Quando Annibale incontrò Maria Teresa, lui aveva 45 anni e lei 21. La ragazza, di madre romagnola, aveva padre veneto, e questo le aveva regalato un aspetto inconsueto: era alta, bionda, con occhi nerissimi e un seno prepotente. Nel complesso, ispirava pensieri di castità e di dolcezza, una ragazza che ognuno di noi vorrebbe avere come sorella. All’inizio, il notaio di queste cose non si accorse, tutto impegnato a leggere le note che la signora Emma gli aveva preparato: questo no, questo no, questo per carità no, sia prudente, sia paziente... Il notaio la soppesò, ne constatò la fragilità, e decise che non era proprio il caso di spendere soldi per eliminare quei divieti, tutto le si poteva imporre. Dopo di che, in pratica, la violentò, con entusiasmo e determinazione, costringendola a commettere molti di quegli atti che i benpensanti definiscono «bassezze». Impiegò tutta l’energia di cui disponeva, e lo fece con grande allegria perché non aveva mai tratto tanto piacere da un incontro sessuale. Poi, molto stanco, si addormentò.
Quando si svegliò, rimase per un po’ ad occhi chiusi, assaporando il piacere di quei recenti ricordi. Si accorse che la ragazza, ancora immobile dove l’aveva lasciata, forse solo un po’ più distante da lui, aveva delle piccole scosse del corpo, che presto poté interpretare come singulti.
Annibale credeva poco nelle lacrime e molto nell’ipocrisia, soprattutto delle donne, ma fu stupito dal modo molto contenuto e dignitoso col quale la ragazza cercava di nascondere il proprio pianto. Cominciò a farle domande, a chiederle di sé e della famiglia, e alla fine la ragazza – poverina più che sventurata – rispose.
La storia di Maria Teresa sembrava ricalcata da uno dei tanti film ispirati ai romanzi popolari scritti dagli eredi di Carolina Invernizio, che negli anni ’50 facevano piangere le ragazze di buona famiglia. Genitori borghesi, vite apparentemente serene, poi la madre si innamora di un vecchio compagno di scuola che comincia a incontrare di nascosto, senza lasciar percepire al marito e ai due figli nulla di quanto sta accadendo. Poi la tragedia: il padre che comincia a sospettare, la segue, li sorprende, uccide la moglie, ferisce gravemente l’amante, tenta di uccidersi senza riuscirci, viene condannato a un’eternità di carcere. Lei resta sola con il fratello, un ragazzo poco più grande di lei, ma debole e inetto. Ed è proprio il fratello a costringerla a questo passo così terribile, perché si caccia in un guaio, trascinato da cattive compagnie (ma quante cattive compagnie funestano le nostre città!), contrae debiti con gli usurai che lo minacciano: o paghi o… E allora lei…
Un fumettone, così risaputo e banale che Annibale finisce col non crederci. Poi ci ripensa, indaga – l’ambiente degli usurai non gli è sconosciuto – scopre che quasi tutto quello che la ragazza ha raccontato è vero e che, per buona misura, il padre si è suicidato in carcere e il fratello è già stato bastonato per due volte dai suoi creditori, e tutte e due le volte l’ha scampata per un pelo. Da non crederci.
Convinto della sincerità della giovane donna, persuaso che la vita può imitare anche i peggiori romanzi, il notaio si precipita alla casa d’appuntamento, vuole chiedere alla signora Emma di non lasciare che la ragazza incontri altri uomini, penserà lui… Ma i fumettoni romantici, quando cominciano, ci prendono gusto, sembrano non avere mai fine, se poi vengono contaminati dal caso finiscono col sembrare scritti da un ubriaco. Immaginate la scena: la signora Emma impallidisce, esita, lui la incalza, vuol sapere il perché di quel turbamento.
«Averlo saputo – la voce della signora Emma è ancora più esitante – averlo saputo anche solo un’ora fa, ora…».
Il notaio ha ricevuto molte confidenze dalla maîtresse, sa che lei può controllare le stanze, che lo fa quando non si fida degli uomini, o delle donne, o teme di essersi fidata della persona sbagliata, sa bene che in un’alcova può accadere di tutto. Non le chiede, le impone di fargli assistere all’incontro. Resta solo a guardare, da un finestrino ben celato, Maria Teresa fra le braccia di un uomo giovane e vigoroso, che fa l’amore con lei con una strana dolcezza, il notaio capisce che è lei a ispirare quella dolcezza, che è il suo aspetto a esigerla. Capisce anche di essere immune da queste sdolcinature, che quello che Maria Teresa gli ispira è un sentimento che assomiglia molto alla passione, della quale sa poco, ne ha letto nei libri, non l’ha mai provata. E si accorge di soffrire, e si sorprende scoprendo che questa sofferenza tutto sommato non gli spiace, che è gradevole provare quel dolore che gli comincia a pesare sul petto. Ma non è capace di staccarsi da quel finestrino, resta lì a farsi ancora del male, perché i due amanti sembrano provare piacere nel dare piacere all’altro, e questo lui non lo può proprio tollerare. Insomma è passione vera: non gradevole, non virtuosa, ma passione, questo sì, lo è.
Facciamola breve. Il notaio si accolla il debito del fratello di Maria Teresa, poi incontra di nuovo la ragazza. Non le dice tutto, le fa solo capire che solo lui può salvare quell’imbecille, quel fallito, solo lui può impedire che gli capiti quello che ormai sembra inevitabile. Lei, naturalmente, non avrà più bisogno di frequentare quella casa. E alla fine di questo lungo discorso, così generoso, così pieno di affetto e tanto appassionato, la poverina si vede offrire qualcosa di molto più rassicurante di una convivenza, il notaio le parla addirittura di matrimonio. E tutto avviene in modo così naturale, così inevitabile, che lei accetta.