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Si sposano quasi di nascosto, il notaio ha una terribile paura che qualcosa trapeli del passato di Maria Teresa, la porta a casa senza farla vedere a nessuno. Ma, il suo, è chiaro, non è amore, è proprio una sorta di passione, ma è una passione malata, una passione gelosa e amara che lo rende – lui uomo non buono – un uomo cattivo e talora persino violento. Il ricordo di quell’amplesso al quale ha assistito lo perseguita, se lo fa raccontare e raccontare, e ogni volta, alla fine, le usa qualche violenza, ogni volta un po’ peggiore, finché comincia a picchiarla. E lei tace e sopporta. Lui la incalza, fino a scoprire che ha avuto altri uomini, altri incontri, in quella casa, e ancora altri, prima. Vuol sapere di tutti, le chiede particolari, vuole conoscere le sue emozioni. Ma, dentro di sé, è diviso: vorrebbe ucciderla, o almeno farle del male; d’altro canto non può più pensare a una vita senza di lei, adesso comincia ad aver paura che lei decida di lasciarlo, così che immagina cento progetti su come costringerla a restare per sempre con lui, e alla fine quello che gli sembra il più verisimile è una maternità, decide di convincerla a diventare la madre dei suoi figli. Così, la obbliga ad abbandonare la pillola anticoncezionale che sta prendendo da anni, comincia a mirare i rapporti, la interroga sui particolari più intimi della sua biologia, vuol vedere i pannolini delle mestruazioni, li conta, controlla le sue secrezioni vaginali. Ma il figlio non viene. Allora legge libri di divulgazione, arriva a misurare lui stesso la temperatura rettale del mattino, intensifica la frequenza dei rapporti. Ma il figlio non arriva. Maria Teresa è esasperata, forse preferiva gli schiaffi di prima a questa febbrile insistenza, è costretta a tenere la porta del bagno aperta, è sottoposta ai più umilianti controlli. E il figlio non arriva.

Un giorno, in un impeto di ira, Maria Teresa gli chiede quali garanzie ha lui di essere fertile. Ma Annibale le garanzie le ha, una donna un giorno è rimasta gravida di un figlio suo, ha dovuto pagarle un’interruzione di gravidanza e darle altri soldi per farla tacere. Del resto, a lui di avere figli interessa assai poco, non li desidera e sa già che non li amerà. E così, le ritorce l’accusa.

«Sei tu – le dice, – è la tua vita scomposta che si vendica».

Litigano, si rappacificano, decidono di chiedere consiglio a un medico. Ce n’è uno in città, noto per la sua competenza, ma non vogliono andare nel suo ambulatorio, lo ricevono a casa. La visita ginecologica è un momento in cui il notaio rasenta la follia, si morde le mani quando le dita del medico entrano nella vagina di Maria Teresa, e per tutto il tempo dell’esplorazione scruta la moglie con un’intensità quasi folle, è alla ricerca di un qualsiasi segno che denunci un improprio piacere. Non c’è niente di sbagliato – conclude il medico – ci sono tanti casi come il vostro, sterilità senza spiegazioni, spesso ci sono problemi di ansia e fenomeni emotivi particolarmente forti a impedire il concepimento. Possiamo provare qualche inseminazione. Se proprio volete.

La scena offerta dall’inseminazione ripete quella della prima visita, stesse emozioni, stesse sofferenze. Il medico si è portato tutto il necessario, una macchina per insufflare le tube, un microscopio per fare un esame post-coitale, non si sa mai. Gli è venuto qualche dubbio? Possibile, ma il medico non apre bocca, non commenta. Tornerà varie volte, per ripetere tutta la procedura, e alla terza o quarta volta Maria Teresa rimane gravida.

La gravidanza è una parentesi di inattesa serenità per entrambi, il notaio decide che non si può essere gelosi di una donna gravida, immagina che gli altri uomini ne siano respinti così come ne è respinto lui: la porta in giro come un trofeo, finalmente è in grado di presentarla ai suoi pochi amici, la riempie di regali. Nasce una bambina che assomiglia molto alla madre e questa nascita – o questa somiglianza – interrompe l’armistizio. Maria Teresa non è ancora arrivata al capo parto che Annibale diviene inquieto, vuole riprendere i rapporti, consulta di nuovo lo stesso medico. Non appena ricompare un ciclo mestruale naturale ricominciano le inseminazioni e, questa volta con un po’ più di ritardo, arriva la seconda gravidanza. Dopo un nuovo periodo di apparente serenità nasce un maschio, sano e ben formato, un evento che non sembra impressionare granché il notaio. Piano piano ricominciano le cattiverie, vola di nuovo qualche schiaffone.

Maria Teresa ha i nervi a pezzi, tener testa a quel marito mezzo matto e contemporaneamente tirar su i due bambini è compito superiore alle sue forze: trova però un’inaspettata alleata in una delle domestiche, una ragazza della sua età, di nome Palmira, donna di forte carattere, di buoni sentimenti, di solida fede comunista, naturalmente incapace di tollerare prevaricazioni e soprusi. La Palmira non ha molta simpatia per gli uomini, che disdegna anche sul piano sessuale, e il comportamento del notaio la disgusta e la indigna; lei e Maria Teresa hanno modo di parlare, a lungo, mentre insieme fanno crescere i bambini. Piano piano anche Maria Teresa cambia, diventa più sicura di sé, il marito non la intimidisce più. A questo punto i rapporti sessuali sono infrequenti, e Maria Teresa si rifiuta di impegnarsi in quella sessualità ginnica e sconcia che il marito continua a prediligere: si sottomette come ogni moglie ritiene di dover fare, ma senza entusiasmo e senza fantasia. Oramai vede il marito solo ai pasti, molto raramente si fa vivo per dare un’occhiata ai bambini, che chiaramente non gli interessano. Ma l’animo di Annibale è molto complesso, difficile da decifrare, Maria Teresa spera ancora che lui stia aspettando il momento di poter interloquire, due bambini con le capacità cognitive di due piccoli animali non attraggono la maggior parte degli uomini.

Il notaio è un anticomunista viscerale, la cameriera-amica di sua moglie gli ispira sentimenti di antipatia solo per il fatto di chiamarsi Palmira. Ma la ragazza ha un pregio, che il notaio non può che apprezzare, perché sembra risolvere uno dei maggiori problemi della sua vita, il terrore dell’ago: nessuno sa fare le iniezioni come lei, è talmente brava che il paziente non riesce neppure a percepire il momento in cui l’ago entra sotto la pelle. Palmira diviene l’infermiera del notaio, al punto che quando lei è a letto con l’influenza è lui a portarle il sedere da pungere in camera, al punto che la paga purché non si allontani, soldi contro vacanze non fatte. A Palmira i soldi non dispiacciono, di fare vacanze ha poca voglia, il suo posto è, ogni giorno di più, vicino a Maria Teresa. I due riescono quasi sempre a trovare un accordo.

Il fatto di essere diventata indispensabile, a un uomo odioso, tirchio e, oltretutto, anticomunista, le deve dare una grande soddisfazione, di quelle che non hanno prezzo: perché oltretutto Palmira ha alle spalle una vita difficile e viene da una famiglia sfortunata e perseguitata, una di quelle famiglie rosse che la sventura se la sono cercata e certamente l’hanno trovata. Tutto era cominciato col suo bisnonno, Spartaco, un operaio agricolo di ferma fede socialista, che dopo uno sciopero fallito, nel 1922, si era preso a revolverate, sul vecchio ponte romano, con una squadraccia fascista. Uno dei fascisti si era beccato un proiettile in una spalla e era scivolato dalla spalletta del ponte fino a finire in acqua, proprio in uno dei pochi giorni in cui il fiume di acqua ne portava tanta. Vedendolo annegare, il bisnonno di Palmira, che era molto probabilmente il responsabile di quella caduta, ma che era anche un brav’uomo, si era buttato in acqua e lo aveva «tratto a salvamento». Lo aveva deposto tra le canne, si era accertato che la ferita non fosse grave, era andato a riprendersi il suo revolver ed era tornato, per accertarsi che tutto andava per il meglio, forse addirittura per salutarlo. Quel rischio corso da un camerata aveva placato gli animi degli altri fascisti, il conflitto sembrava ormai spento, così che nessuno azzardò segni di ostilità nei confronti di Spartaco. Fu il ferito che gli fece segno di accostarsi, come se gli mancasse la voce per ringraziarlo: quando Spartaco si chinò su di lui, il ferito gli sputò in faccia, e ci mise tutto l’odio e il livore che aveva dentro. Ma tanto odio e tanto livore non potevano restare senza risposta, Spartaco quasi automaticamente si alzò in piedi, e gli sparò in mezzo alla faccia, uccidendolo. Gli altri fascisti, chissà perché, non lo ammazzarono e decisero di consegnarlo alla giustizia: fu condannato all’ergastolo, morì dopo pochi anni, non era uomo da sopportare la prigione e comunque nessuno mai spiegò ai parenti cosa, in effetti, avesse finito per ucciderlo. Quel fatto di sangue la famiglia di Palmira se lo era portato dietro per decenni, come se una parte della condanna fosse toccata ai familiari: tutti l’avevano scontata in molti modi, gli uomini non trovavano lavoro, le donne più che spigolare o pulire i cessi non riuscivano a fare. Così Palmira era cresciuta in un ambiente nel quale l’odio per i signori e per i fascisti era palpabile così come lo era la compassione per i derelitti.

Palmira non aveva mai avuto dubbi su quale fosse la sua parte politica e di politica aveva provato a farne, quando ancora era poco più di un’adolescente. Purtroppo la storia della sua omosessualità era diventata di dominio pubblico e la segreteria del partito aveva reagito secondo logica e buon senso; ti siamo molto vicini, purché tu ci sia lontana; speriamo che tu voti per noi, sia chiaro che non voteremo mai per te. Palmira non aveva fatto scandali, solo che non si era fatta più vedere e aveva aggiunto un’ulteriore serie di nomi all’elenco delle persone che odiava. Non aveva un titolo di studio, non aveva un mestiere, aveva letto solo Marx e Engels senza capirne una parola; era andata a servizio dalla prima famiglia che non le aveva chiuso la porta in faccia e le era andata bene.