La signora Ada, la moglie del dottore, aveva reagito bene alla morte del marito e malissimo alla scoperta della di lui infedeltà: si era rifiutata di seguire il feretro, aveva cominciato una campagna denigratoria contro l’altra donna, la mai abbastanza vituperata Virginia (Virginia!), che a suo fermo avviso era la vera e unica responsabile della tragedia. Invece di chiudersi in un rispettoso (e cauto) riserbo, era andata in giro per salotti a raccontare particolari inediti, pettegolezzi di nuovo conio, quasi sempre di dubbia verisimiglianza, fingendo addirittura allegria e divertimento. L’unica cosa che non accettava era il confronto (offensivo) con la coppia che aveva percorso lo stesso tragitto mortale per prima, quella del giovane marchese e della Tudina: «Ma i nostri, caro signore, erano vestiti» era la frase con la quale chiudeva la bocca a chi le proponeva un confronto.
Annibale, lui, l’aveva presa ancora peggio. Fino a quel giorno era vissuto come un buon ragazzo di famiglia: bravo a scuola, ottimi voti sempre meritati, pochi amici selezionati con cura dal padre, qualche ragazza, mai abbastanza brava e mai abbastanza seria da piacere alla madre, e perciò destinata a rappresentare solo l’occasione per un nuovo disappunto. L’unica vera sofferenza gliela procurava il diabete, del quale soffriva sin da quando era bambino, non perché fosse una malattia particolarmente grave o perché gli impedisse di alimentarsi come voleva – non era minimamente interessato alla buona cucina, non beveva alcool ed era magro come un chiodo – ma perché lo costringeva a patire tre volte al giorno l’onta di un ago che gli entrava nelle carni, un tormento al quale non riusciva ad abituarsi e che viveva in modo non dissimile da quello di un condannato alla ghigliottina: immaginate, tre ghigliottine al giorno, tutti i giorni…
Il concorso per notaio l’aveva vinto al primo tentativo, classificandosi tra i primi dieci, tanto da poter scegliere come prima sede una cittadina a portata di bicicletta, premessa naturale all’apertura di uno studio in città. La scoperta che il suo temuto papà era un incauto puttaniere, lo sgomentò. Poi, dopo che la madre decise di por fine alle sue rappresentazioni isteriche e si avvelenò con una quantità di barbiturici che i medici giudicarono insufficiente persino per un breve sonno (le amiche si convinsero che la poveretta aveva solo inscenato il suicidio e che poi era morta per la paura che nessuno sarebbe arrivato in tempo a salvarla) cambiò radicalmente il modo di guardare le cose e il mondo. Smise di andare in chiesa, sospese tutte le azioni caritatevoli di cui la famiglia si era fatta carico per decenni, ignorò in modo definitivo le tombe dei genitori, cominciò a fare uso «discutibile» dei molti denari ereditati, concedendoli in prestito a tassi elevati e solo a persone che non potevano trovare alcuna convenienza nel rendere pubbliche le proprie difficoltà economiche. Riorganizzò la sua vita in modo molto schematico, senza lasciare nulla al caso. Viveva solo, nel grande appartamento al piano nobile, rallegrato da una straordinaria collezione di armi medievali e da una quantità inimmaginabile di libri antichi, gli unici oggetti verso i quali, malgrado fossero stati raccolti da suo padre e da suo nonno, mostrava quell’affetto e quel rispetto che certo non riservava alle persone, parenti inclusi. Aveva ereditato dai suoi genitori una cuoca e una coppia di servitori che subito licenziò, per sostituirli con personale che non aveva mai avuto contatti né con suo padre né con sua madre. Scendeva tutte le mattine alle nove in punto nel suo grande studio, che occupava gran parte del piano terreno e nel quale trovava tre collaboratori: un tale Domenico, «giovane di studio» suo coetaneo, che aveva illuso parenti ed amici di avere davanti a sé una brillante carriera professionale e che aveva invece finito col subire un processo per truffa, una piccola cosa per la quale era stato però condannato e che lo aveva costretto ad accettare qualsiasi lavoro gli fosse stato proposto, per non morire di fame. Quasi nelle stesse condizioni era la Carla, ragazza madre espulsa dalla famiglia di origine e che confidava esclusivamente nello stipendio per sopravvivere e far sopravvivere la sua creatura. Diversa, ma solo fino ad un certo punto, era Egle, una ragazza con la quale il notaio aveva avuto una relazione e che non aveva mai smesso d’amarlo, con fedeltà e sottomissione, fino ad accettare di lavorare per lui, pur di stargli vicino. Il punto di contatto tra queste tre povere anime era il salario, stabilito senza possibilità di discussione e di speranza di aumento dal notaio, del quale ci limiteremo a dire che non era generoso.
Sei giorni alla settimana, dunque, alle 9 in punto del mattino, il notaio scendeva in studio, sedeva alla sua scrivania, scambiava poche parole – quelle realmente indispensabili – con il personale e cominciava a lavorare. Risaliva alle 13 nel suo appartamento per una parca colazione e un breve sonno; alle 15 era lì di nuovo in studio, dove restava a lavorare fino alle 20. La sera era generalmente dedicata allo studio, alla lettura, alla cura delle sue collezioni e alla musica. La domenica, Annibale, però, scompariva.
Le poche persone che lo frequentavano sapevano, più o meno, perché scompariva e dove andava, e il soprannome che gli avevano appioppato era «Teodoacre», come il personaggio di una nota poesia dialettale, che oltre a essere il re degli Eruli «andava a caccia tutti i giorni della settimana, la domenica no…» perché, continuava la poesia, andava altrove, in un posto che la buona educazione mi impedisce di citare qui. Per il nostro Teodoacre, quel posto era una casa d’appuntamento di una città vicina (una città più grande, più tollerante e molto, ma molto più ammiccante di quella in cui il notaio lavorava e viveva), un luogo raffinato, riservato e misterioso quanto è possibile immaginare.
Credo che sia bene che, se volete capire qualcosa di più delle persone che nascono e crescono nelle piccole città di provincia della Romagna, consideriate con attenzione questo rito di molti scapoli che – per timidezza o per bisogno di non esporsi – cercano e trovano soddisfazione ai propri bisogni sessuali frequentando le case d’appuntamento. Parliamone un po’.
Una volta, quando esistevano ancora le case di tolleranza, le case d’appuntamento ne rappresentavano la categoria superiore, quella alla quale avevano accesso solo le persone abbienti, che oltretutto dovevano farsi raccomandare per essere ricevute, almeno la prima volta. Non si trattava solo della qualità della merce in vendita a fare la differenza fra le due categorie, c’era molto di più. Anzitutto, si raccontava – e qualche volta era vero – che le case d’appuntamento erano frequentate da signore della piccola e media borghesia, che vi cercavano un po’ di soldi per il superfluo o un po’ di svago e di alternative per migliorare la qualità della vita. La stessa cosa si diceva di molte studentesse, in particolare di quelle che lasciavano la propria città per andare a studiare all’università, soprattutto se non avevano un fidanzato ufficiale o se improvvisamente cominciavano a vestire con un’eleganza che al liceo non avevano mai potuto sfoggiare. Questo era, soprattutto, quello che i maschi adoravano: molti di loro non riuscivano a evitare di provare disagio e talora persino ostilità nei confronti delle prostitute, delle quali detestavano soprattutto la volgarità; amavano immaginare che, in alcove un po’ più costose e un po’ più difficili da conquistare, si potessero trovare persone come loro, invogliate dal desiderio di avventurarsi in strade ignote e proibite oppure, perché no, brave ragazze timide e pudiche, costrette dalle necessità o ricattate dal bisogno, ma complessivamente simili, cioè educate, rispettose e persino un po’ curiose e un po’ scontrose. È questa ricerca – o se volete questa illusione – che ha consentito alle case d’appuntamento di sopravvivere, anche oggi, in un mondo nel quale l’industria del piacere a pagamento ha mutato sembiante e può offrire agli avventori una varietà di incontri un tempo inconcepibile.
Una volta ammessi in una di queste «dimore» – sto cercando di non usare la parola «casa» per ribadire la straordinaria differenza tra due ambienti nei quali, in fondo, si celebravano identici riti – i fortunati frequentatori venivano quasi sempre impressionati dallo stile della signora che li riceveva, una donna che non era mai volgare, spesso portava ancora addosso le vestigia di un’antica bellezza e usava con abilità e grande padronanza di linguaggio tutti gli eufemismi necessari per dimostrare che in quel luogo ci si riuniva per consentire a persone alla disperata ricerca di affetto di perdersi una nell’altra, e che il denaro che passava da una mano all’altra non serviva tanto per pagare l’incontro, quanto per consentirlo, in fondo anche lo Stato paga oboli considerevoli alla Chiesa perché i suoi sacerdoti possano consolare un’umanità sofferente e bisognosa di amore. Le stesse fotografie che venivano mostrate, in un album di rispettabili dimensioni, non erano mai volgari, a molti dei nuovi ospiti sembrava di curiosare tra i volti sorridenti delle proprie compagne di università o di liceo.
Chi indicò al notaio quella specifica dimora e gli consentì di diventarne cliente nessuno lo ha mai saputo, è persino possibile che il primo incontro tra Annibale e il «laboratorio di alta moda» della signora Emma sia stato casuale. Quello che conta è che il notaio, in quella casa, ci si trovò benissimo e che, finché restò scapolo, non la tradì mai. Tra lui e la signora Emma si era rapidamente creato un rapporto di grande simpatia e le frequentatrici abituali della casa amavano raccontare che persino «la signora», più di una volta, si era concessa senza limitazione veruna al notaio, lei, che era notoriamente aliena da simili prove di esuberanza; a lui, che era evidentemente privo di ogni attrattiva virile.
In realtà il notaio Annibale Ricci Ribaldi era francamente brutto: alto più di un metro e novanta, sottile sottile, fattezze vagamente femminili disperse in una facciona certamente virile, pochissima barba, capelli del colore della stoppa, sembrava – questa almeno era l’opinione più diffusa – un ragno, di quei ragni che si vedono nei cartoni animati, faccione tondo, boccone sensuale e tanti, tanti arti. Da quando aveva cominciato a pensare alle donne si era accorto di possedere un tipo di sessualità quasi completamente cerebrale, molto basata sull’immaginazione e sul desiderio, poco servita dall’apparato cui essa – come d’obbligo – si rivolgeva per dare concretezza alle fantasie. Così il notaio usava trucchi di ogni genere per far andare d’accordo il corpo e la mente, cominciando dalle iniezioni di androgeni, presto abbandonate per via del diabete, per passare via via alle prostaglandine e ai vari farmaci che la scienza metteva a disposizione delle persone come lui. Poiché era la fantasia che continuava a prevalere, il fatto di frequentare quella casa e di poter contare su una persona tanto gentile quanto si dimostrava essere la signora Emma gli consentiva di esplorare angoli oscuri della propria libido. Era ad esempio consuetudine della casa che la «signora» gli offrisse incontri con ragazze – giovani, discrete, timide, di facile rossore, mai volgari – che avevano espressamente dichiarato la propria indisponibilità ad adattarsi a certe performance sessuali, «quello no – avevano detto – quello proprio no, non me lo chieda nemmeno, piuttosto me ne vado». Toccava poi a lui, approfittando dei punti deboli che la signora Emma gli rivelava (e che erano quasi sempre imparentati con il denaro), convincerle a cambiare opinione, e non c’era niente che gli desse tanto piacere quanto strappare quelle concessioni, c’era un sapore di umiliazione inflitta e un odore di violenza subita che valeva ben più del denaro speso, e poi scoprire ogni volta che persino in quei luoghi era possibile incontrare un pudore che poteva essere violato…
Anche un analista di primo pelo avrebbe potuto spiegare al notaio Annibale cosa si celava dietro a quei comportamenti, ma persino un analista esperto si sarebbe stupito scoprendo che tutte quelle misteriose ragioni gli erano chiare come il sole, e che il notaio non aveva affatto bisogno di Freud per interpretare le proprie pulsioni. Quello che né gli analisti né il buon notaio avrebbero mai immaginato è il fatto che il voluminoso scudo di protezione che le delusioni familiari gli avevano creato intorno lasciava scoperta una zona altrettanto delicata quanto fragile: il povero Annibale provava un’immane, irrazionale pietà per se stesso.