo libro. Ma andò così, si innamorò e, in pratica, lo sedusse. Annibale non era uomo di gusti sessuali «normali», sedotto che fu, resosi conto dell’amore che la ragazza provava per lui, abusò di lei in tutti i modi che la sua mente, più fantasiosa che perversa, riusciva a elaborare, e lei si sentiva, lasciando quel letto, sporca e colpevole, e più si sentiva sporca e colpevole e più si innamorava, una bella coppia davvero. Poi Annibale si stancò e le disse, piuttosto brutalmente, che la cosa per lui finiva lì, ma che l’amicizia, beh, quella potevano continuare a coltivarla. Lei si attaccò a quella amicizia come l’edera al tronco, mendicando di tanto in tanto qualcosa di più, piccoli segnali di affetto che si erano rarefatti col passare del tempo. Si laureò e gli chiese di poter lavorare per lui, e Annibale accettò di assumerla solo dopo aver capito che si sarebbe accontentata di un modesto salario. Divenne, piano piano, la sua unica confidente, la sola che avesse accesso a tutte le sue carte, che conoscesse i suoi affari privati, che potesse salire nell’appartamento del piano di sopra ogni qual volta lo desiderava. Quando sua madre morì, provò un senso di sollievo, aveva sempre coltivato la speranza di poter ricevere Annibale a casa sua, continuava a immaginarlo mentre apriva la porta con la chiave che gli aveva lasciato in bella vista sulla scrivania, e che poi… Lui non era mai venuto, probabilmente non si era neppure accorto della chiave, eppure a lei tante volte era parso di sentire quel rumore, e invece… Col passare del tempo questo sogno aveva cominciato a svanire, fino alla completa rassegnazione, coincisa con l’arrivo della menopausa, lei sapeva bene cosa pensava il notaio delle donne in climaterio, prugne secche le chiamava, inutili e fastidiose. Solo nei primi anni, quando ancora era molto giovane, aveva avuto il privilegio di potersi inginocchiare ai suoi piedi, dietro alla grande scrivania, per una fellatio, ma anche questo diritto le era stato ben presto sottratto, lui aveva avuto altre avventure, poi si era sposato. Comunque Egle non si era mai veramente rassegnata e aveva continuato a considerare le confidenze e gli incarichi delicati che le venivano assegnati come un segno del persistente interesse di lui. Adesso, mentre aspettava che il Questore scendesse nello studio, si sentiva morire di dolore, ma riusciva a contenersi, non si sarebbe mai umiliata davanti al personale dell’ufficio e alla servitù, chi se ne sarebbe dispiaciuto per primo sarebbe stato certamente il povero notaio. Che, in qualche modo, morendo, le aveva affidato questo ultimo, delicatissimo incarico, salvaguardare la loro dignità.
Le persone che si occupavano dell’appartamento del notaio, in realtà, erano quattro, ma una di loro era a letto con una brutta influenza e non si faceva vedere da giorni. Erano scese invece le due sorelle, l’Anna e la Paola, due ragazze giovani, bruttine, alle quali della morte del notaio non dispiaceva un granché, avevano già avuto altre offerte ed erano in ogni caso decise a cambiar lavoro con l’anno nuovo. La persona di maggior spicco era invece la governante, Zaira, un donnone di poco più di 40 anni, che lavorava per il notaio da quasi tre lustri e con il notaio si era sempre trovata molto bene, proprio molto bene. La Zaira era stata una gran bella ragazza, piuttosto grande e grossa, ma tanta, proprio tanta, e nelle balere, nel paese di campagna nel quale era nata, aveva spopolato. Figlia di contadini, conosceva la fatica del lavoro dei campi e i sacrifici, le rinunce che bisogna fare se si decide di dedicarsi al lavoro della terra, così – come molte sue amiche – aveva deciso che un contadino non se lo sarebbe mai sposato. Dalle sue parti, questo era un problema piuttosto serio, i giovani contadini non trovavano più ragazze che accettassero di sposarli, nessuna di loro sembrava disposta ad accettare una vita che cominciava alle cinque del mattino e si concludeva all’ora in cui vanno a dormire le galline, niente cinema, niente ballo, solo fatica. Il paese era già nella lista di un paio di sensali di matrimoni che organizzavano le «corriere dell’amore» per portare, dalla Sicilia e dalla Calabria, le ragazze che da quelle parti nessuno voleva più, perché erano troppo vecchie o troppo chiacchierate, e farle sposare, con la benedizione dei due parroci, quello romagnolo e quello meridionale, agli zitelloni del paese. La Zaira sapeva cosa significava diventare una ragazza dai «piedi rossi», essere oggetto di scherno, subire umiliazioni come quella della fasulera, tornare a casa e scoprire che davanti alla soglia avevano rovesciato una mezza sporta di fagioli secchi. E di ragazze dai piedi rossi ne conosceva tante, ragazze che avevano rincorso un marito per anni e poi si erano ritrovate, una bella sera, ad avere i piedi rossi come le galline più vecchie, o come le donne anziane quando hanno ballato troppo. Così, dai e dai, finalmente la Zaira aveva incontrato l’uomo buono, un operaio che andava a ballare nei locali di campagna perché si diceva che lì c’era sempre del buono da prendere su. Lei l’uomo giusto lo aveva acchiappato utilizzando quel tanto di astuzia femminile, prodotta nei secoli da tante donne diverse, che aveva assorbito senza accorgersene e che, forse, aveva anche ereditato, così come si ereditano i memi, senza dover per forza disturbare Mendel, e che si rivelò determinante: concesse all’uomo – attratto in modo impressionante dalle sue grazie formose – in progressione saggiamente calcolata una certa quantità di favori, ma gli negò sempre l’ultimo, quello al quale l’uomo in verità aspirava. Quando la osservava mentre si rivestiva, dopo aver trascorso un paio d’ore, a letto con lei, in completa nudità, senza mai riuscire a farle aprire le gambe, dovendosi accontentare di una sessualità minore, diciamo così, periferica e superficiale, lui la odiava cordialmente. Ma appena lei era uscita dalla stanza, dopo averlo baciato con un grande schiocco di labbra, già cominciava a desiderare di averla ancora lì, con lui, disposto anche ad accettare solo le briciole di un pasto che doveva essere – ne era certo – luculliano. Così alla fine l’aveva sposata e l’aveva portata a vivere in città, a scoprire che la vita di una famiglia di operai non era così diversa da quella di una famiglia di contadini.
Alceo, il marito della Zaira, era un brav’uomo, che si rivelò progressivamente sempre più innamorato e sempre più geloso. Dopo qualche anno scoprirono di non riuscire ad avere bambini, e la Zaira cominciò ad annoiarsi e decise – ignorando le proteste del marito – di cercarsi un lavoro. Qualcuno l’aveva portata dal notaio, che cercava in quei giorni una governante, per sostituire la sua che si era appena sposata. Il notaio si entusiasmò nel vedere tutta quella carne e le offrì un salario molto più alto di quanto fosse logico aspettarsi, ma lui era fatto così. La Zaira accettò, ma mise le sue condizioni. Se il lavoro esigeva che lei vivesse nella casa del padrone almeno alcuni giorni alla settimana, avrebbe passato a casa sua anche la notte del venerdì e avrebbe avuto i week-end liberi. Colto da una crisi di inusuale magnanimità (in realtà sempre più impressionato da tutta quella carne) il notaio accettò. Alla Zaira il notaio piaceva, le era simpatico, con tutta quella voglia di scoparla che gli si leggeva negli occhi; le andava anche molto bene il lavoro, due donne che lavoravano per lei, un solo uomo da accudire – parcudì, era l’espressione che la Zaira usava, alla romagnola – e una paga più alta di quella del marito. Sapeva che le cose non sarebbero andate sempre così lisce, ma si impose di essere paziente e ragionevole. Il problema esplose un mattino in cui gli stava rassettando il letto, lui era in bagno, le ragazze stavano lavorando altrove. Le arrivò silenziosamente alle spalle, lei sentì le sue mani quando ormai le aveva sollevato la gonna. La Zaira decise di lasciar fare e non si mosse. Lui le abbassò le mutandine e, bisogna riconoscere, con qualche maestria, la prese, come e dove Zaira non lo ha mai detto a nessuno. Lei aspettò pazientemente che lui finisse di grugnire, andò in bagno, si rassettò, e rientrata nella stanza si piazzò davanti al notaio, a gambe un po’ larghe, i pugni sui fianchi, e gli disse: «Signor padrone, io ho un marito grosso e geloso, che se gli dico quello che è successo, lei l’ammazza, cosa fa a me non lo so. Questa cosa è successa, e va bene. Ma io non ho bisogno di lei, mio marito mi avanza, e se volevo fare la puttana, facevo la puttana, non ci sono molti modi per fare la puttana. Ammetto che qui sto bene. Ammetto che lei mi paga bene. Ammetto anche che a vivere sotto lo stesso tetto vengano delle voglie. Le faccio una proposta: se le vengono delle voglie, ok, dico, una volta ogni tanto, me lo dica e io vedrò cosa si può fare. Ma il sedere e la passera sono di mio marito». La Zaira era fatta così e la pensava così, il notaio lo capì e accettò quelle regole. Così accadeva – raramente, come aveva chiesto lei – che il notaio si risvegliasse al mattino con un’erezione, più da prostata ingrossata che da fantasie sessuali, e che la Zaira entrasse con la colazione. Lui sollevava le lenzuola e lei metteva il vassoio sul comò. Così andavano le cose in quella casa.
Adesso la Zaira era l’unica che piangeva, non che avesse la lacrima facile, né che fosse poi tanto affezionata al suo padrone, né tampoco che immaginasse di rimpiangere quelle prime colazioni: si chiedeva semplicemente dove avrebbe mai potuto trovare un lavoro così ben pagato. Ormai a quei soldi si erano abituati lei e il marito.
«Bene – disse il Questore, dopo che i presenti si erano tutti presentati, nome e ruolo, come nell’esercito, – vi dico subito che questo è un incontro ufficioso, niente di quello che ci diremo…».