EPILOGO

AVEVANO LITIGATO...

Avevano litigato. Una litigata terribile durante la quale lui le aveva detto che era una fica pazza e insaziabile e lei gli aveva detto che lui non era mai riuscito a soddisfarla, mai, e lui aveva detto che avrebbe fatto meglio ad andarsi a cercare un altro uomo che se la scopasse perché lui non poteva soddisfarla, era vero, non poteva, non voleva, non gliene importava niente, e le aveva voltato la schiena nel letto.

Non l’avrebbe scopata. Lei poteva chiedere e supplicare finché voleva ma lui non l’avrebbe fatto. Era questo il potere che aveva su di lei, sulla sua fama, sulla sua bellezza, sui suoi soldi, sul fatto che lei fosse più vecchia di lui, e più saggia (aha!) e più eccitata... trentatré anni e con la fica sempre in fiamme lei, ventisette anni, calmo e con un cazzo grosso che poteva dare o togliere, come voleva, lui. Non era il suo uccello meccanico, il suo giocattolo, il suo vibratore; era il suo uomo.

Era lui ad avere il cazzo. Lei poteva piangere e singhiozzare e strofinarsi contro la sua schiena ma era pur sempre lui ad averlo, il cazzo. Lui leggeva, conservava la sua dignità, la sua mascolinità, esercitava la mente, faceva finta di non sapere che lei era tutta bagnata per lui, che le facevano male le braccia e le gambe dal desiderio, che le sembrava di impazzire.

Poteva sempre andare in bagno a masturbarsi con la doccia o con una bottiglia o con qualche altro aggeggio... ma lui sarebbe rimasto lì sdraiato tranquillo a leggere, un giovane dio del fiume con i peli rossi sul corpo lungo, la bocca piccola e rossa, meditabonda, sopra la barba di rame, e gli occhi verde-nocciola sognanti dietro gli occhiali.

Lei avrebbe voluto piangere e strapparsi i capelli e masturbarsi più volte e graffiarlo e prenderlo a pugni e affondargli i denti bianchi e perfetti nel collo e morderlo fino a tagliare la vena giugulare. Ma si tratteneva. Invece si ricompose e disse: “Non mi hai mai soddisfatto, mai, mi rendi così nervosa che vengo e non sento niente, oppure non vengo affatto.”

Aveva colto nel segno. La bocca rossa tremò come una ferita. Gli occhi verde-nocciola sembrarono improvvisamente pieni di lacrime. Perfino la barba rossa sembrava moscia. E lei assaporò il trionfo di averlo offeso, lui, il suo bambino, il suo amore, e allora aprì le braccia e lo strinse. “Ti amo,” disse. Poi si abbracciarono forte, scossi dai singhiozzi.

Ma lui non voleva scoparla, non quella sera. Lei gli prese la mano e se la mise fra le gambe, nel punto in cui le labbra erano umide come una roccia coperta di muschio in riva al lago, e disse, “Questo è per te,” e lui ritirò la mano.

Lei voleva morderlo, ucciderlo, succhiargli il sangue, ma invece lo strinse ancora più forte, pensando all’uomo in fondo alla spiaggia al quale pensava quando si masturbava, del quale lui era geloso, l’attore con gli occhi azzurri come il mare, l’aria mascalzona con le donne, le spalle larghe, e l’uccello (probabilmente) enorme. Ma lei non lo voleva. Era quello il punto; ecco che cosa la faceva infuriare davvero. Lei voleva questo, questo amante coi capelli rossi, questo cazzo rosa. La fica è un organo molto selettivo. E si era fissata su quell’uomo, si era modellata su quel cazzo, si era rifugiata in quel particolare amplesso, in quelle braccia, in quella stretta da orso peloso. Chiuse gli occhi e li strinse e le lacrime caddero quasi gridando.

Si addormentò con la testa sul suo petto, le onde che si accavallavano, si rompevano e si accavallavano di nuovo, il gatto nero del vicino che dava la caccia ai conigli, ai topi, alle lucertole, alle altre creature piccole e pulsanti che poteva torturare a lungo prima di ammazzare.

La mattina dopo lei lo desiderava ancora. Lui aveva il mal di testa, l’abbracciò brevemente, dicendoglielo, si alzò dal letto quasi bruscamente e si infilò in bagno, sotto la doccia. L’acqua scrosciò a lungo, i rubinetti cigolarono, le bottiglie tintinnarono, lei restò sdraiata sul letto ad acqua, a masturbarsi con un dito umido, strofinandosi la clitoride con movimenti circolari, infilandosi dentro altre due dita appiccicose, fino in fondo, e pensando all’attore dagli occhi azzurri in fondo alla spiaggia; non le piaceva.

Lui partì in macchina per andare in città, col tetto abbassato. Portava il berretto che gli aveva dato lei la prima settimana e spingeva giù l’acceleratore e pensava a una ragazza in città con la quale andava una volta e forse avrebbe potuto andare a trovarla e scoparsela ancora. Non era pericolosa, lo adorava, era carina e ordinaria e normale, una bibliotecaria con gusti un po’ lascivi in fatto di sesso e un bambino piccolo, che ogni tanto li sorprendeva a letto. Lui piaceva alle donne. Anche troppo. Si innamoravano della sua aria da ragazzino, della sua faccia da bambino, dei suoi occhi feriti, della sua vulnerabilità. Lui poteva lasciarla, poteva sempre lasciarla. Non era ancora completamente prigioniero. Apparteneva ancora a se stesso.

Più tardi cominciò a sentire la sua mancanza, le telefonò, “Ti amo,” disse. “Anch’io ti amo da morire,” disse lei.

Lui tornò a casa. Lei stava scrivendo lettere con la sua segretaria, un’altra donna alla quale lui piaceva, ne era certo. Per tutto il pomeriggio lavorarono insieme nella casa sulla spiaggia, scrissero, fecero il caffè, prepararono le bistecche per la cena, telefonarono. Lei scrisse per un po’ al sole, con il rumore delle onde che copriva quello della macchina da scrivere della segretaria. Il sole caldo sulla schiena la eccitò e andò nello studio, dove anche lui stava scrivendo, gli si sedette sulle ginocchia e gli accarezzò le palle, glielo fece diventare duro e poi se ne andò.

La segretaria se n’era andata e gli ospiti non erano ancora arrivati. Dovevano arrivare da un momento all’altro. Lei era in cucina a pelare un avocado maturo per l’insalata, morbido e bagnato come la sua fica che aveva palpitato per lui tutto il giorno. Si era masturbata una volta, due volte, tre volte, ma aveva ancora bisogno di lui. Solo quel suo cazzo dentro di lei le avrebbe dato la pace. La masturbazione era solo una serie di spasmi.

Teneva le dita morbide e bagnate sul frutto maturo e chiamò perché la aiutasse ad affettarlo. Lui arrivò, si mise ad affettare il frutto morbido e bagnato, mentre lei si lavava le mani, le asciugava con un asciugamano di carta e poi gliele infilava nella cintura dei jeans, fino all’uccello, nelle palle, che erano così belle, perfettamente rotonde, morbide, lisce e teneramente rosate. Poi gli infilò la lingua dentro e fuori dall’orecchio e gli leccò via il succo dell’avocado dalle dita. “Ce l’ho duro come un sasso,” sussurrò lui, “per te. Facciamo in tempo a scopare?” “Devono arrivare da un momento all’altro,” disse lei, stuzzicandolo. Era profumata, incipriata, con i capelli spazzolati, portava sandali col tacco alto e un caftano semislacciato senza niente sotto. Lui le toccò la collinetta soffice del pube. “Passerotta pelosa,” disse, ripetendo una vecchia frase del primo, delizioso mese che avevano passato insieme. “Dio, ce l’ho proprio duro... sei sicura che non facciamo in tempo?” “Non adesso,” disse lei, divertendosi a stuzzicarlo di nuovo. Aveva l’uccello gonfio sotto i bottoni di rame dei jeans, le faceva venire in mente gli anni di scuola, le pomiciate nel soggiorno, il sesso delizioso e colpevole degli anni dell’adolescenza. “Non posso andare ad aprire la porta in questo stato,” disse, indicando quell’erezione imponente, che lei toccò ancora, per sentirne la durezza. “Smettila,” disse lui, ma senza troppa convinzione.

Gli ospiti se ne andarono. Il tavolo era coperto di portacenere pieni, di bicchieri sporchi di vino, di bottiglie vuote di Mouton-Cadet, di resti di formaggi, di crackers inzuppati, di cioccolatini mezzo rosicchiati, una bottiglia vuota di brandy, due calici con fondi di brandy dorato e luccicante. “Non dobbiamo pulire, vero?” disse lei. “No, no,” disse lui. “Possiamo farlo domani mattina.”

Adesso lei era stanca. Quasi troppo stanca per scopare. Il colmo dell’ironia, no? Andò in bagno a bagnarsi la faccia, a spazzolarsi i capelli e a profumarsi un po’.

“Non sono mica sicura di fidarmi di Joanna,” disse, parlando delle persone con le quali avevano passato la serata. “È molto dura, vero?” Stava pensando che tutti erano più duri di lei, più furbi, meno disponibili a farsi fregare, meno aperti, più attenti. Forse anche lui era così... con tutta la sua dolcezza. Forse anche lui era duro.

“E non sono nemmeno sicura di fidarmi di te,” disse lei, dallo spogliatoio.

“Che cosa?” disse lui, ferito, meravigliato, perplesso.

Lei andò fino al letto e lo guardò negli occhi.

“Una bella cosa da dire a un uomo con il quale stai per fare all’amore,” disse lui.

“Non volevo dire quello che credi. E poi non sei mica obbligato a fare all’amore con me.”

Un mucchio di cose le passarono per la testa. Il suo matrimonio in pezzi, il suo costante desiderio per quell’uomo che non si sprecava, che metteva ben in chiaro chi dei due era il padrone, la sua tenerezza per lui, la sua paura nel sentirsi così aperta e vulnerabile, la sua paura perché aveva tanto bisogno di lui. Era impossibile spiegargli tutto questo... anche se lui le era vicino, la sua anima gemella, anche se era l’uomo che la capiva meglio di quanto si capisse lei stessa, il suo migliore amico al mondo, un uomo. Perfino in quel momento, perfino nel rapporto di vicinanza e di tenerezza che avevano avuto per un anno, c’era una frattura, un fallimento di comunicazione, il serpente nel giardino dell’Eden.

“Non hai capito che cosa volevo dire. E se cercassi di spiegarti il malinteso aumenterebbe. A volte mi chiedo se sotto tutta quella tua dolcezza anche tu non sia duro. Ecco tutto. Non è importante. Non riesco nemmeno a spiegarmi...”

Lui sembrava ferito. “Volevo fare all’amore, scoparti,” disse. “Mi sentivo così tenero e eccitato. Perché stai cercando di tirar su una parete fra noi?”

Lei non lo sapeva. Lui si alzò e andò a spegnere la luce. Prese una candela profumata di pino dal soggiorno e annaspò con l’accendino, tentando di accenderla.

“Per creare un’atmosfera romantica,” disse in tono sardonico. La candela non si accendeva. Lei saltò sul letto ad acqua facendolo traballare. Si diede da fare con l’accendino, voltando la candela a testa in giù, bruciandosi le dita e coprendosele di cera verde... senza riuscire ad accendere il dannato stoppino.

“Aspetta... vado a prenderne un’altra in soggiorno. Perché non ti metti quella fantastica camicia da notte nera?”

Durante uno dei suoi viaggi lei aveva comperato un mucchio, di biancheria buffa per accontentare i gusti di lui, un po’ da rivista per soli uomini. C’era un corsetto di raso nero con nastri rossi e molto pizzo nero, giarrettiere lunghe, calze nere con la cucitura. C’erano parecchie camicie da notte nere e trasparenti, una con nastri di raso rosa sotto il reggiseno tenuto su dal filo di ferro, che le buttava in fuori le tette, con i capezzoli che spuntavano sopra l’orlo di pizzo nero. Era aperta davanti. Lei la indossò senza le mutandine. Aveva la fica gocciolante. Tornò a letto. La candela si era accesa.

“Come fai a dubitare del mio amore?” chiese lui, come se sapesse che era meglio non insistere sugli altri argomenti, fiducia, dolore, durezza.

“Non ne ho mai dubitato,” disse lei. Lui era il suo amore, l’unico uomo che fosse riuscito a farla sentire completamente donna, completamente penetrata, aperta, vulnerabile. Utero, donna, ovulo, aperta, vulva, vulnerabile. Quando le toccava la fica si sentiva nuda come l’avocado pelato che aveva tenuto in mano quella sera prima di cena.

“È un fiore,” disse lui, muovendo il dito intorno alla sua clitoride, toccando quel posticino tenero proprio dietro l’apertura, chinandosi per continuare ad accarezzarlo con la lingua.

“È bagnata per te,” mormorò lei.

Non voleva pensare a scopare o a venire o a litigare o a niente del genere, ma solo alla sua lingua che le scivolava sulla fica, a tutto quel bagnato, bagnato come l’avocado, e al letto ad acqua che si muoveva, che li cullava, e all’oceano che ruggiva di fuori. Si chinò sul pene e cominciò a stuzzicarlo con la lingua, facendola scivolare intorno alle palle, intorno alla verga, toccando la pelle, fermandosi, poi toccandola ancora, finché lo sentì gemere, come se fosse lei a tirar fuori gemiti, grugniti, canzoni, non solo sperma dal pene, come se fosse lei a farlo parlare.

Poi lui le succhiò i capezzoli, toccandole i seni nel punto in cui uscivano dalle coppette di pizzo nero. Lei aprì gli occhi per un secondo e lo vide chino su di lei a succhiarle i capezzoli, quel bambino con la barba rossa, con quel grosso cazzo duro, quell’uomo, quel prodigio, quel miracolo, quella meraviglia.

C’era qualcosa che non andava. Tutto il suo femminismo, la sua indipendenza, la sua fama erano finite in quella sensazione di resa, di bisogno. Aveva bisogno di lui. Aveva bisogno di quell’uomo.

Quando la penetrò, quando il suo uccello entrò dentro di lei, lei gemette qualcosa sulla resa, sul fatto che si vergognava di aver tanto bisogno di lui, di essere così disperatamente innamorata di lui. “Ma anch’io ho bisogno di te,” disse lui. “Non posso farlo senza di te. Anch’io ho bisogno di te.”

Prima lei era sopra di lui e si muoveva su e giù ritmicamente, sul suo uccello, mentre lui le teneva la clitoride fra due dita umide e le infilava un altro dito nel culo. Il mondo svanì: c’era solo quel pulsare ritmico nella fica, e a lei sembrava l’universo, la galassia, un profondo buco nero nello spazio. Venne per la prima volta con un tremito che la costrinse a urlare e a mordergli una spalla. Era come se l’orgasmo non fosse solo nella fica, ma nella gola, nella voce, in tutto il corpo, e l’urlo era parte di quell’orgasmo, parte di quella liberazione. Lui la girò con forza ma teneramente a pancia in su e cominciò a scoparla, steso sopra di lei. E lei pensò, sentendo quel cazzo che entrava e usciva da lei come se le possedesse l’anima, che se fosse morta in quel momento, in quel preciso istante, non le sarebbe dispiaciuto, sapeva cos’era la felicità, aveva vissuto, l’aveva provata. C’era di più: voleva un bambino suo, un bambino loro, voleva quel dolore, quel piacere, ma anche se fosse morta in quell’istante la vita non le sarebbe sembrata avara con lei.

Stava venendo ancora. Glielo disse. Poteva aspettare? chiese. E lei poteva smettere di muoversi per un attimo? chiese lui. Lei si mosse più adagio, gli strinse l’uccello con i muscoli della fica, lui gemette. La bocca di lui era dolce e tenera in quella di lei, i suoi occhi erano abbastanza grandi da contenere tutta l’oscurità. La voltò ancora, mettendosela sopra, tenendo fermo il cazzo, i fianchi. Lei gli strinse il cazzo con i muscoli cercando di non muoversi su e giù, finché lui si calmò un po’.

Poi ricominciarono a muoversi entrambi, allacciati, cazzo e fica, e non c’era altro al mondo, nient’altro che importasse. Lei venne con un fremito che le scosse tutto il corpo e le strappò un altro urlo, un urlo che aveva poco di umano. Tutto si fermò intorno a lei mentre urlava e veniva; pisciò anche, si vergognò e si scusò. “Amo la tua pipì, la tua merda, le tue scoregge, la tua fica stretta,” disse lui, affondandole le unghie nel sedere, e poi le abbassò la fica sul cazzo ritto, come un guanto sul dito. “Vuoi il mio sperma?” chiese, una domanda retorica... perché certo che lei lo voleva, voleva sentire lo spruzzo su per la fica, fino al cuore, fino alla punta delle dita, e lui gemette e cominciò a venire, singhiozzando, tremando, urlando, e lei sentì la base del pene pulsare come se tutti i filamenti volassero volassero volassero su dentro la sua fica, che aspettava, per prenderli tutti.

Giacquero immobili nella pace assoluta dopo il terremoto. Lei sentiva un piccolo sole splendere nel plesso solare, aveva le gambe e le braccia troppo pesanti, non riusciva a muoverle, sembravano piene di mercurio, membra di piombo. Lui la tenne stretta mentre il cazzo si afflosciava e si curvava allontanandosi da lei. “Non ti lascerò mai,” disse, “mai.”

“Tu credi,” disse lei, con la voce roca per il gran urlare, debole per l’amore, “che molti amanti abbiano provato quello che abbiamo provato noi e poi siano morti comunque?”

“Non importa,” disse lui, “non me ne importa niente.”

“Questo significa , non è vero?”

Lui la strinse forte.