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Proverbio, distrutto dalla stanchezza dopo aver fatto i primi passi senza sostegno alcuno, stava immaginando di potersi addormentare serenamente – contava su un pisolo di un’oretta – quando fu avvisato dalla sua infermiera personale che c’era un suo amico, tale Anchise, che voleva vederlo. Ne fu sorpreso, perché prima di farsi operare aveva molto chiaramente espresso, ai suoi amici e conoscenti, la sua profonda antipatia per le visite ospedaliere, un sentimento che, come ricorderete, aveva radici antiche e piuttosto solide. Anchise, poi, non lo vedeva da tempo, dopo la morte della moglie si era praticamente chiuso in casa, era piuttosto strano vederselo arrivare adesso, proprio nel momento in cui non avrebbe voluto incontrare nessuno. Tranne naturalmente Primo.

A questo punto del racconto, sono costretto a ritornare al problema della superstizione di Proverbio, una cosa che a lui, so per certo, dispiacerebbe moltissimo che fosse risaputa, soprattutto nei circoli che è abituato a frequentare: e vorrei che fosse subito chiaro a tutti che io sono un fraterno amico di Proverbio, siamo quasi coetanei, abbiamo giocato insieme da bambini, non vorrei dispiacergli per nessuna cosa al mondo. È però giunto il momento di dirvi che Proverbio non è solo superstizioso, è uno degli uomini più superstiziosi che viaggino per la Romagna, una regione che di uomini superstiziosi ne ha sempre conosciuti tanti. La differenza con gli altri sta nel fatto che Proverbio se ne vergogna profondamente ed è costretto a fare carte false perché nessuno se ne accorga. Nella sua vita, solo per fare un esempio, non ha mai messo il cappello sopra a un letto e non ha mai ucciso una serpe; da quando è ricoverato in ospedale, ha ripetuto tutte le sere la medicazione dell’infermiera, avendo cura di muovere un immaginario batuffolo di cotone dal centro della sutura chirurgica verso la periferia e oltre i margini del suo addome, per allontanare la malattia. Un po’ del suo ottimismo, lo deve al fatto di non aver mai sentito, alla sera, prima di addormentarsi, una voce che lo chiamava, il segno che non era ancora giunta la sua ultima ora. La lista delle superstizioni nelle quali Proverbio credeva fermamente, si poteva scrivere, con caratteri molto piccoli, su un lenzuolo: ma la cosa che più di ogni altra lo angustiava era incontrare i portatori di sventura e Anchise, il povero Anchise, tra tutti i portatori di sventura era forse quello maggiormente qualificato.

Proverbio non era uomo da credere alle voci popolari così, senza uno straccio di prova: ma nel caso di Anchise, purtroppo, la prova esisteva, ed era una di quelle che non si possono ignorare. Anchise era stato visto mentre faceva la pèdga tajèda a un contadino che lo aveva accusato di non si sa bene quale malversazione e col quale aveva avuto una seria baruffa. Ora, la pèdga tajèda, l’impronta del piede tagliata, non era una di quelle malie che si possono fare con la certezza che nessuno ti veda: si tratta di seguire la vittima e togliere un po’ di terra smossa dalle sue impronte per i primi cento passi, di raccogliere tutto il terriccio in un sacchetto e… Ma cosa ve lo racconto a fare, queste sono cose ben note, come è perfettamente conosciuto l’orribile uso che si può fare della terra di quel sacchetto. La conseguenza di quella stregoneria era stata, tutti lo sapevano, che il povero contadino si era ammalato di una brutta malattia che se l’era portato via in poche settimane, una malattia senza rimedio, l’aveva detto anche il medico quando aveva saputo che le rondini avevano abbandonato la sua casa (come quando c’è il colera, aveva commentato il dotto professionista). E adesso, Anchise era proprio lì, davanti a lui.

Proverbio era stato colto completamente alla sprovvista, la moneta da un soldo gobba (avuta in eredità da suo padre) era, con le due castagne secche, nella tasca dei pantaloni, chissà dove; trovare un po’ di erba dell’invidia da quelle parti, figurarsi; Proverbio, ateo ortodosso, ma per niente stupido, si fece il segno della croce con la mano stanca, quella cattiva, sull’ombelico, infilò la mano «dritta» sotto il pigiama e se la mise sui genitali. «Come sono diventati piccoli – pensò – chissà se servono ancora». Il riferimento, naturalmente, riguardava il malocchio.

In realtà Anchise non era venuto per lui, era venuto perché non si arrischiava ad affrontare direttamente Primo, e così…

Anchise, come ricorderete, era il nonno del giovane avvocato che si era fidanzato con Veronica, la figlia del povero notaio. Aveva visto arrivare a casa il nipote molto agitato per quello che stava capitando alla famiglia della morosa. Lui si era fatto raccontare bene i fatti e immediatamente aveva associato il nome del Questore a quello di Primo, si sapeva che erano grandi amici, c’era anche una vecchia storia di quando avevano giocato a Sherlock Holmes e al dottor Watson, e in quel caso il ruolo di Watson lo aveva interpretato Macbetto. E chi era il miglior amico di Primo? Certamente lui, Proverbio, e allora era corso in ospedale per riferirgli quello che sapeva, perché lui, a sua volta…

E Proverbio, che comunque era un uomo premuroso con tutti gli amici, ma che questa volta era soprattutto molto preoccupato all’idea di non riuscire a mostrarsi abbastanza utile a quel pericoloso individuo, pur consapevole che a Primo di questa storia non gliene fregava proprio niente, si accinse ad ascoltarlo.

Il buon Anchise, da quando suo nipote si era laureato, aveva smesso di parlare in dialetto, per cercare di adeguarsi e perché il nipote non avesse a vergognarsi di lui. Certo il suo italiano non era granché, ogni tanto si incagliava in una parola, non gli consentiva la stessa barlòca… come si dice… ah, la stessa parlantina di quando andava in giro per le campagne a fare il suo lavoro. Comunque, malgrado qualche sfondone, si arrangiava.

«Da quel che ho capito – raccontò a Proverbio – la famiglia della morosa di mio nipote è sempre stata un po’ sgombiata, disordinata, niente di straordinario, chi non ha le sue beghe in famiglia? Qui le beghe stavano nel rapporto fra la madre e i due ragazzi e il notaio, un rapporto del tutto inesistente, l’unica a mantenere relazioni col padrone di casa era sempre stata una certa Palmira, qualcosa di più di una cameriera e qualcosa di meno di una cugina povera, che andava su e giù tra i due appartamenti e si occupava delle due amministrazioni separate. Il notaio assicurava alla famiglia tutte le spese di vitto e alloggio, che pagava direttamente, e in più dava alla moglie il necessario per coprire anche le spese dei due figli, cinquemila euro al mese, diecimila per Natale, mettendo i soldi direttamente nel conto corrente della moglie in banca. Qui c’è il primo imbroglio: cinquemila euro, senza dover pensare alle spese di vitto e alloggio e con il personale già pagato non sono pochi, dovrebbero bastare a vivere una vita senza pensieri. E invece no, sembra che non bastassero per niente, malgrado fossero tutti molto parsimoniosi, così che non c’erano mai soldi per un vestito nuovo o per una vacanza niente niente godereccia, e la ragazza non vedeva l’ora di sposarsi e andare via di casa perché tutte quelle ristrettezze le erano diventate insopportabili».

E poi c’era quella Palmira, che certamente non aveva la testa tutta a casa, suo nipote l’aveva vista parlare da sola, faceva scenate alla signora Maria Teresa, che sembravano quelle di un’amante gelosa, e un attimo dopo si sdilinquiva in baci e abbracci e tenerezze, un giorno chiacchierona, un giorno solitaria. Ma un po’ apprezzata e un po’ temuta da tutti, senza una buona ragione, né per apprezzarla, né per temerla. Adesso poi, la morte improvvisa del notaio sembrava aver sconvolto tutti, anche più di quello che era logico attendersi, in fondo né la madre né i figli avevano affetto per quell’uomo. E per colmare la misura, il sospetto che non si trattasse di morte naturale, e in più le chiacchiere della gente, che il notaio aveva scoperto delle cose tristi, sai com’è la gente qui, ormai sembra sicuro che le donne si prostituivano e che il figlio era un brigatista.

«Il mio ragazzo è spaventato, non sa come fare a portare fuori la morosa di lì. Mi chiede di dirti che c’è sicuramente un problema di soldi da chiarire e che qualcuno, in quella casa, tiene per sé una cosa che sarebbe bene diventasse di dominio pubblico. Vorrebbe parlarne a Primo, ma non lo conosce».

Ecco, aveva detto tutto, una gran sudata. Proverbio poteva fare, a questo punto, una cosa sola: prese dal comodino il telefono cellulare che Primo gli aveva imposto e quando sentì la voce dell’amico ci urlò dentro qualcosa come «devo parlarti». Dall’altra parte si sentiva la risata di Primo: «Non è che se il telefono è piccolo tu devi parlare a voce più alta» rispose. Ma gli assicurò che sarebbe arrivato in ospedale appena sbrigata una certa cosa.

 

La cosa che Primo stava cercando di sbrigare – con molte, molte difficoltà – riguardava ancora Maria e la sua avventura con il medico porcaccione. L’incontro con Forlivesi aveva rassicurato la ragazza, che ora aveva smesso di pensare a se stessa come a una lebbrosa, ma poi piano piano la rabbia era tornata a farsi viva e ora Maria non era più certa di voler tenere la cosa per sé. Ne aveva parlato al suo confessore, ricevendone in cambio un gran bla bla di chiacchiere, le parole più consumate erano state perdono e carità cristiana e all’uscita dal confessionale la sua irritazione era di gran lunga superiore a quella che provava entrandoci, tanto che ancora una volta aveva pensato di cambiare religione, Valdesi e Testimoni di Geova erano dati alla pari.

«Non puoi cambiare religione solo perché il tuo prete ti è antipatico, e poi qui vicino di chiese protestanti non ce n’è. Pensa alle bambine, immagina che confusione. Penserebbero che la Madonna non è più vergine perché don Lucio è antipatico. Bella roba. Semmai c’è una cellula di atei… No, scherzo, non t’arrabbiare, Dio esiste. Anzi, siccome lui non li considera nemmeno, sono gli atei che non esistono».

Di queste conversazioni, Primo e Maria ne avevano due alla settimana, una soluzione andava cercata, cambiare parrocchia, far rimuovere don Lucio per scarsa conoscenza del latino… Intanto il problema da risolvere subito era quello di una possibile denuncia ai carabinieri: il giorno così e così, alle ore così e così, un noto e prestigioso docente universitario del quale vorrei tanto poter evitare di fare il nome si è accanito sul corpo di mia moglie Maria con una serie di atti osceni, la cui esatta natura non sono però in grado di esplicitare in quanto la prefata moglie Maria non me ne vuole parlare. Un successo garantito.

Maria, dal canto suo, era una donna di animo semplice che diffidava della giustizia degli uomini – e in particolare di quella degli italiani – mentre provava una forte propensione per la rivalsa personale, quella che le persone che non hanno mai subito torti chiamano con disprezzo vendetta. Quell’uomo terribile e volgare le aveva fatto delle brutte cose, non vedeva come fosse possibile negare questa realtà, le aveva fatte a lei e lei non era abituata a dire bugie. Scendere in particolari, non solo era superfluo, ma anche disgustoso, e comunque erano fatti suoi. Dunque quell’uomo meritava una punizione e una punizione severa, non capiva perché se ne dovesse discutere.

Primo capì che, o la trappola delle registrazioni funzionava, o lui si sarebbe trovato in un mare di guai. La trappola, sempre ammesso che funzionasse, doveva scattare quello stesso pomeriggio. Primo elencò dentro di sé le possibili cause di un insuccesso: solo pazienti maschi; solo pazienti brutte; un forte calo di desiderio, per stanchezza o per cattivo umore. Era proprio nelle mani del fato. Così si avviò, rassegnato, a sentire cosa accidenti voleva Proverbio da lui, ammesso che volesse qualcosa e non lo avesse convocato solo per dargli lezione di romagnolo antico.