La vita si costruisce – è noto a tutti – come un intreccio di fatti casuali e di fatti volontari, che si succedono senza regola. Un evento casuale – lo si può anche arbitrariamente definire sorte favorevole, o destino, ma sono definizioni razionali, e pertanto del tutto inadatte – produce molto spesso atti volontari, ai quali conseguono nuovi eventi casuali, e via così, in un disordine fastidioso, del quale spesso neppure ci accorgiamo. Provate adesso a definire quell’evento casuale che consentì a due uomini che non si dovevano incontrare di fare insieme un breve viaggio in ascensore. Lo chiamerete «destino avverso?». Per chi? Per uno di loro, forse; per la polizia, per la giustizia, per la società, certamente no. E lo stesso discorso può valere, invertiti i termini, per la definizione opposta, quella di «buona sorte». Il guaio è che il caso è quello che è, non lascia spazio alle interpretazioni, bisogna accettarlo e, se possibile, usarlo per il meglio.
Per usare per il meglio questo evento casuale, il Questore mise sotto controllo la vita del signor Domenico, una vita che fino a quel momento aveva attirato l’attenzione di un numero assai piccolo di persone. Eppure, come spesso accade, anche vite apparentemente poco interessanti hanno i loro bagliori, o le loro straordinarie miserie, che possono attirare, respingere, interessare, sorprendere, dipende. Vediamo cosa risultò da questa analisi a sorpresa di una vita apparentemente oscura e, a prima vista, assai poco interessante.
La prima cosa che emerse fu che il signor Domenico era un uomo solo come un cane: da quando una serie di errori, irrilevanti se valutati singolarmente, drammatici se considerati tutti insieme, gli avevano così radicalmente cambiato la vita, non solo non era riuscito a farsi un amico, ma aveva costretto i suoi pochi conoscenti a fuggire lontano, spaventandoli con un’acidità e, diciamolo pure, una cattiveria che erano difficili da ritrovare «in purezza» come nel suo caso. Le sue disavventure giovanili, insomma, lo avevano trasformato in un uomo malevolo, solitario, silenzioso, che godeva delle sventure e delle sofferenze degli altri, come un personaggio di Dickens.
Era un uomo senza apparenti passioni e senza evidenti bisogni. Quando aveva capito che le sue speranze non si sarebbero mai realizzate e che i suoi piani non si sarebbero concretati, si era rifugiato nei suoi bisogni essenziali, che non andavano molto oltre quelli della sopravvivenza. Per questo il modesto salario che gli veniva pagato gli bastava e spesso gli avanzava. Con gli altri impiegati dello studio aveva un rapporto molto superficiale, al notaio – che pure era stato un suo compagno di giovinezza – rivolgeva la parola raramente e solo per parlargli di lavoro. Ma almeno secondo la signora Egle, che aveva una sensibilità patologica non solo per tutto quanto avrebbe potuto nuocere al suo datore di lavoro, ma anche per tutte le cose che gli avrebbero fatto piacere, il notaio godeva nell’umiliarlo – senza mai strafare, senza che gli altri se ne potessero accorgere – e in cambio, il signor Domenico viveva aspettando che all’altro capitasse qualcosa di brutto, consapevole che la natura stessa dell’uomo ne avrebbe reso più frequente e più acuta la sofferenza, e godendo in silenzio ogni volta che il dolore, o la delusione, o l’angoscia visitavano quella casa.
Anche i poliziotti, generalmente incapaci di andare al di là di analisi psicologiche grossolane e approssimative, furono disturbati dall’immagine che emergeva dalle loro indagini: un uomo rassegnato in tutto, ma non disposto a lasciar cadere neppure per un momento il livello di antipatia e di livore, il desiderio di vendetta che provava per il suo ex amico; e dall’altra parte, quest’ultimo, diventato il suo datore di lavoro, disposto a tenersi in casa una sorta di odioso sciacallo pur di poterlo umiliare ogni volta che ne aveva l’occasione.
Ma fu andando a controllare nel conto che il signor Domenico aveva aperto in una banca – facile da individuare, era la più vicina alla sua abitazione – che gli inquirenti ebbero le maggiori sorprese. Le fortune del signor Domenico, insignificanti per molti anni, erano cospicuamente migliorate con gli stessi identici tempi rilevati per le fortune della signora Rosa, con l’unica differenza che nel conto dell’ostetrica i soldi, in linea di principio, ci dimoravano poco, mentre in quelli del signor Domenico si fermavano stabilmente. Sembrava dunque che lui e la signora Rosa, persone legate da un rapporto confermato da almeno un’attendibile testimonianza, avessero trovato modo di attingere contemporaneamente alla stessa fonte di denaro: prima una somma assolutamente rispettabile, poi un mensile molto interessante. Il denaro che era affluito nei loro conti correnti, depositato direttamente dai due beneficiari, aveva però avuto un destino diverso, essendo servito per portare molti miglioramenti alla vita della signora Rosa, essendosi semplicemente accumulato per anni – fino a diventare una somma significativa – nel materasso del signor Domenico. Quell’afflusso di denaro era cessato nello stesso momento, creando certamente qualche sconcerto nella donna, ma lasciando con ogni probabilità indifferente l’uomo.
Più in là di queste conclusioni, però, gli inquirenti non riuscirono ad andare. Il signor Domenico, debitamente informato delle indagini che venivano svolte sul suo conto, si era rifiutato di fare commenti o di dare risposte, e il suo avvocato aveva approvato questa scelta senza rendersi conto che in questo modo i sospetti sul suo difeso si sarebbero decuplicati. Fu fatta fare anche una perizia calligrafica per verificare se il geroglifico con il quale era stata firmata la lettera all’Assicurazione poteva essergli attribuito, ma l’esperto – un funzionario della Questura che di questi problemi si era fatto un’idea molto vaga – dichiarò di non poter trarre conclusioni accettabili dalla sua, diciamo così, perizia.