Il notaio Annibale Ricci Ribaldi non poteva proprio immaginare che quel giorno, il giorno del suo sessantanovesimo compleanno, sarebbe stato anche l’ultimo giorno della sua vita. Forse, se l’avesse saputo, avrebbe cambiato abitudini, almeno per una volta, e non sarebbe sceso in studio, alle nove precise del mattino, come era sua consuetudine da quasi quarant’anni: ma se non fosse sceso in studio, quello non sarebbe stato, con ogni probabilità, l’ultimo giorno della sua vita. Dunque, ignorando il proprio destino – com’è giusto e misericordioso che sia – il notaio Annibale Ricci Ribaldi andò a sedersi al suo tavolo d’ufficio, per l’ultima volta, anche quella fredda mattina di dicembre; diede alcuni brevi ordini a una delle due segretarie (all’altra, d’abitudine, non rivolgeva parola), si sedette nella sua solida, comodissima poltrona (la stessa da quasi quarant’anni) e cominciò a sbrigare il lavoro quotidiano, appuntando su un enorme brogliaccio tutte le cose che faceva, lettere lette, lettere scritte, documenti corretti, documenti firmati, telefonate fatte e ricevute. I clienti sarebbero arrivati, come sempre, più tardi.
Il notaio Annibale Ricci Ribaldi è certamente il personaggio chiave di questo racconto, ma è destinato ad essere un protagonista attivo solo per poche ore, essendo il suo destino segnato dal momento del suo ingresso in studio, poche ore e poi, puff, la morte se lo porterà via. È dunque necessario – ma anche utile e opportuno, nell’economia di questo racconto – parlare di lui «vivo», o se volete di lui «prima». Anche perché, solo conoscendo il «prima», il «dopo» di questo racconto avrà un senso.
Cominciamo con il nome, di Ricci in Romagna ce ne sono tantissimi, di Ricci con un secondo cognome aggiunto, tanti. La storia di quel secondo cognome è nota, ai tempi dello Stato Pontificio un tale di nome Ricci aveva commesso un delitto, uccidendo un alto funzionario della polizia, e molti suoi omonimi, per prendere le distanze dall’assassino, avevano chiesto e ottenuto di aggiungere al proprio cognome quello della madre. Nel caso di Annibale, però, la cosa non era del tutto chiara, molti avevano insinuato che non si trattasse di Ribaldi cognome, ma più semplicemente di ribaldi aggettivo, e che in realtà il notaio discendesse proprio dai Ricci assassini, una sorta di associazione a delinquere che era stata molto attiva nell’ottocento.
Cognome o aggettivo che fosse, restava comunque il fatto che la famiglia Ricci Ribaldi si era fatta onore, almeno a partire dai primi del novecento, quando il nonno di Annibale era stato, anche se per un breve periodo, sottosegretario in uno dei governi Giolitti. Il padre di Annibale, che di professione avrebbe dovuto essere medico, aveva molto speculato in case e terreni, proprio nel periodo in cui la piccola città romagnola si stava espandendo, e aveva saputo superare senza particolari danni anche un processo per collaborazionismo. Era a lui che si doveva l’acquisto del bel palazzo settecentesco nel quale, ora, Annibale viveva e lavorava, amministrando anche con saggezza – troppa, dicevano in molti – il cospicuo patrimonio che aveva ricevuto in eredità quando era ancora piuttosto giovane, poiché il padre era scomparso prematuramente in circostanze, diciamo, particolari.
La città – piccola, provinciale, particolarmente affezionata al pettegolezzo – era stata appena scossa da uno scandalo, uno di quegli eventi che rallegrano i salotti buoni per almeno un anno e che, in ogni caso, entrano a far parte della «historia civica», generalmente povera di eroi positivi. Il giovane marchese Tesorieri era improvvisamente scomparso, nel senso che una sera non aveva fatto rientro nella sua antica dimora dalla quale era uscito all’imbrunire per una breve – almeno così supponevano la moglie e i famigli – passeggiata. Alle prime era sembrata una storia poco verisimile – nessuno lo aveva visto, nessuno si ricordava di averlo incontrato, tanto che la polizia – escluso che ebbe il ratto e l’omicidio – aveva cominciato a indagare, con molta cautela, sulla sua vita privata. La famiglia era persino ricorsa a un poliziotto privato, e l’anziana madre aveva fatto arrivare dalla città una famosa medium, alla quale si doveva il ritrovamento – così si diceva – di un numero incalcolabile di persone e di oggetti smarriti. Fu a uno dei suoi compagni di bagordi (si fa per dire, si trattava al massimo di qualche sbronza e di qualche serata nelle case di tolleranza delle città vicine) che venne in mente di controllare se per caso non era scomparsa anche la Tudina, ragazza di costumi non difficili che con il marchese aveva, da qualche tempo, comunione di vita serale. E così, dopo aver preso qualche informazione, riuscì a scovarli, in una piccola casa colonica che il marchese aveva affittato per uso personale, morti entrambi per l’esalazione del gas di una stufetta che avevano imprudentemente tenuto accesa, ancora abbracciati, tutti nudi, in un letto che si era riempito di topi che subito si dimostrarono molto restii a rinunciare a un pasto così ricco. Non era finito il primo mese di chiacchiere che si verificò la scomparsa del padre di Annibale, un evento «fotocopia» che indusse subito un grande sgomento nei familiari, che temevano – ahimè, quanto giustamente! – che si stesse ripetendo il dramma dei due amanti uccisi dall’ossido di carbonio. Le ricerche questa volta furono più brevi, tutti sapevano di chi era l’amante il buon dottore e dove i due peccatori si rifugiavano per i settimanali congressi della carne: in più, il padre di Annibale sacrificava a Venere sempre nello stesso giorno della settimana, e il giorno corrispondeva; da ultimo, i suoi migliori amici, che conoscevano quasi tutte le sue abitudini, sapevano dell’esistenza di una stufetta considerata da tutti molto pericolosa, ma che il dottore non aveva mai sostituito per pura pigrizia. La tragedia era anche più ghiotta – per il palato cittadino – di quella precedente, perché oltre alla notorietà dell’amante maschio c’era quella della donna, moglie molto chiacchierata di un proprietario terriero, noto ai più come «Panìr», paniere, allusione non tanto forbita al paniere di lumache, che per i romagnoli è il luogo dove si può radunare contemporaneamente il maggior numero di corna.