Primo aveva dovuto spiegare a Veronica Schiassi, fino ai dettagli più insignificanti, la storia della cassetta, e perché l’aveva lasciata lì, e perché ci aveva messo il bollino rosso, e perché Pavolone se l’era andata a guardare, e come era fatto Pavolone, e come era fatta Maite. Le aveva fatto vedere la cassetta, che dopo la terza volta che se la sorbiva aveva perso le attrattive sessuali – il sedere di Maite gli aveva fatto inizialmente qualche effetto – per mantenere unicamente le sue connotazioni ridicole – il vermone giallastro che faceva capolino dal camice del dottor Reggiani sembrava messo lì da Marziale. La Schiassi dapprima si era dimostrata incredula, poi aveva dato qualche segno di irritazione, infine si era messa a ridere anche lei.
«Possiamo aspettarci qualche vendetta, o anche solo un esposto da quello lì?», chiese Veronica.
«Ho portato una copia della cassetta in Questura, sai che Macbetto è un amico. C’è una pratica aperta su Reggiani, hanno ricevuto delle lettere anonime. Se fossi in lui porterei un cero alla Madonna dei Sette Dolori, Pavolone può fare di peggio».
Si trattava di decidere se dire o non dire a Maria come erano andate realmente le cose. Primo decise di non fare niente. Lui ne era uscito con un alone di eroismo, Primo, detto Terzo, il vendicatore, e Maria non sempre apprezzava le smentite. Quanto a Pavolone, aveva i suoi guai da risolvere. Per la prima volta in vita sua si era fatto una vera fidanzata, o se volete, una fidanzata quasi vera, e la prima cosa che lei gli aveva detto, dopo averlo polverizzato col sesso, era che lei aveva degli altri uomini, e che prima di lasciarli voleva avere le idee chiare su cosa le poteva offrire lui, Pavolone. Pavolone, che aveva ben poco da offrire, si era rivolto per aiuto a Primo, il quale aveva preso qualche tempo per riflettere, perplesso su quello che poteva convenire a Pavolone, una delusione grande subito o una delusione molto grande tra un po’. Scelta non facile, Pavolone aspettava come un gatto tenuto fuori dalla porta, addolorato ma non sconfitto.
Preannunciato da una telefonata del nonno Anchise, intanto, era arrivato Antero Silvestrini, il fidanzato della Veronica, non la Schiassi, l’altra, la figlia (forse) del notaio. Che cosa volesse da Primo non era chiaro, forse voleva solo sfogarsi, le sue ultime disavventure lo avevano molto provato: si era fidanzato con una ragazza di buona famiglia, e si era trovato coinvolto – c’è poco da dire, un certo coinvolgimento era innegabile – in una storia di corna che da un momento all’altro si poteva trasformare in un vero e proprio giallo. Antero, legalitario fino al midollo delle ossa, avrebbe voluto farsi ascoltare dal magistrato, ma temeva di vedere comparire il suo nome sul giornale, niente di peggio, né per la sua vita in città, né per la sua carriera universitaria. Era ormai opinione comune che in quella casa – la casa del notaio – si erano svolti fatti eccezionali, sulla cui concentrazione di turpitudini la fantasia della gente si stava esercitando, con riferimenti, di indubbio valore storico, ai balletti verdi e con qualche azzardata allusione alle relazioni incestuose, delle quali c’era chi vantava di conoscere i testimoni oculari. Consapevole di quanto poteva essere maligna quella piccola città, l’avvocato stava seriamente meditando di ritirare la parola data: oltretutto non c’erano lettere da restituire e la fidanzata, con la quale aveva avuto un solo rapporto sessuale, non l’aveva nemmeno vista nuda, non una sola volta! Così, nella sua conversazione con Primo, cercava anche di fare emergere qualche accettabile motivazione per una scelta che, se non acconciamente presentata, poteva anche sembrare un po’ vile. Ad esempio, il fatto che in famiglia, se ne era reso conto subito, tutti sapevano che il notaio non era il vero padre dei due ragazzi ed era contemporaneamente l’unico a non esserne a conoscenza. Una notizia sul numero di secondogeniti che non risultano essere figli del padre legale, fornita con molto cinismo dalla televisione, era stata accolta con sogghigni e gomitate e la Palmira era arrivata a contestarne la correttezza, dicendo che secondo lei erano almeno il doppio. Di chi fosse in realtà il padre vero non si parlava mai, ma da certe mezze parole, da alcuni discorsi iniziati e subito interrotti, Antero aveva capito che la signora Maria Teresa, la depositaria del segreto, prima o poi l’avrebbe detto ai ragazzi. Insomma l’avvocato stava dipingendo, davanti agli occhi un po’ scettici di Primo, l’immagine di una famiglia di moralità discutibile, fortemente orientata al cinismo, dalla quale le persone per bene avrebbero – forse – dovuto prendere le distanze. Quel forse non era casuale, Antero stava ancora costruendosi una via di fuga che non fosse troppo dolorosa per la sua immagine.
Primo non aveva mai avuto molta simpatia né per il nonno né per il padre di quell’avvocato, che doveva a sua volta aver preso molto più dall’Antero gigante cattivo che dall’Antero martire cristiano e lo avrebbe volentieri mandato a quel paese. Sapeva però che se lo avesse fatto Proverbio avrebbe perso un ottimo compagno di maraffone, così che si limitò a qualche dichiarazione, molto generica, di simpatia, e alla promessa di riferire quanto aveva saputo al Questore, se e quando l’avesse incontrato: soprattutto ci tenne a chiarire che non gli sembrava che quelle informazioni, molto importanti sul piano umano per meglio comprendere qualità e difetti dei personaggi di quella storia, fossero di qualche interesse per il progresso delle indagini. Ma Antero era soprattutto interessato a diffondere la propria verità e a crearsi un alibi per le sue scelte a venire e nemmeno si accorse della palese freddezza di Primo.
Le indagini, intanto, procedevano piuttosto lentamente, come era inevitabile in una storia così confusa e in un ambiente così paludoso. La compagnia di assicurazione aveva mandato copia di tutta la corrispondenza che aveva avuto con il notaio e con la sua famiglia, lettere che erano risultate quasi tutte prive di interesse. Quasi tutte: in una, c’era una richiesta di chiarimenti che riguardava i gruppi sanguigni, esisteva la possibilità di una trascrizione errata.
La risposta, firmata con uno sgorbio non leggibile, assicurava che di errori di trascrizione non ce ne erano stati. La signora Egle non aveva riconosciuto lo sgorbio come proprio, né lo aveva potuto addebitare ad altre persone dello studio, ma c’erano stati altri lavoranti, dattilografi e collaboratori, in quell’epoca, e di qualcuno era stata persa ogni traccia.
Certamente, in ogni caso, la firma era del notaio. Dunque era per lo meno possibile che la prima pulce nell’orecchio (ma l’orecchio di chi?) l’avesse messa proprio l’assicurazione, con quella lettera assolutamente fuori luogo.
Tutte le persone che abitavano nei pressi della dimora della signora Rosa erano state messe sotto torchio, il postino era stato interrogato due volte, erano stati identificati i fornitori, la vita privata della sfortunata ostetrica cominciava a uscire dal mistero.
Intanto, e per prima cosa, c’erano varie persone che sapevano dove la signora Rosa teneva la chiave dell’ingresso e che erano autorizzate a entrare in casa e a caricare le loro merci nell’ingresso: l’autorizzazione valeva solo per precise ore del giorno, e i tentativi di entrare fuori orario, in realtà un paio in tutto, erano stati frustrati dal fatto che la chiave non era stata trovata. Di qualche altro visitatore era rimasta almeno una traccia, la casa della signora Rosa era piuttosto isolata e non c’erano abitazioni vicine dalle quali se ne potesse vedere l’ingresso. Il postino aveva visto entrare più volte una donna, pensava che fosse sempre la stessa, ma non sarebbe stato in grado di riconoscerla. La cosa era stata confermata da uno dei fornitori, l’unico che non aveva accesso alla chiave perché non poteva rispettare gli orari che la signora Rosa imponeva. Costui aveva incrociato più volte un uomo, era certo che si trattava sempre della stessa persona, non era sicuro di poterlo riconoscere. I funzionari di polizia l’avevano convocato in Questura per mostrargli delle foto.
Anche la vita della signora Maria Teresa e dei suoi figli era stata passata al setaccio, con grandissima cura, da due funzionari particolarmente pignoli. Di Matteo erano emerse alcune tendenze sessuali che i funzionari avevano definito «improprie», all’Università si era fatto un amico che se lo era portato a casa più volte, ma col quale aveva poi litigato, sembrava in modo definitivo. Anche la candida Veronica aveva qualcosa da nascondere, una relazione con uno dei suoi professori, gli incontri avvenivano in un albergo a ore, la Pensione Tramonto, non si incontrava mai nessuno nei corridoi, i muri erano così sottili che dalla reception si potevano registrare i rumori degli orgasmi che si verificavano alla camera 29, la più lontana di tutte. La relazione era cessata pochi giorni dopo il fidanzamento, la proprietaria della pensione se ne ricordava bene, nell’ultimo incontro la coppia non si era limitata a fare sesso, c’era stata burrasca e l’albergatrice aveva dovuto telefonare per suggerire toni più bassi, erano in ascolto persino i vicini di casa. Ma le informazioni più importanti riguardavano la signora Maria Teresa: alcuni impiegati delle ferrovie e vari bigliettai della stazione degli autobus riconobbero la sua fotografia, almeno un paio di loro sapevano anche chi era. Mettendo insieme tutte le testimonianze risultava che la signora Maria Teresa, molto limitata nei movimenti autonomi dal fatto di non avere la patente, si avvaleva dei mezzi pubblici, treni e autobus indifferentemente, per recarsi in una cittadina vicina, ogni settimana, sempre lo stesso giorno. La signora partiva dalla città nel primissimo pomeriggio e tornava in tempo per la cena. Gli otto tassisti della cittadina meta di queste scorribande non ne riconobbero la fotografia, il che voleva dire che o qualcuno l’aspettava all’arrivo o il luogo dove doveva recarsi era molto vicino sia alla stazione che alla fermata degli autobus, cosa possibile considerate le piccole dimensioni di quel paese. I due poliziotti avevano fatto inutilmente il giro degli alberghi – piuttosto numerosi, la cittadina era nota come stazione termale – e avevano dovuto concludere la loro indagine senza poter affermare che la signora Maria Teresa incontrava settimanalmente un amante a non molti chilometri dalla città, che in realtà era l’ipotesi di lavoro che era stata loro indicata dalla Questura. Si limitarono dunque a scrivere che esistevano fondati sospetti che la signora in questione incontrasse un amante il quale forse la accoglieva in un appartamento privato e che forse anche l’amante non vivesse abitualmente lì, ma lì la raggiungesse per fini facilmente intuibili. Forse.