Certo la vita non si ferma, non può mettere un ginocchio per terra o una mano sul cuore come segno di omaggio a uno dei tanti poveri esseri percossi dalla sfortuna, va avanti, oggi il caso, domani un gesto volontario, avanti così. L’ultimo atto volontario di Primo era stato quello di mettere insieme da una parte e dall’altra del tavolo, Pavolone e la sua «fidanzata» Maite, per cercare di capire quali disastri si stavano preparando. Proverbio, appena tornato a casa dall’ospedale e ancora molto, molto debole, si era fatto raccontare la storia e aveva fatto un notevole sforzo per tradurre alcuni proverbi romagnoli adatti alle circostanze in un italiano passabile. Qualche traduzione gli era venuta benino, o per lo meno era comprensibile e non troppo diversa dall’originale (se il buon Dio punisce i peccati della fregna, in paradiso non ci sarà più legna), altre proprio non gli erano riuscite e le aveva dovute mantenere in lingua originale, senza sottotitoli (l’arvéna de furmay l’è la gratusa, l’arvèna di burdèll l’è la balusa).
Primo aveva deciso di non tornare più sull’argomento «professor Reggiani», l’ultima volta che l’aveva fatto aveva causato un’ulteriore complicazione, della quale non riusciva a sentirsi né responsabile né dispiaciuto. Tutto era nato per alcune parole di sommessa critica che aveva rivolto a Pavolone («non puoi risolvere così i problemi, la violenza, lo sai, alla fine non ripaga…»): questo educato rimbrotto non aveva turbato granché Pavolone, che però aveva pensato che il significato vero di quelle parole avesse a che fare col timore che Maite pensasse a lui come a un uomo violento e ineducato. Si era dunque affrettato a scrivere una lunga lettera di spiegazioni e di scuse alla sua ultima vittima e l’aveva spedita all’indirizzo di casa, senza altre precauzioni. La signora Reggiani, incuriosita da una calligrafia molto, molto peculiare, l’aveva aperta e l’aveva letta. All’inizio, è bene dirlo, si era divertita, la lettera era scritta in un italiano molto approssimativo e, per lo meno nella prima pagina, era pressoché incomprensibile. Poi la signora Reggiani aveva smesso di sorridere e si era dovuta mettere a sedere per andare avanti nella lettura. Dell’incontro che aveva avuto quella sera col marito si sapeva poco, ma non era stato possibile ignorare il nuovo, grosso livido che era comparso sotto un occhio del medico, un livido che aveva sfumature di colore che mal si accordavano con le altre, quelle provocate da un misterioso incidente stradale del quale, si diceva, il professor Reggiani non ricordava quasi niente.
La cena era stata molto buona, Maria era ancora in fase di gratitudine piena, convinta com’era che Primo avesse punito – personalmente o no, poco importava – il suo aggressore. Maite e Pavolone avevano mangiato come lupi (Maite – osservò Primo – stava ingrassando) e si erano guardati a lungo negli occhi. Le gemelle erano un po’ gelose di Pavolone, che consideravano cosa propria, ma non si volevano inimicare Maite, che era una raccontatrice di favole fuori dal comune.
Primo aveva cercato, con molta cautela, di affrontare il problema dei fidanzati d’oggi, quanto sono cambiate le cose, il nuovo concetto di fedeltà, l’importanza di una vita insieme affettuosa e sessuale, e anche i costi di una vita in comune e le preoccupazioni che possono dare i figli. Maria, andando avanti e indietro dalla cucina, sentiva brani di discorsi e ne era incuriosita, ma non capiva dove Primo volesse andare a parare, certo erano allusioni che non la riguardavano. Maite e Pavolone un po’ lo ascoltavano e un po’ no, e comunque non sembravano afferrare il messaggio, la cosa non sembrava che li riguardasse più che tanto. Poi, improvvisamente Maite, come se si fosse ricordata qualcosa che doveva necessariamente essere risolta subito, chiese a Primo se la casina degli attrezzi, molto mal messa, vicino alla strada principale e che in realtà non era mai stata abitata, fosse secondo lui un luogo dove lei e Pavolone, una volta fatti i lavori essenziali, avrebbero potuto vivere insieme continuando a lavorare per la famiglia. Senza notare minimamente l’espressione di terrore che era comparsa sulla faccia di Primo, Maite aveva continuato con eloquenza a illustrare i vantaggi che sarebbero certamente derivati da una sistemazione del genere e chissà quali ulteriori sofferenze avrebbe potuto provocare al sensibile animo del suo interlocutore quando trillò il telefono di casa. Primo, lieto di poter troncare quella conversazione, si precipitò a rispondere: erano due amici di Proverbio che si informavano sulla sua salute e volevano sapere se, per caso, e sempre che non fosse troppo tardi, potevano fare un salto per salutarlo. Erano passate le nove di sera e, in differenti circostanze, Primo avrebbe detto di no, Proverbio era già andato a letto e poi, stanco e debole com’era, era meglio non disturbarlo. Ma il pensiero di tornare a sedersi con i due «marmocchi illoviti» (definizione di Proverbio, che usava la parola «lovo» per indicare un individuo goloso) ad ascoltare il loro programma per l’avvenire, che comprendeva anche la sottrazione del suo adorato casotto degli attrezzi, non gli andava proprio più. Così chiese agli amici di Proverbio di pazientare e andò a chiedere al convalescente se se la sentiva di riceverli. Di lì a dieci minuti i due suonarono il campanello e Primo, che non aveva colto i loro nomi, poté guardarli in faccia. Uno non lo aveva mai visto; l’altro era Sante, il secondo dei figli di Platone Sensori, detto anche il donatore.
Restarono meno di dieci minuti nella stanza di Proverbio, era troppo evidente che aveva finito la benzina. Quando scesero, non c’era più nessuno in vista: Maria era andata a mettere a letto le bambine, Maite e Pavolone si erano imbucati da qualche parte, facevano sesso anche fra una scopata e l’altra.
Primo conosceva Sante solo di vista, ma aveva sentito parlare di lui, molto spesso e in molti modi. Si misero a chiacchierare e a bere grappa, l’amico di Sante in verità si limitava a bere. Sante era un chiacchierone, simpatico, con centinaia di cose da raccontare, uno sguardo al passato e oplà, ecco un nuovo racconto, magari modificato un pochino qui e lì per risultare più credibile. Finirono col parlare del notaio, di sua moglie e dei suoi figli, e di quello che diceva la gente, di quante cose si erano inventate su quei poveracci. Primo era incuriosito.
«Dicono anche che il donatore di cui si serviva tuo fratello eri tu».
«Balle. Mio fratello è sempre stato convinto che i miei disturbi nervosi, i tic e tutto il resto, siano ereditari, anche perché dalla parte della mia mamma ci sono diverse persone che di robe così hanno sofferto, quasi sempre da ragazzi, qualche volta quando erano già grandi. Figurati se con la paura che si ritrova addosso lui si sarebbe mai messo nelle condizioni di farsi querelare o peggio di dover sborsare dei quattrini».
«Quindi di chi siano figli quei due ragazzi resta un mistero».
«Direi che come mistero fa schifo. Io non glielo ho mai chiesto, ma sono quasi sicuro di conoscere almeno tre dei suoi donatori. Uno era Sante Pistocchi, che è morto in un incidente stradale, ma i suoi figli si riconoscono perché hanno tutti un naso che gli fa ombra al mento, anche le femmine. Il secondo era Viliero Sansarini, e lì andiamo nel difficile perché Viliero è il delinquente ideale, nessuno sarebbe mai in grado di descriverlo alla polizia, il vero uomo qualunque. E poi so che, alle strette, arrivava a chiedere a Gaetano, che però faceva il difficile e diceva sì o no a seconda del caso, non voleva fare figli con ragazze brutte. E se non bastasse, Gaetano si è anche messo con una di quelle ragazze, prima non si conoscevano, poi di colpo è stato amore per tutta la vita, e poi dicono che sono io il matto. E poi ce ne sono stati tanti altri, studenti, persino un seminarista».
E così un altro pezzo del puzzle si era sistemato da solo. Per caso.