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La notizia dell’infortunio nel quale era inciampato il professor Reggiani si era rapidamente diffusa per la città, e ognuno naturalmente l’aveva interpretata a suo modo. Maria, che aveva una fiducia smisurata nelle capacità del suo sposo di risolvere anche le situazioni più complicate, rientrata in casa dopo aver accompagnato le bambine a scuola, era andata da Primo, gli aveva schioccato un rumoroso bacio su una guancia e gli aveva sussurrato un affettuoso «grazie» all’orecchio. Poi, del tutto soddisfatta se ne era andata in cucina a preparare il pranzo. Primo, che già aveva le paturnie per i fatti suoi, non aveva capito assolutamente le ragioni per cui Maria lo stava ringraziando, ma gli era sembrato educato ricambiare il bacio e rispondere «prego», con una invisibile punta di irritazione. La ragione delle paturnie era dovuta al fatto che non trovava più la cassetta, e che gli era per un attimo passato per la testa, fantasia orribile, l’immagine delle bambine che se la spassavano un mondo guardando il dottore che faceva chissà quali sconcezze.

Maite stava entrando in casa proprio in quel momento, in ritardo come sempre, e come sempre inconsapevole di essere in ritardo. Sembrava di ottimo umore, e così Primo si arrischiò a rivolgerle il quesito fatale.

«Non hai mica visto in giro una cassetta con un bollino rosso sopra?».

«Sì, seguro, che ho proprio visto la caseta» Maite inciampava ancora nelle doppie.

«E dove l’hai vista?». Primo era davvero trepidante.

Maite non si ricordava proprio come mai se l’era trovata in mano. Però ricordava con esattezza dove l’aveva messa, forse era ancora lo stesso posto.

«Nel cassetto più alto dell’armadio, con le chiavi».

«L’hai guardata?».

Questa domanda confermò quello che Maite pensava degli italiani, brava gente, un po’ stupida. Come avrebbe potuto tenerla in mano, anche solo per pochi minuti, senza guardarla?

«Certo che sì».

«E chi altri potrebbe averla guardata?».

Chissà perché quest’uomo si agitava tanto, si chiese Maite. Cercò di rassicurarlo, sembrava così ansioso di sentirsi dire che la cassetta non l’avrebbe vista solo lei. «Credo un po’ tutti. Sicuramente».

Primo cominciava a capire che tra lui e Maite si frapponeva una fase di intensa incomprensione.

Cercò di riprendere in mano la conversazione.

«Ad esempio, le bambine l’hanno guardata?».

«Non credo, mi pare di no».

«E Maria?».

«Non so, mi pare di no».

«E chi l’ha guardata?».

«Io – Maite cominciava a scocciarsi, – per forza, io sicuramente».

«E cosa conteneva, cosa ci hai visto?».

«Non lo so, pensavo lo sapessi tu». Adesso si era veramente rotta le scatole, e con la stizza le ritornava un po’ di memoria. «Forse devi chiedere a Pavolone, me l’ha data lui».

Adesso le cose si facevano più chiare. Pavolone, la forza della natura. Ma perché, poi…

«Senti Maite, non è che tra te e Pavolone…».

«No – rispose Maite, un po’ sorpresa da quel brusco cambiamento di soggetto. – Però mi guarda sempre. Come un pecoro».

E senza più ascoltarlo, Maite se ne andò in cucina, a cercare Maria. Aveva molte cose da raccontarle: l’herpes, che era una malattia che andava e tornava e faceva molto male. Il medico che l’aveva visitata e poi aveva perso la testa, a lei succedeva spesso, ma sapeva sempre come metterli a posto, questi fanatici. Pavolone che faceva il pecoro. Era proprio vero, la sua vita era come un romanzo che si scriveva da solo, giorno dopo giorno.