Primo Casadei, detto familiarmente Terzo, si stava chiedendo che cosa mai avesse per la testa Maria, la sua sposa cinese, che sembrava turbata da qualcosa, ma da cosa non voleva proprio dirlo. Maria era generalmente una ragazza serena e senza capricci, le sue priorità erano – ed erano sempre state – le due gemelle, Beatrice e Berenice, lui stesso, Primo, il loro amico del cuore, Proverbio, e, perché no, Pavolone, una specie di Gargantua che viveva con loro ed era tutto insieme il loro protettore, il compagno di giochi delle bambine e la loro maggiore fonte di preoccupazioni per i possibili danni che poteva fare se si muoveva troppo rapidamente.
Primo non era nelle condizioni di poter sfruttare al massimo le doti, già scarse, di pazienza che la natura gli aveva dato in dono. Era, tra l’altro, inguaiato in una ridicola diatriba con il suo editore che voleva fargli togliere un intero capitolo del suo ultimo libro sulla storia di Roma, senza sapergli dare una giustificazione accettabile per questa mutilazione dolorosa; inoltre Proverbio era stato appena operato di prostata e il suo recupero, anche per via della non verde età, sembrava più difficile del previsto.
Le due gemelle, come accadeva regolarmente quando percepivano che la serenità della famiglia era turbata, se ne stavano silenziose per i fatti loro, limitandosi a scambiarsi qualche sguardo interrogativo, timorose d’essere state, in qualche modo, la causa di quel disordine.
Maria, la moglie cinese di Primo, era arrivata in Italia a vent’anni o poco più, con un gruppo di clandestini della sua terra e per i primi anni della sua permanenza in Italia era stata costretta a lavorare, in pratica senza un vero salario, per coloro che l’avevano aiutata a emigrare. In quegli anni la sua vita era stata molto dura e aveva dovuto sopportare angherie ed umiliazioni di ogni genere. Donna di forte carattere, non si era realmente mai piegata e aveva approfittato della prima occasione per liberarsi da quegli odiosissimi legami e farsi una vita propria. Come Primo facesse parte di quella sua vita e come fosse stato con il suo aiuto che Maria aveva potuto abbandonare i suoi lavori forzati è una storia lunga, complicata e forse anche divertente, ma non può essere raccontata qui. Di Maria alcune cose, però, bisogna sapere. Ad esempio nei primi anni della sua vita italiana si era impegnata alla morte per imparare la nostra lingua, con il risultato di diventare la prima cinese al mondo che si esprimeva fluentemente in dialetto romagnolo. Negli ultimi anni le lunghe conversazioni con Proverbio avevano in parte modificato il suo modo di esprimersi, ma c’erano espressioni che non riusciva a dimenticare e diceva ancora «ét la pré a ca tu?» quando le bambine dimenticavano di chiudere una porta. Purtroppo Maria era convinta che quella frase significasse molto semplicemente «per favore chiudete la porta», così che la utilizzava con chiunque dimenticasse di farlo. In realtà l’espressione – di per sé piuttosto brusca e ineducata – si riferiva ai tempi in cui le porte – soprattutto quelle delle stalle – si chiudevano per l’azione di un mattone (la pré) legato al muro con una corda e che esercitava una certa pressione sulla sconnessa tavola di legno che, almeno in teoria, doveva bloccare una parte dei cattivi odori.
Maria era intelligente, tenace fino alla testardaggine e molto coraggiosa, viveva per la sua famiglia, non frequentava la colonia cinese della sua città, non ricorreva a rimedi tradizionali le poche volte in cui si ammalava, aveva un pessimo concetto dell’agopuntura e, cosa di non poco momento, era religiosissima, una citéna (una pinzochera) secondo la definizione di Proverbio.
Da qualche mese Maria era tormentata da una sorta di eczema che si era diffuso sul dorso di entrambe le mani e che il medico di famiglia aveva cercato di curare con una crema al cortisone e imponendole l’uso dei guanti nelle faccende domestiche.
L’eczema, anziché regredire, era comparso anche sull’addome, con grande sgomento di Maria che si preoccupava soprattutto delle reazioni di Primo e temeva che quella brutta lesione allontanasse il marito dalla vita coniugale.
I maggiori timori di Maria erano stati causati involontariamente dallo stesso Primo, al quale Maria aveva chiesto quale specialista si occupava di quelle malattie: Primo le aveva frettolosamente spiegato che erano i dermatologi, aggiungendo, sempre in fretta e in modo a dire il vero non del tutto chiaro, che la disciplina era la clinica dermosifilopatica e la specializzazione riguardava le malattie veneree e della pelle. Considerata la scarsa disponibilità del marito, Maria era andata a controllare la parola venereo, che a prima vista aveva a che fare con le vene, ma, come lei sapeva, l’italiano aveva i suoi misteri ed era sempre difficile capire dove si poteva celare un riferimento a una parola latina o greca. Malattie sessuali, le aveva detto il dizionario, aggiungendo riferimenti a una tal Venere, probabilmente una battona, alla quale andavano dedicati i riti d’amore. Qui, Maria aveva un po’ perso la testa: per quel che sapeva le malattie legate alla vita sessuale potevano essere gravi, persino mortali, e riducevano i malati in condizioni orribili. E poi, come aveva fatto ad ammalarsi? Certo, prima di conoscere Primo, c’erano stati vari uomini, rapporti che le erano stati imposti, o che aveva dovuto accettare per sopravvivere, ma erano passati tanti anni… Primo? Certo non era uno stinco di santo, ma avrebbe dovuto averle lui per primo quelle brutte piaghe. Dunque, un mistero. Ma un mistero così colmo di risvolti angosciosi che Maria aveva chiesto di essere visitata da un, come si chiamava, dermatologo. Primo si era informato dai suoi amici medici e quasi tutti gli avevano indicato le stesse persone: un vecchio professore universitario in pensione che era tornato da qualche tempo a vivere in città e che faceva qualche visita privata, ma solo se e quando ne aveva voglia; il medico che l’aveva sostituito all’università, che aveva coperto di ambulatori le piccole città satellite, certamente non un grande studioso, ma altrettanto certamente uomo di notevole esperienza pratica. Primo aveva scelto proprio quest’ultimo, perché più giovane e perché, a detta di tutti, molto esperto, e aveva preso un appuntamento per Maria. L’avrebbe accompagnata lui, Maria aveva ancora il difetto di fingere di capire le parole difficili e questo poteva creare qualche problema; mentre stavano lasciando casa avevano chiamato dall’ospedale, Proverbio non stava niente bene, chiedeva di loro. Primo avrebbe annullato volentieri l’appuntamento dal medico, ma Maria non aveva accettato, sarebbe andata da sola, addirittura lo preferiva, temeva quello che sarebbe emerso dalla visita. Così si separarono, Maria andò dal dermatologo, Primo corse a trovare Proverbio, si rividero solo alla sera, a casa.
Primo portava buone notizie, Proverbio si era ripreso, non era completamente fuori dal guado, ma stava un po’ meglio: i medici pensavano che ne sarebbe uscito bene, erano ottimisti. Maria era scura come un temporale sul mare, si espresse a monosillabi, si rifiutò di parlare del suo incontro col medico, fece vedere a Primo due foglietti, uno con la diagnosi e la richiesta di alcuni esami, il secondo con la terapia, sempre di eczema si trattava, sempre col cortisone si doveva curare. Poi se ne andò in camera da letto e Primo la sentì singhiozzare. Era la prima volta, non era mai successo prima che Maria piangesse così disperatamente, Primo ne fu sconvolto. Tentò di raggiungere il professor Reggiani, il dermatologo che l’aveva appena visitata, ma l’ambulatorio era chiuso e dovette rinunciare. Si ricordò allora di Veronica, una sua amica d’infanzia, psicologa di professione ma femminista per vocazione, l’unica persona (Proverbio a parte) che sapeva far ridere Maria e che Maria amasse incontrare. La chiamò, le spiegò e dopo meno di mezz’ora Veronica Schiassi era a casa sua e bussava alla porta di Maria.
I personaggi di questa storia, come potrete constatare voi stessi, saranno inevitabilmente tanti, raccontare vita e miracoli di ognuno di essi potrebbe rappresentare un vero problema editoriale. Della dottoressa Schiassi, qualche cosa si deve pur sapere, sarebbe altrimenti incomprensibile il comportamento di Maria, zitta e mosca con il marito e poi giù a raccontare tutto a un’amica e a piangerle sulla spalla. Veronica Schiassi era anzitutto una donna sincera e trasparente come l’acqua di roccia, tu le parlavi e capivi che ti stava ascoltando, non era lì solo ad aspettare che tu finissi per dire la sua; tu le raccontavi i tuoi guai, e capivi che lei soffriva con te e per te, e che si sarebbe spaccata il petto pur di aiutarti a risolvere i tuoi problemi. Dei suoi studi di psicologia non ricordava granché, non le erano mai sembrati utili: il bene che faceva alle persone che ricorrevano a lei per aiuto era diverso, sgorgava dalla sua solidarietà e dalla sua compassione, dal suo rifiuto costante di dare e ricevere pietà. «Ci denudiamo entrambe» diceva dei suoi incontri con le donne che le chiedevano aiuto «così è più facile, non sapranno dove nascondere le armi». La sua vera passione era comunque la politica: il suo credo il femminismo d’antan, che le aveva fatto perdere due mariti e un numero considerevole di compagni, in parte fuggiti, in parte cacciati, nessuno in realtà degno di vivere con una donna, almeno secondo il suo parere.
Un giorno, molti anni prima, quando erano entrambi giovani e, diciamo così, ardenti, Veronica aveva preso Primo per mano e se l’era portato a letto, per vedere com’era, gli aveva detto. L’esperienza era stata gustosa, per entrambi, ma lei aveva subito dopo chiarito che non si sarebbe ripetuta.
«Tu mi piaci, e anche molto – gli aveva detto, – ma per una donna come me sei pericoloso».
Non gli aveva mai spiegato perché, ma Primo sentiva che aveva ragione e che si sarebbero fatti del male. Così erano rimasti amici.
Primo non era mai stato un uomo politicamente attivo e non era mai stato convinto dell’esistenza di un partito che rappresentasse realmente le sue idee. Se doveva immaginare un partito politico che gli potesse andare a genio lo costruiva come una chimera, un’associazione di comunisti esuli dal partito repubblicano, priva di dirigenti. Gli piaceva il comunismo perché era l’unica ideologia capace di solidarietà e compassione che potesse andar bene a un ateo; immaginava che i comunisti dovessero avere tutti radici repubblicane, perché altrimenti non sarebbero stati laici: trovava che la base dei vecchi partiti di sinistra era cento volte migliore della loro dirigenza. Tutto ciò lo teneva per sé, più per pigrizia che per cautela, come teneva per sé la sua grande simpatia per i movimenti femministi, perché aveva paura di sembrare ridicolo, o di sentirsi dire, come qualche volta gli era capitato, che lui in fondo era un carabiniere infiltrato nelle brigate rosse. Così aveva seguito con grande preoccupazione le avventure di Veronica, sempre in prima fila quando si trattava di battersi per i diritti, l’aborto, la pillola, le unioni omosessuali, e le era stato vicino tutte le volte che qualcuno l’aveva bastonata, la polizia, i fascisti, una volta persino il pappone di una sua paziente. Veronica lo sapeva e per Primo avrebbe dato un occhio della testa, un sacrificio veramente notevole considerato il fatto che Primo era un uomo.
Veronica restò con Maria a lungo mentre Primo fingeva di guardare un film e le gemelle litigavano fra loro, un fatto raro e che poteva essere giustificato solo da un grande disagio. Alla fine Veronica discese e si portò Primo in una stanza lontana dal soggiorno, non voleva che le bambine ascoltassero.
«Un’altra volta – Veronica era molto seria e notevolmente incazzata – chiedi a me i nomi dei medici frequentabili, non sono tanti. Quello lì poi. E quello che mi fa più rabbia è che è così difficile incastrarlo, ne esce sempre perfettamente pulito, sembra invulnerabile. Maria non vuole nel modo più assoluto che questo fatto sia reso pubblico, nessuna denuncia, bisogna far finta di niente».
E poi, fumandosi una sigaretta dopo l’altra, raccontò. Era un fatto, disse, che purtroppo si verificava con una certa frequenza. Una donna sola, in un ambulatorio senza infermiere, visitata da un medico malato di mente, che la fa spogliare, anche se non è necessario, che la sottopone a controlli che non hanno niente a che fare con i suoi problemi, che scambia l’orrore che ha pietrificato Maria per accondiscendenza e azzarda carezze e gesti ignobili. E Maria che sopporta tutto perché si vergogna, e vorrebbe scappare, ma ha paura di uno scandalo, e poi le ragazze come lei, con quelle storie tristi alle spalle, non si fidano della giustizia, temono sempre che crederanno all’altro, mai a loro. Vogliono dimenticare, cancellare il senso di vergogna che provano.
«Tu devi aiutarla Primo, adesso la vado a chiamare, ma devi comportarti come se questo incontro non fosse mai avvenuto, domani la porterai da un altro medico, straccia le ricette di questo sporcaccione. Niente ricordi, niente vendette».
Primo era d’accordo su tutto, tranne che sull’ultima parola. Era per natura vendicativo, si sarebbe portato un magone dentro per molto tempo se avesse rinunciato a rivalersi, in qualche modo. Per il momento, accolse Maria con tutta la tenerezza della quale era capace e si consolò pensando a quello che avrebbe detto Proverbio, che la vendetta è un piatto che deve essere mangiato freddo, e che, comunque, basta sedersi sulla riva del fiume, prima o poi il cadavere di quel Reggiani doveva pure passare di lì. Ma su questo punto non erano mai andati d’accordo, secondo Primo la cosa veramente importante sarebbe stata buttarlo nel fiume, di dove poi lo portava la corrente chi se ne frega.
La mattina dopo – era il giorno del compleanno, e non solo del compleanno, del dottor Ricci Ribaldi – Primo chiamò il medico che gli avevano segnalato, quello anziano, che era in pensione e visitava poco e raramente. Non c’era segretaria, gli rispose lui direttamente. Sembrò molto contento di quella telefonata, conosceva i suoi libri, gli piacevano molto, avrebbe visto volentieri sua moglie. Quando?
«Faccia lei – la voce del medico era allegra – nella mattina a qualsiasi ora, tanto sono qui che mi gratto, bella fine per un dermatologo».
A Primo la voce di quel medico andò subito a genio, tanto che gli raccontò, senza entrare in particolari, della visita precedente.
«A mia moglie non è piaciuta, è una questione di pelle…».
«Questo me l’ha già detto – il medico adesso rideva – se no cosa me la porterebbe a fare? Scherzo – concluse – posso anche immaginare perché a sua moglie non è piaciuta. Ma si tranquillizzi non ne faremo oggetto di conversazione. L’aspetto».
La seconda telefonata Primo la fece al Questore, Macbetto Fusaroli, un suo vecchio amico, un amico vero, di quelli che non hai bisogno di mettere alla prova.
«È una cosa che mi è successa e che ti voglio raccontare. Ho bisogno di un consiglio».
Fusaroli gli diede un appuntamento per la tarda mattinata, così Primo decise di andare subito dal medico, fuori il dente, fuori il dolore.
Maria era molto tesa e preoccupata quando entrarono nello studio del prof. Forlivesi, e fu solo vedendolo che si acquietò, perché quel prof. Forlivesi era lo stesso che aveva visto spesso in televisione, del quale aveva letto molti articoli sui giornali di sinistra, un uomo battagliero e allegro, al quale si cuciva male addosso il vestito dello scienziato. Adriano Forlivesi era descritto come un pessimo carattere da alcuni e come una consolazione ambulante da altri, dipendeva. Primo ricordava anche una sua raccolta di poesie dialettali, in genere piuttosto sconce, il tipo di lirica ispirata che piace ai romagnoli. Considerate le innumerevoli cose che aveva fatto, Primo si chiese se aveva avuto il tempo di studiare medicina. Forlivesi parve leggergli nel pensiero, perché per una buona mezz’ora scherzò con Maria, spiegandole quanto fossero ignoranti i dermatologi, parlando male dei medici in genere e di quelli più noti in particolare, mettendo anche se stesso in ridicolo. Alla fine Maria era insieme divertita e perplessa, ma certamente non era preoccupata e aveva deciso di fidarsi.
«Potrei anche evitare di visitarla – le disse il professore – sarebbe in fondo sufficiente che lei mi descrivesse la lesione. Mi basta sapere se si tratta di una roba secca o di una roba umida: perché se è secca so come umidificarla e se è umida so come seccarla. Il guaio è che se poi non guarisce non so più cosa fare».
Nella mezz’ora successiva Primo fu escluso dalla conversazione, che fu dedicata prevalentemente ai doveri di una madre, alla sua solitudine e alle responsabilità che deve assumersi «specie quando il marito è un intellettuale di sinistra, a quelli di oggi i bambini non piacciono neppure da mangiare» aggiunse Forlivesi. Così Primo apprese che una delle gemelle aveva qualche problema scolastico, tanto che da qualche tempo bagnava il letto e aveva gli incubi. Forlivesi le raccontò che anche lui, da piccolo, era diventato un «piscione» quando aveva scoperto che sua madre voleva bene anche a sua sorella e aggiunse che sua madre, per ripicca, si era fatta tutte le malattie cutanee descritte nel libro del marito, dermatologo anche lui, più una, che portava appunto il suo nome, dermatosi criptogenetica della Mafalda, nessuno ne aveva più visto un caso. Finì che Maria invitò il professore a cena, lui le regalò due libri di racconti che aveva scritto da giovane, la raccolta delle sue poesie dialettali e un tubetto di crema che tirò fuori da un cassetto. Poi la accompagnò alla porta, la baciò sulla fronte e la mandò a casa dalle bambine, chiedendo a Primo di restare, voleva chiedergli un favore.
Quando rimasero soli Primo capì che Forlivesi non era per niente l’allegrone ottimista che aveva liquidato i disturbi psicosomatici di Maria senza offenderla e facendosela amica. In realtà era un uomo di non molte parole, che capiva le cose al volo e non amava i discorsi ambigui e le parole incerte.
«Che cosa le ha fatto?» gli chiese per prima cosa, quando si sedettero davanti a due caffè che il professore aveva preparato.
«Non lo so – rispose Primo – non lo vuol dire. La Schiassi mi ha chiesto di non entrare più in argomento. A dire il vero non so se faccio bene, mi piacerebbe avere anche un suo parere».
«Quello che consiglia la Schiassi bisogna farlo – Forlivesi era pensieroso e sembrava parlare a se stesso – non credo che esista una donna più capace di capire le altre donne. Non è una psicologa, è una strega. Se capisse anche gli uomini, allora avrei paura di lei. Ma capisce solo le donne, e questo mi tranquillizza».
Primo era perplesso, gli sembrava che il professore stesse confabulando.
«Ma lei come fa a sapere, come ha fatto a capire…».
«Facile – rispose Forlivesi – negli ultimi mesi ho visto almeno tre ragazze che dovevano lamentare la stessa cosa, più o meno la stessa cosa: una ha raccontato di essere stata palpeggiata, a una seconda ha infilato un dito nel sedere, chissà perché. Difficile dimostrarlo, le donne non vogliono finire sui giornali».
«Lei lo conosce bene?».
«Più che bene, è un mio allievo, ha preso il mio posto quando sono uscito di scena. Stupido, ma per bene. In teoria è sposato, ha anche una figlia, ma non credo che vada molto d’accordo con la moglie. Gli sono sempre piaciute le donne, ma deve avere una grande paura di sua moglie, che mi dipingono come una donna piuttosto irruente. Va in chiesa, anche se non credo che sia religioso, lo fa per convenienza. Gentile con i superiori, maleducato con gli inferiori. Ce ne sono tanti così, un vero disastro. Poi, a cinquant’anni, invece di preoccuparsi della prostata, il desiderio di costruirsi una bella serie di ricordi di vita sessuale ha cominciato a prevalere sulla prudenza. Bisogna riconoscergli un certo intuito nella scelta delle sue vittime, ne parlano ma non lo denunciano. E va avanti così da anni».
«Ma, lasciando stare il caso personale, non c’è modo di fermarlo, è evidente che sta facendo un mucchio di danni, e poi chi dice che non passi a qualcosa di peggio?».
«Ci penserò. Bisognerebbe fargli paura, è un individuo estremamente pavido. No, non bastonarlo, fargli paura. Ne ha parlato alla Schiassi? Lei è donna che dimostra sempre una solida e commendevole assenza di principi morali, quando si tratta di punire un maschio».
«In realtà ieri sera avevo altro per la testa. Oggi però ho occasione di parlarne, in modo non ufficiale, al Questore, è un mio buon amico».
«Macbetto – disse sempre più pensieroso Forlivesi – mi ricordo. Ha fatto diventare matto suo padre. Era lui che sceglieva gli scompartimenti con molte persone anziane per raccontare storie terribili su quello che aveva previsto una leggendaria (e inesistente) “profetessa di Meldola”: nell’anno che sta per iniziare tutti gli anziani moriranno».
«Non ha idea di quanto sia cambiato» la voce di Primo era un po’ incerta.
«Difficile, – disse in modo conclusivo il professore – uno che si chiama Macbetto non può che credere nelle streghe».
Si lasciarono da amici, il professore rifiutò sdegnosamente di farsi pagare, ribadendo al contempo il suo credito di una cena preparata da Maria.
«Verrò appena mi dite che è guarita dall’eczema. Che ne so io che sia proprio un eczema. E se fosse contagioso?».
Primo non capiva più quando il medico scherzava e quando parlava seriamente. Decise di non approfondire e andò, di corsa, si stava facendo tardi, a trovare il suo amico Macbetto.