6.

LA FINE DI UN MATRIMONIO HA UN RITMO...

Oggi sono in molti a credere che ci voglia coraggio per essere cinici. In realtà il cinismo è il massimo della vigliaccheria. Per essere aperti e sinceri sì che ci vuole veramente coraggio... e spesso l’unica ricompensa è il dolore.

La fine di un matrimonio ha un ritmo, proprio come il corteggiamento... solo, al contrario. Si prova a ricominciare da capo ma non si fa altro che peggiorare le cose. Lamentele su lamentele... e dopo un po’ ci si ritrova entrambi sfiniti, esauriti, disperati. È allora che arrivano gli avvocati a raccogliere i cadaveri. La morte è avvenuta molto tempo addietro.

Tutto quello che feci quell’estate faceva parte dell’ultimo atto del mio matrimonio, anche se allora non lo sapevo. Il primo sintomo della fine (proprio come il primo sintomo dell’innamoramento) era l’incapacità di lavorare. Giravo frenetica da un amico all’altro, da una attività all’altra, evitando di tornare a casa, evitando di mettermi alla scrivania, incapace di mangiare e di dormire.

E così non c’è da stupirsi se proprio quell’estate riallacciai l’amicizia con Michael Cosman. Michael era l’amico della mia gamba rotta, l’amico che aveva rallegrato quei tre cupi anni a Heidelberg, l’amico che mi aveva dato e dato senza mai cercare di portarmi a letto. Era anche l’unica persona al mondo che poteva sapere qualcosa di Bennett e Penny... e io volevo sapere, non resistevo all’idea di venire a conoscenza di ogni triste particolare. Dopo le rivelazioni di Bennett a Woodstock ero piombata nel passato e non facevo altro che pensare a Heidelberg, che voltare le pagine della mia vita come se fossero state quelle di un libro, avanti e indietro, in continuazione, tra il passato e il presente. L’avvenimento che più di ogni altro aveva simboleggiato la frattura nel matrimonio con Bennett era stato la rottura della gamba... e quello che Bennett aveva rotto, Michael aveva risanato.

Michael Cosman era un medico generico di Great Neck per il quale l’esercito non era stato capace di trovare nessuna occupazione di carattere medico. Gli era stato affidato il compito di disinfettare la sala mensa in modo che non vi allignassero gli scarafaggi e di intervistare le persone che avevano trasmesso malattie veneree ai militari (le quali, spesso, con vero spirito democratico, si offrivano di infettare anche lui). L’esercito lo stava facendo diventare pazzo, proprio come me. Ma lui reagì facendosi crescere i baffi a manubrio e piantando marijuana nelle aiuole dell’ospedale (contribuiva, insieme alle margherite e alle viole, a formare la parola USAREUR), mentre io reagii rompendomi una gamba. (Esiste forse una differenza fra la psicologia maschile e quella femminile? Domanda retorica.)

A volte penso che potrei benissimo raccontare la storia della mia vita prendendo come spunti le varie ferite che mi riempiono il corpo. Potrei scrivere un intero romanzo in cui l’eroina, nuda davanti allo specchio della memoria, conta tutte le ferite che ha sul corpo e racconta la storia di ciascuna, in quale circostanza se l’è fatta, quanto ha sofferto, con chi ha diviso la sofferenza, chi ha cercato di curargliela e come. Ogni capitolo porterebbe il nome della ferita e comincerebbe con un racconto dell’incidente che l’ha “causata”. Solo che il lettore si accorgerebbe subito che la “causa”, in realtà, è qualcosa di molto diverso da un semplice incidente.

Racconterei di quella ferita opalescente, a forma di luna crescente, che ho sul ginocchio destro, causata da un altrettanto opalescente frammento di conchiglia sulla spiaggia di Fire Island durante l’estate dei miei otto anni. Racconterei di come mi lasciai andare in ginocchio sulla sabbia, senza accorgermi che la conchiglia penetrava nel mio osso bianco, di come mi alzai in piedi e un getto di sangue rosso arterioso zampillò sulla sabbia candida. Racconterei dei sei punti pallidi sul palmo della mano sinistra, una ferita che mi feci con un grosso coltello da pane durante l’estate dei miei quindici anni, un’estate tremendamente infelice passata a lavorare come aiuto cuoca e cameriera a Camp Merryhill; volevo una buona ragione per smetterla di preparare panini e giacere in pace in un lettino dell’infermeria a leggere Dickens e a sentirmi una povera orfanella in compagnia di Pip e Oliver Twist. Racconterei delle pile di panini di marmellata e burro di arachidi che stavo per preparare quando improvvisamente calai la mano sulla lama del coltello che avevo inavvertitamente puntato verso il soffitto, tagliando la mia polpa tenera invece di quella bianca e spugnosa del pane. Racconterei della strana ciste fibrosa che ho sulla schiena, fatta con il sangue infiltratosi nei tessuti della schiena e delle cosce quando mi diedero, apposta, un cavallo troppo vivace al Ft. Sam Houston Riding Club e finii contro uno spunzone di roccia col fondo della schiena. Racconterei di quanto fui fortunata a perdere solo un po’ di sangue invece dell’uso delle gambe, di come finii contro la roccia col sedere invece che con la spina dorsale, di come il mio angelo custode mi salvò dalla paralisi, e di come, improvvisamente, nell’estate del 1966, mi accorsi che in Vietnam c’era una vera e propria guerra segreta: me ne accorsi durante quelle tre settimane di ospedale fra tronconi umani con la faccia da bambini e bambini veri trattati al napalm.

Poi tornerei indietro nel tempo di più di trent’anni e racconterei di quel buchino che ho nel collo, che si formò nel grembo di mia madre, il misterioso residuo di un altrettanto misterioso avvenimento pre-natale le cui tracce sono evidenti ancora oggi. Racconterei dei tre punti che ho sopra l’occhio sinistro, una ferita che mi feci quando mi catapultai sopra il cordone della macchina da scrivere elettrica durante uno degli attacchi di disperazione che fanno parte della carriera di scrittrice quanto la macchina da scrivere stessa. Terrei per ultimo quel gonfiore quasi impercettibile nello stinco sinistro, l’ultima traccia della frattura alla tibia che mi feci sui pendii ghiacciati di Zürs nel 1967, quando Bennett era così preso dalla storia con Penny che odiava la sola idea di andare in vacanza con me e quindi mi aveva sfidato a sciare su pendii ghiacciati e comunque troppo difficili per me... e lui lo sapeva benissimo.

Oh, potrei raccontare la storia del mio matrimonio con Bennett attraverso gli incidenti che abbiamo avuto insieme. Interessante notare che fui sempre io a farmi male. E lui... che si sentiva l’eterna vittima delle ingiustizie di questo mondo e quindi in diritto di infliggere qualunque tipo di punizione a chiunque... si arrabbiava con me perché mi facevo male. Ma basterà che racconti uno di questi incidenti, basterà per capirli tutti.

Torno indietro di sette anni e la mia vita scorre al contrario: la stanza soleggiata nella quale sto scrivendo diventa la New York umida e coperta di quell’estate di folle gelosia, poi la piovosa Heidelberg dell’inverno 1967-68. Stiamo percorrendo la Autobahn verso sud e i tergicristallo segnano archi di fango sul parabrezza della macchina. Mancano due settimane e mezzo a Natale e Bennett ha tanto insistito perché partissi per le Alpi austriache con due amici e ci stessi un paio di settimane, a sciare. Verrà anche lui, quando il lavoro gli permetterà di raggiungerci. Il suo “lavoro” in realtà è Penny... e io non lo so. E ancora una volta Bennett è riuscito a farmi sentire in colpa perché me ne vado... quando in realtà è lui che ha scelto di restare a Heidelberg per potersi scopare Penny in santa pace sul divano del mio studio, senza tema di essere sorpreso se non dai miei manoscritti.

Il commiato è stato triste. Bennett mi ha doverosamente ricordato che sono una “bambina viziata”... perché sto andando in vacanza (lui ha tanto insistito) mentre lui resta a casa. Tutti i sensi di colpa che ha perché si sta liberando. della moglie per scoparsi l’amante vengono doverosamente riversati e proiettati su di me. E io, che sono una specialista dei sensi di colpa, mi sento male come un cane. Povero Bennett, penso, mentre corriamo veloci sull’autostrada, diretti verso sud, e fortunata me, che me ne vado a sciare.

Non che io avessi una gran voglia di andare a sciare, tanto per cominciare. Proprio come l’oceano azzurro e scintillante mi fa subito venire in mente i pescecani, le alpi di zucchero contro il cielo blu mi fanno venire in mente ossa rotte, seggiovie bloccate e disgraziati sciatori impalati sulle loro stesse racchette. La prima volta che Bennett mi aveva portato a sciare (nella Foresta Nera, quella primavera) non sapevo nemmeno come si facesse a infilarsi quei dannati aggeggi e lui mi aveva lasciata sola alle prese con stringhe e cinghie e se n’era andato giù per la collina, ricomparendo solo sei ore dopo. I nostri rapporti nelle occasioni sportive si svolgevano più o meno a quel modo. Lui era l’atleta; io no... e tutte le volte che riusciva a convincermi a seguirlo in una delle sue peripezie atletiche finiva poi col lasciarmi sola e abbandonata su una spiaggia o su una montagna o su un campo da baseball o su un sentiero fangoso.

Ma adesso sto andando a sciare e cerco con tutte le mie forze di sentirmi fortunata. Gli sci sono sul tetto della Volkswagen, gli scarponi nel baule, il fango sul parabrezza e io nel sedile posteriore con il cane: i miei amici Chuck e Ricey Higgins mi stanno dicendo che non devo sentirmi in colpa per Bennett, ma io ho il cuore spezzato.

“Oh, starà benissimo,” dice Ricey e probabilmente sa che è rimasto a casa per potersi scopare Penny in santa pace.

“Potrà sciare quanto vorrà dopo Natale,” dice Chuck. “Non devi sentirti in colpa.” In retrospettiva, probabilmente sapevano tutt’e due di Penny.

Due settimane a sciare nell’idillica cittadina austriaca di Kössen, ai piedi delle Alpi. Anche se non è alta stagione c’è molta neve e con i miei due amici al fianco imparo presto a scivolare sui pendii. Passo le giornate a prendere lezioni per perfezionare il mio stile, sperando che Bennett possa sentirsi orgoglioso di me, quando arriverà. Alla sera vagabondiamo tutt’e tre per le strade azzurre di neve del villaggio, lungo il cimitero con le lapidi illuminate da lumini di cera (“Così i morti possono leggere?” è il commento di Ricey), lungo il cimitero militare con tutti i nomi dei morti sepolti sotto altre tormente scolpiti nel granito nero e freddo. La neve azzurra si solleva in piccoli vortici, il fumo di anime risorte. Copre i nomi, li scopre, li ricopre... fa sì che i defunti sembrino padre e figlio, morti in epoche diverse.

Più tardi, sola nella mia stanza, mi sento triste e spaventata. Non avrei mai accarezzato seriamente l’idea di andare a letto con qualcun altro durante i primi anni del mio matrimonio... ma e Bennett? È davvero solo? Perché non mi telefona da dieci giorni? È arrabbiato con me perché sono andata in vacanza senza di lui?

Dopo undici giorni gli telefono io, in cerca di rassicurazione. Bennett sembra triste. La sua voce è così strana che vengo presa dal panico.

“Oh, Bennett è sempre strano al telefono,” dice Ricey più tardi.

“Non è l’uomo più caloroso del mondo,” dice Chuck con filosofia. Io cerco di rassicurarmi. È sempre strano, mi dico... il che è vero. Ma poi sorge la domanda inevitabile: che cosa faccio sposata a un tipo sempre strano?

Bennett arriva tre giorni prima di Natale e con lui arriva la pioggia.

La pioggia comincia a pisciare giù per i pendii, lavando via la neve, mettendo a nudo i massi, i ceppi, i fienili, l’obelisco nero del cimitero di guerra, che assume un aspetto ancora più cupo e freddo. Noi quattro restiamo in albergo a languire, pregando che la pioggia smetta di cadere.

“Se smette oggi, la neve sarà ancora buona,” diciamo speranzosi tutti i giorni. E tutti i giorni la pioggia ricomincia a cadere.

Chissà come, questa pioggia è colpa mia. È il risultato del fatto di aver avuto un’infanzia ricca mentre Bennett era povero, la pioggia è la conseguenza del fatto che ho sciato tanto bene durante le due settimane di separazione da Bennett, la pioggia è la conseguenza del mio sospetto e della mia rabbia repressa.

E quindi cerco continuamente di scusarmi. Mi scuso con Bennett per la pioggia. Mi scuso di nuovo... il che serve solo a farlo infuriare di più. Una cosa che ho imparato solo di recente è che a volte scusarsi con le persone produce l’effetto opposto a quello voluto. Prima di tutto, se ci si scusa per qualcosa di cui non si ha colpa, in realtà non si fa altro che confermare i sospetti dell’altro. Così il tempo è brutto per colpa mia. Io ci credo. Ci crede anche Bennett. Chuck e Ricey non ci credono affatto... ma chi sono Chuck e Ricey dopotutto? Solo due amici. Invece io e Bennett siamo gli dèi della pioggia.

Con lo zelo fanatico dell’atleta frustrato, Bennett insiste perché si facciano i bagagli e ci si muova fino a una zona più alta. Certamente più su ci sarà la neve. E così partiamo per Kitzbühel.

Ora, Kitzbühel di solito è una delle stazioni sciistiche più affollate. Caffè, gente che passeggia per la strada principale, discoteche, istruttori abbronzatissimi in maglione e berretto rosso, con il taschino dei pantaloni rigonfio della fiaschetta del brandy... ma oggi Kitzbühel sembra deserta. La strada principale è vuota, scivolosa di nevischio, desolata. Ricey e Chuck sono rimasti in albergo a giocare a carte. Bennett marcia risoluto su per la Hauptstrasse, deciso a sciare nonostante il tempo. Io annaspo risoluta dietro di lui.

La funivia parte su per la montagna nonostante il vento. Alcuni impavidi rossi come gamberi (forse veterani di una spedizione artica) salgono con noi in funivia. Ridono e si danno delle gran pacche sulle schiene imbottite, ingoiando brevi sorsate di qualche acquavite teutonica mentre la cabina scricchiola sul cavo gelato. Naturalmente io ho la matematica certezza che il cavo si romperà... e in realtà questa possibilità non mi sembra poi così terribile davanti alla prospettiva di quello che ci attende in cima alla montagna. Uno dei nostri compagni di funivia è un volonteroso sciatore con una gamba sola... uno di quegli indomiti veterani del passato imperialista della Germania. Può darsi che abbia perso una gamba in guerra... ma scia due volte meglio di tutti gli altri. Ecco il tipo di pazzo scatenato che osa frequentare le piste in una giornata del genere. La gente normale si guarda bene dal fare una cosa simile. Tranne il mio amato marito... la cui bocca ha assunto or ora un’espressione di fredda determinazione. La cabina entra dondolando nella stazione. Bennett con la racchetta mi fa il segno di muovermi, come se fossi una mucca.

Fuori dalla stazione c’è una gran tormenta: non si riesce a vedere un metro più in là, letteralmente. Ci fermiamo e ci infiliamo gli sci, anche se il vento minaccia già di farci cadere. Infilo gli sci e li allaccio agli scarponi con uno schiocco rassicurante. Una volta infilati gli sci sorge il problema di che cosa farci. Mi tremano le ginocchia. Me la sono cavata con gli sci in qualunque situazione quando Bennett non c’era, ma adesso che è qui, mi sento improvvisamente impacciata. È come se fossi salita in cima a una scala, avessi guardato giù, e improvvisamente mi fossi dimenticata come si fa a camminare.

Ci mettiamo in fila indiana (Bennett dietro al tremendo sciatore con una gamba sola, io dietro a Bennett, un altro idiota dietro di me, e mi pesta anche gli sci). Procediamo alla cieca nella tormenta, pugnalando il ghiaccio con le estremità delle racchette, facendo scivolare una gamba tremante davanti all’altra. Alla mia sinistra c’è una sagoma confusa e bianca che dev’essere una montagna. Alla mia destra c’è un’altra sagoma confusa e bianca che, come dice la mia racchetta, deve essere un precipizio. Come ho fatto a cacciarmi in questa situazione... io, una semplice ragazzotta da diaspora dell’Upper West Side? La pista da pattinaggio del Central Park è sempre stata la mia unica olimpiade invernale. La grande nevicata del ’47 aveva quasi sepolto il Museo di storia naturale e le macchine parcheggiate ai lati della strada sembravano gigantesche pagnotte di pane bianco... ma che cosa cavolo sto facendo su una sporgenza gelata nelle Alpi austriache con un cinese impazzito e un crucco con una gamba sola? E chi è l’idiota che continua a pestarmi gli sci? Dico una preghierina a Dio, a mia madre e al mio amato analista, il dottor Happe: Ti prego, fai che viva abbastanza da pubblicare un solo libro; giuro che non ti chiederò mai più niente.

Alla fine la sporgenza stretta e gelata fa posto a quello che sembra il pendio di una montagna: un’altra sagoma confusa e bianca, questa volta in discesa. Quando lasciamo la sporgenza e usciamo all’aperto, una folata di vento ci investe con tanta ferocia da farci quasi cadere all’indietro. Riesco a tenermi in piedi solo affondando disperatamente le racchette nel terreno ghiacciato.

“Per amor di dio, Bennett, torniamo indietro,” grido in direzione della giacca a vento rossa.

“Non sono venuto fin quassù per tornare indietro. Mi sono già perso una settimana di sci!” risponde lui in tono strafottente.

Perso una settimana. Già. Ecco l’essenza della personalità di Bennett: sentirsi defraudato. Non potevo vederlo in faccia eppure sapevo che espressione doveva avere in quel momento... cupo, indignato, deciso a non permettere che il vento lo defraudasse di una discesa. E così la sagoma confusa e rossastra partì giù per il pendio della montagna, mentre io restavo lassù in cima, paralizzata dalla paura, con le punte delle racchette affondate nel ghiaccio per impedire al vento di farmi cadere. Bennett in realtà cadde proprio qualche minuto dopo, ma io non lo vidi, né avrei potuto far qualcosa se lo avessi visto. E a quel punto, non avrei nemmeno voluto far qualcosa.

Dopo una lunga lotta contro il vento (irrimediabilmente vinta dal suddetto), Bennett si calmò e decise di ridiscendere con la funivia. Durante la discesa non mancò di chiamarmi codarda e di accusarmi di avergli rovinato la giornata di sci. Oh, non ha senso biasimare lui. Il mondo è pieno di uomini tirannici, meschini, avari e stirici che odiano le donne. Ce n’è sempre una bella riserva. Sono se stessi, com’è se stesso il serpente quando morde e lo scorpione quando punge. Siamo noi da biasimare, noi che non ci alziamo e ce ne andiamo alle prime avvisaglie di questi comportamenti. Le stupide siamo noi, che ci facciamo coinvolgere da questa logica e stiamo al gioco. Pensiamo di comperare la sicurezza vendendoci in schiavitù... e poi, dieci anni più tardi, decidiamo di andarcene lasciandogli i mobili, accorgendoci che razza di beatitudine è liberarsi da quella tirannia costi quello che costi, e che comunque la sicurezza non esiste.

Il giorno dopo ripartimmo, sempre più su, fra le Alpi. Visto che non c’era neve a Kitzbühel forse avremmo potuto trovarla a Innsbruck, St. Anton, Lech o Zürs. Chuck e Ricey vennero con noi. Loro stavano bene dappertutto, tanto potevano sempre giocare a carte davanti al camino e bere Glühwein e mangiare dolci austriaci.

La pioggia continuava a pisciare dal cielo quando, dopo tre giorni di vagabondaggio, arrivammo a Zürs am Arlberg... una squallida stazione sciistica senza alberi, circondata da cime brulle avvolte in nuvole di pioggia.

Le stazioni sciistiche più alte delle Alpi, sopra la zona in cui crescono i sempreverdi, hanno tutte lo stesso aspetto brullo e desolato... un agglomerato di eleganti alberghi stile chalet sui pendii più bassi di montagne aguzze e, nelle belle giornate, un incredibile cielo blu... accecante, a causa dell’atmosfera rarefatta. Quando le montagne sono coperte di neve, c’è il sole e gli skilift vanno avanti e indietro, queste stazioni sciistiche “serie” hanno un loro fascino, ma quando il sole scivola giù fra i picchi e la neve si copre di ombre violette, il paesaggio diventa freddo, lunare, tristissimo, angosciante.

Nelle giornate di pioggia è anche peggio. Si è lassù per sciare ma non si può sciare perché non c’è neve. E non c’è nient’altro da fare... tranne giocare a carte e mangiare. Oppure leggere... preferibilmente qualche tomo enorme, imperscrutabile. Passammo quattro giorni allo Sport-Hotel Edelweiss a guardare la pioggia che veniva giù, a giocare a hearts, a mangiare gnocchi, Schnitzel e arrosto di maiale con le mele fino a sentirci male. A rimpinzarci di dolci mit Schlag. E di Kaffee mit Schlag. E a stordirci bevendo Glühwein tutto il pomeriggio accanto al caminetto.

Io ero perfettamente felice con quel genere di vita. Stavo leggendo l’Ulisse al ritmo di cinque pagine al giorno, ingrassando al ritmo di cinque chili al giorno, felice e contenta di non dover mai più infilare un paio di sci finché mi fosse rimasto un soffio di vita.

I pendii erano pericolosamente ghiacciati. Avevo sentito terribili storie su quello che succedeva sulle piste ghiacciate anche a sciatori espertissimi. Nulla mi avrebbe impedito di restare in albergo con Chuck e Ricey la mattina, in cui Bennett decise di cimentarsi con quelle piste... nulla tranne lo sguardo di sfida che lui mi lanciò. Oppure c’era qualcos’altro? La storia di Bennett con Penny era cominciata (adesso lo so) l’autunno prima e il suo atteggiamento di rifiuto nei miei confronti era andato continuamente aumentando. Anche se non sapevo niente di Penny, sapevo. Avevo delle antenne troppo buone per non accorgermi di niente. In realtà (me ne accorgo all’improvviso, con uno shock) stavo seriamente pensando di lasciare Bennett. Una gamba rotta era la punizione perfetta per aver avuto pensieri così cattivi.

Vigilia di Natale, Zürs am Arlberg

Ha piovuto tutta la notte, la pioggia si è ghiacciata e le piste sono di vetro, come i fianchi delle montagne delle favole. Verso l’alba la neve comincia a cadere vorticando e a posarsi sulle piste, quel tanto che basta per farle sembrare coperte da due strati di cipria fresca. Ghiaccio puro travestito da neve fresca. Dopo una colazione a base di caffè e croissant, arranco dietro Bennett verso le piste per principianti.

“Cominceremo con una discesa facile, va bene?” dice lui, per farmi contenta. E io faccio di sì con la testa e intanto penso, Non esistono piste facili. Ma Bennett sta già salendo con lo skilift e io lo seguo. Ricordo le parole del mio primo maestro di sci, un ex studente universitario: “L’unica cosa di cui ti devi preoccupare è la forza di gravità.” Solo? In cima alla salita dello skilift la forza di gravità colpisce e io cado per terra, col sedere, sul terreno ghiacciato. Una ragazza tedesca tutta pimpante si arrabbia con me come se avessi commesso una tremenda gaffe, come se avessi fatto a bella posta un gesto volgare, un rutto o un peto. Cerco di rialzarmi, mi guardo intorno in cerca di Bennett e mi accorgo che la gamba mi fa male, ho un crampo. Tutti quei giorni seduta senza far niente allo Sport-Hotel Edelweiss mi hanno messa fuori uso. Intanto Bennett sta già scodinzolando giù per la pista.

Lo seguo. Ho ancora quel crampo alla gamba, non riesco a piegare le ginocchia, sto sciando con le gambe rigide, piena di paura, proprio quello che tutti i manuali di sci dicono di non fare mai, per nessuna ragione.

Bennett fa due curve perfette, con gli sci paralleli, e io cerco di imitarlo, come un personaggio di Chaplin nella Febbre dell’oro. Le racchette sono due armi letali nelle mie mani, ho le gambe rigide come due baccalà e gli occhi chiusi perché non oso guardare. Proprio in quel momento probabilmente finii su una lastra di ghiaccio, perché cominciai a scendere così in fretta che per la prima volta in vita mia capii il significato dell’espressione veloce come un lampo. Caddi... lo feci apposta, credo, per fermarmi... e restai sdraiata nella neve, con le gambe e le braccia attorcigliate come altrettanti Pretzel, chiedendomi che cosa diavolo avessi mai fatto di male per meritarmi un dolore così tremendo alla gamba.

“Tutto bene?” urlò Bennett. Risposi con una serie di gemiti in crescendo. Guardavo con aria melodrammatica il cielo blu, scintillante, e pensavo alle Nevi del Kilimangiaro... il brano in cui l’eroe dice qualcosa su come si pensa sempre che si possa svenire dal dolore anche se in realtà non succede mai.

“Non muoverti,” mi ammonì Bennett, ma io ero immobilizzata in una posizione così tremendamente dolorosa che dovevo cercare di cambiarla. Uno dei miei sci si era infilato nella neve, avevo un piede prigioniero nello scarpone, gli attacchi speciali a scatto automatico non erano scattati per nulla e tutto il peso del corpo si scaricava proprio sulla gamba ferita.

Bennett arrivò e diagnosticò “una semplice slogatura”. Poi cercò di tirarmi fuori il piede dallo scarpone. Il dolore era lancinante ma la vergogna mi faceva soffrire ancora di più.

L’aiuto arrivò sotto forma di due giovanotti con gli sci ai piedi che comparvero in cima allo skilift portando una strana gondola di alluminio. Uno aveva degli occhialoni da sole giallo vivo e l’altro un buco fra gli incisivi anteriori. Tutto il mio essere era concentrato su quel buco. Non so come, riuscirono a tirarmi fuori dallo scarpone (la gamba si stava già gonfiando), a infilare un lungo pallone di plastica sul piede, a chiuderlo e a gonfiarlo. Venni sollevata sulla gondola, avvolta in coperte (come un cadavere) e gli sci vennero legati sulla barella vicino a me. I miei soccorritori si allacciarono gli sci e partirono giù per la discesa, con il cielo blu-neon e il sole che scintillavano sopra di noi e la neve abbagliante di sotto. Il nostro passaggio sollecitava occhiate di curiosità, di sollievo e anche di paura tra gli sciatori che ci scivolavano accanto. Scendemmo la montagna zigzagando con una leggerezza e una velocità incredibili, poi ci avviammo lungo la Hauptstrasse bagnata. Mi sentivo tutta sballottata. Altre occhiate da avvoltoio da parte dei miei simili e io che sorrido e agito la mano in segno di saluto, cercando di sembrare coraggiosa. Macchine che passano. Gente che mi guarda fissa. Dolore. Quell’intenso dolore fisico che non riesco a ricordare se non come un bianco accecante.

Vengo portata nello studio di un indimenticabile pescecane di nome dottor Holger Kapp (un austriaco avarissimo che ha imparato le ultime novità in fatto di medicina a Boston), e lì mi fanno le radiografie. Appare Bennett, mi rassicura ancora una volta che si tratta di “una semplice slogatura”. Arrivano le lastre, assicurandoci che si tratta di una bella frattura, una frattura a spirale sopra la caviglia e la tibia spappolata in pezzettini non più grossi del dente di uno squalo. In tedesco la diagnosi sembra ancora più minacciosa: Schienbeindrehbruch am distalen Ende (Aufsplitterung in mehrere Bruchstücke)! Ecco che cosa succede a una donna che osi anche soltanto pensare di lasciare il proprio marito!

Poi ricordo l’ingresso a tempo di valzer del dottor Kapp che cercò di venderci un sacco di ferramenta per ossa, stampelle speciali, e una settimana (almeno!) di zuppa di pollo al prezzo di bistecche. Durante il viaggio di ritorno avrebbe potuto succederci qualunque cosa, ci ammonì. Scivolate sulle Autobahn ghiacciate, nebbie impenetrabili, autisti ubriachi. Ma Bennett insistette per riportarmi al buon vecchio ospedale dell’esercito, dove i medici non avevano uno strano accento e credevano nei “metodi tradizionali” per la cura delle fratture. E così quella sera stessa partimmo in automobile.

Autobahn deserte e piovose fino a Heidelberg. La più triste vigilia di Natale della mia vita... e credetemi, ce ne sono state un sacco poco divertenti. Ricey e Chuck erano sulla nostra Volkswagen maggiolino e noi avevamo la loro, più grande, sul cui sedile posteriore eravamo riusciti a sistemare un materassino di gomma gonfiabile. Io ero stravolta dal dolore, piena di rimorso piagnucoloso per aver rovinato le vacanze di Bennett e anche profondamente imbarazzata perché dovevo far pipì in un mazzetto di kleenex e poi buttarli fuori dal finestrino.

In men che non si dica mi trovai all’ospedale militare, completamente fatta di Demerol. Niente riusciva più a infastidirmi. Addormentata o sveglia, sciavo come una campionessa scodinzolando e volteggiando sui pendii, veleggiando sul ghiaccio, superando in volo rocce e macigni, burroni e pareti verticali. Tutte le volte che mi svegliavo da questi sogni al Demerol c’era una novità. Arrivò padre Glascock, per esempio, portandomi alcune copie ciclostilate dell’ultimo numero del suo bollettino; mi benedisse e poi se ne andò in fretta... come se avesse paura di dover affrontare con me qualche disputa teologica della quale non si sentiva all’altezza. Pete Hatch, il capo degli ostetrici-ginecologi dell’ospedale, si fermò quel tanto che bastava per raccontare una serie di barzellette ginecologiche che avevano tutte a che fare con l’odore vaginale. Phyllis Stein, la presidentessa del Club delle Mogli degli Ufficiali Ebrei (CMUE), mi fece i soliti auguri e mi rassicurò sul fatto che sarebbe riuscita a procurarmi cibo kosher, se l’avessi desiderato. Perfino il primario dell’ospedale fece la sua comparsa per raccontarmi la storia delle sue due gambe rotte (Davos e Kitzbühel) e per avvertirmi che la cosa migliore da fare era rimettersi subito gli sci per farsi passare la paura. Solo mio marito non si faceva vedere molto. Rabbia e sensi di colpa congiuravano per tenerlo lontano ma io con tutto quel Demerol non me ne accorgevo nemmeno.

Una settimana dopo, però, intrappolata in casa, prigioniera del gesso e dell’ira di Bennett, tutto l’orrore della mia impotenza mi colpì all’improvviso. Non potevo guidare né camminare, né salire le scale, né fare il bagno con quel gesso. Bennett si rifiutava di farmi dormire nel suo stesso letto perché il gesso lo “disturbava”, diceva. Si rifiutava di tornare a casa per colazione perché la vista di me isterica e lacrimosa lo deprimeva. La gamba mi faceva un male tremendo e senza i sedativi che mi davano all’ospedale ero uno straccio. Sogni di mutilazione avevano preso il posto di quelli di volo. Saltellavo tristemente da una stanza all’altra, cercando di pulire la casa, di lavorare, di rimuovere quella sensazione di tradimento che non mi lasciava mai, che si insinuava dappertutto. Bevevo caffè. Leggevo la posta. L’intero esercito americano di stanza a Heidelberg sembrava afflitto da una specie di morbo della filastrocca e nella posta del mattino c’era sempre qualche novità. Il Club delle Mogli dei Medici (CMM) per esempio, mi ricordava: “Col passar degli anni / Non dimenticare / Gli estranei sono amici / Che devi ancora incontrare!”

Ma dov’erano questi amici? E dov’era mio marito? Disperso. Imboscato con la moglie di un altro ufficiale. E io ero a casa con i piedi legati, come tutte le brave mogli cinesi.

Chissà come, proprio quando la giornata cominciava a sembrarmi insopportabile, arrivava Michael Cosman. Arrivava con qualche joint, una bottiglietta di champagne, mazzi di fiori, libri, fragole, brandy. Probabilmente i vicini pensavano che la nostra fosse una relazione infuocata, vedendo la sua macchina parcheggiata davanti alla casa per ore e ore. Invece passavamo quelle ore a chiacchierare. E a ridere. Raccontandoci storie. Ricordando New York. Raccontando barzellette polacche. Bevendo. Fumando i joint. Prendendo in giro i tedeschi e l’esercito. E scambiandoci terapie matrimoniali.

I giorni in cui non poteva venire, Michael telefonava. Io saltellavo fino al telefono sulla gamba buona, mi lasciavo andare sul divano, appoggiavo il gesso sul brutto tavolino da salotto in dotazione all’appartamento e ci scambiavamo terapie matrimoniali telefoniche per due ore a spese del governo.

Ufficialmente mi veniva a trovare per chiedermi come stavo e lasciarmi piangere sulla sua spalla. Ma non ci volle molto perché cominciasse a parlare dei suoi problemi, a raccontarmi le sue reazioni quando era venuto a sapere che DeeDee aveva una ultra-pubblicizzata storia d’amore con un hippie indigeno, quali pensava ne fossero le ragioni, come la razionalizzava e così via. Poi tirava fuori i ricordi della sua giovinezza e mi gratificava di lunghi monologhi alla Jean Shepherd sulla sua insegnante di violino, Mrs. Gletscher; sulle sue esplorazioni sessuali nei cessi della PS 103; sui giorni della fraternity a Cornell; su quella volta che si era messo un cucchiaio di Worcester sull’uccello e aveva chiesto alla sua ragazza di leccarla; su Harriet Finklestein che aveva la più grossa clitoride che avesse mai toccato; su Mr. Weinburger (della Weinburger Window e Shade) che l’aveva trovato a letto con Mrs. Weinburger; su quello che dicevano le sue varie donne quando venivano (o sui loro urli e gemiti); su quel suo sogno ricorrente, un’orgia con i personaggi dei fumetti di Archie; sul fatto che un giorno avrebbe perdonato a DeeDee la storia con l’hippie e poi, il giorno dopo, immaginandola nei particolari più vivaci, l’avrebbe accoltellata. Eccetera.

Ero più grata a Michael di quanto lo sia mai stata a un essere umano. Lui veniva a trovarmi perché aveva bisogno di me; io lo ascoltavo e, anche se non c’erano certo le premesse per un’autentica amicizia, questa sbocciò. Anche molto tempo dopo che la mia gamba fu guarita, Michael rimase il mio migliore amico e confidente. In sette mesi l’osso guarì, lasciandomi un piccolo gonfiore sul polpaccio, peraltro snello... e io e Michael continuammo a parlare.

Sei anni più tardi. Estate. Michael e DeeDee hanno divorziato da quasi quattro anni, io e Bennett ce l’abbiamo fatta a restare insieme con grande stridore di denti (i miei), organizzandoci la vita in modo da vederci il meno possibile. Eterno ribelle in cerca di una causa, Michael si è rifiutato di entrare in un ospedale e ha aperto un consultorio nel West Seventies, in una vecchia casa di arenaria, dove distribuisce consigli su come non prendersi lo scolo e pillole anticoncezionali a ragazzi e ragazze.

“Che cosa posso fare per te?” mi chiese, offrendomi una sedia nel giardino dietro casa, pieno di fuliggine, di cocci di bottiglie e di cenere, dove non crescerebbe nemmeno la marijuana. Ma proprio nel mezzo c’era un tavolo coperto da un bell’ombrellone giallo. Bevemmo vodka e mangiammo olive nere. Michael mi studiò attentamente.

“Che cosa succede? Ti diverti a fare la donna famosa? Non ti vedo da secoli.”

“Vuoi davvero sentire tutta la storia?”

Michael mi guardò sopra i grossi baffi biondi, la barba in tinta e gli occhiali da pilota color ambra. Sembrava che sapesse già perché ero andata a trovarlo.

“Se Bennett avesse avuto una storia con qualcuno a Heidelberg, con chi l’avrebbe avuta?”

Michael mi guardò fisso, esitò, si accorse che sapevo, e poi disse senza indugi: “Penny. Credevo che lo sapessi da anni.”

“Bennett me l’ha detto lo scorso fine settimana.”

“E che cosa ha fatto di questo un fine settimana diverso da tutti gli altri?”

“Non lo so. Forse risente di tutta l’attenzione che mi viene rivolta e non sa come farmelo capire. Forse vuole distruggermi. Certo che funziona. Non mi sono mai sentita così isterica in vita mia. Giro per le strade fumando di rabbia. Mi viene voglia di ammazzare tutti gli orientali che incontro.”

“Cristo... sono stupefatto. Credevo lo sapessi da secoli.”

“Perché?”

“Quando sei tornata da Vienna, quando vi siete rimessi insieme... mi hai detto che avevate discusso tutto quanto...”

“E così credevo. Evidentemente, io ho discusso tutto quanto. Non Bennett. Questa è una delle cose che mi fanno impazzire dalla rabbia. Io sono sempre stata la bambina cattiva. Perché lui voleva così.”

“Dio mio!” disse Michael.

Perché non me l’hai detto?”

Michael succhiò la pipa: “Per la stessa ragione per cui tu non mi hai detto niente di DeeDee, credo. Ho sempre saputo di Bennett e Penny, fin dall’inizio... proprio come tu sapevi di DeeDee e del suo hippie. Perché non mi hai detto niente?”

“Avevo paura di farti del male. E non volevo prendermi la responsabilità di rovinare il tuo matrimonio. Probabilmente era un modo come un altro per lavarmene le mani. Mi dichiaro colpevole.”

“Anch’io.”

Restammo seduti a guardarci, pensando a come sarebbero andate le cose se avessimo saputo. Avremmo avuto la nostra storia, ci saremmo messi insieme, avremmo abbandonato i rispettivi coniugi molto tempo prima? Ci eravamo improvvisamente zittiti, sorpresi dai ricordi di quegli anni.

“Quando hai saputo di Bennett e Penny, comunque?” chiesi.

“Quasi all’inizio della storia. Ti ricordi l’appartamento di Penny e Robby?”

“Proprio sopra il tuo, no?”

“No. Era su un’altra scala. Ma comunque, un pomeriggio tornai a casa all’improvviso per un allarme e visto che la nostra scala era piena di bambini, corsi su per l’altra, pensando di tagliare per la stanza di servizio. E chi ti vedo in cima alle scale (con la faccia di uno che fa la pubblicità alla stricnina)? Bennett. Mi guarda. Io guardo lui. Distoglie gli occhi. La prima cosa che penso è: Penny e Bennett? Merda secca! Lui dice, ‘Ciao Michael’ con quella sua aria beffarda da psichiatra. Io vorrei dirgli ‘Gran figlio di puttana!’... ho sempre pensato che ti trattasse come una merda, comunque... ma naturalmente, essendo un codardo di professione, non dico niente, e lui trotterella giù per le scale. E così seppi. Poi DeeDee me lo confermò. Penny le aveva raccontato tutto nei più luridi particolari, sembra. Tutti sapevano.”

Mi si riaprono le ferite. Sanguinano in modo invisibile.

“Tutti?”

“Sì. Tutte le volte che vedevo te, Bennett e Penny trotterellare sulla pista di footing con le magliette di cotone restavo secco. Tutti sapevano tranne te. E Robby, credo. Ma d’altra parte, Robby aveva una storia con la sua segretaria... francamente, pensavo che Bennett si comportasse in modo tremendamente crudele con te.”

“E perché non mi dicevi niente?”

“Nessuno con un briciolo di cervello va a ficcare il naso nei matrimoni degli altri. Lo sai perfettamente.”

Abbassai la testa. “Anch’io pensavo che DeeDee ti trattasse in modo molto crudele.”

“E anche tu non mi dicevi niente. In realtà la accompagnavi perfino in macchina in città, agli appuntamenti con il suo amante. Almeno, una volta lo facesti...”

Dovetti farlo, lei...”

“Non mi devi nessuna spiegazione. Non ti sto incolpando di niente. Avevi tanto bisogno di razionalizzare il tuo rapporto con Bennett, di dire a te stessa che andava tutto bene. Nemmeno io, con tutti i conflitti che avevo, ho resistito tanto. Tu ci hai veramente provato.” Mi prese la mano. Stavo cominciando a piangere in silenzio, senza singhiozzi.

“E perché credi che ci abbia provato?”

“Oh, non so. Tutti abbiamo bisogno di razionalizzare le nostre scelte. In parte si tratta di incapacità di ammettere di aver commesso un errore. In parte si vuole restare in coppia per presentare un fronte unito al resto del mondo. Se si ammette che il proprio matrimonio è una merda si è anche costretti ad ammettere che la propria vita è una merda, almeno in parte. E questo è molto difficile. Tutti quegli anni dedicati a un errore? Molto difficile ammetterlo. E così si difende il proprio matrimonio, si razionalizza. Finché qualcosa ci colpisce molto duramente. Nel mio caso è stata la morte di mio padre. Non si può vivere con una persona che si disprezza... anche se l’idea di vivere soli sembra terrorizzante. La vita è troppo preziosa perché ci si possa permettere di consumarla nel disprezzo.”

“Lo so. È terribile disprezzare la persona alla quale si è sposati... non è vero? Ecco come mi sento da anni. È una cosa tremenda, corrosiva, distruttiva.”

“Ricordi l’autunno dopo il nostro ritorno dalla Germania?” Feci di sì con la testa. “Fummo lì lì per intrecciare una relazione. Sembrava quasi che tu lo volessi... e io ero pronto, come non lo ero mai stato a Heidelberg. Allora ero incapace di intrecciare una relazione con chiunque... anche se sapevo di DeeDee. Comunque, sai perché non ho insistito?”

“No. Perché?”

“Perché sapevo che se fossimo diventati più intimi avrei dovuto dirti di Bennett e Penny... e non ne avrei mai avuto il coraggio.”

“Oh, Michael,” dissi, saltando su dalla sedia e andando ad abbracciarlo. Gli ero grata perché mi aveva ricordato, dopo otto lunghi anni di matrimonio con un robot, che al mondo esistono anche uomini per cui sesso e intimità sono due cose strettamente legate.

Michael mi cullò un po’ fra le braccia e spargemmo qualche lacrima sul passato, i tremendi anni in Germania, i nostri matrimoni andati in pezzi, la storia d’amore che non avevamo mai avuto. Poi lui mi respinse, teneramente ma con decisione.

“Ti preparo i fegatini per colazione, va bene?”

“O.K.,” dissi, un po’ delusa. “Speravo che mi avresti scopata, invece... dopo tutti questi anni.”

Michael si fermò sulla porta della cucina e si voltò sorridendo. “Senti. Se tra un mese lo vorrai ancora, prometto che lo farò. Ma non mi va di farlo finché sei in questo stato. Non voglio approfittare della tua isteria.”

“E chi è isterico?” dissi, leccandomi le lacrime agli angoli della bocca.

In cucina mi raccontò barzellette polacche e tirò fuori tutti gli aneddoti di quegli anni di pratica anti-scolo nel West Side. I fegatini friggevano in padella, il cuore mi doleva e tutto andava male. Tranne che, in momenti del genere, è bello avere un amico. Specialmente un amico che cucina i fegatini.

“Ti ricordi della mia gamba rotta?”

“E come potrei dimenticarmela? Eri così sexy con quel gesso. Ricordo che una volta ti eri infilata una calza nera sopra il gesso... con una rosa al ginocchio. Ti piacevo, eh ?”

“Lo sai benissimo che sei irresistibile,” dissi, scherzando ma non del tutto. Stavo pensando a tutti gli uomini che conoscevo e con i quali avevo rapporti teneri, allegri, scherzosi, di amicizia. Perché mai avevo sposato l’unico uomo al mondo col quale non riuscivo a parlare?

“Sai la cosa peggiore di tutta la storia di Bennett e Penny?”

“Non so se ho voglia di saperla.”

Fece una pausa, durante la quale ascoltammo tutt’e due lo sfrigolio dei fegatini che friggevano.

“Be’, allora?”

“No... Sì, va bene. Voglio sapere tutto.” Volevo riaprire le ferite, cospargerle di sale, urlare tutto il mio dolore fino a farmelo uscire dal corpo.

“La macchina di Penny restò parcheggiata fuori dalla vostra casa praticamente per tutto il tempo che tu passasti all’ospedale.”

Quelle parole ebbero l’effetto desiderato. Ricominciai a piangere, a singhiozzi lunghi e soffocanti che sembravano venire dalle viscere, dall’utero, dalla fica. Michael mi abbracciò e mi cullò a lungo.

“Lascia quel bastardo,” disse, “e poi vieni da me. O.K.?”

Quella sera, a casa, chiesi a Bennett come aveva potuto tenermi il muso perché mi ero rotta una gamba quando praticamente aveva passato tutto il tempo a scoparsi Penny mentre io ero all’ospedale. Lui restò impassibile. Dapprima non sembrò nemmeno accorgersi di quello che stavo dicendo. Si stava lavando meticolosamente i denti. Io ero seduta sulla tazza e lo fissavo con odio. Alla fine si tolse lo spazzolino di bocca.

“Tu avevi sempre qualche incidente... lo facevi apposta, per privarmi...” disse, senza avere la minima idea delle implicazioni psicologiche del suo discorso.

“Per privarti di che? Eravamo andati a sciare con le piste che erano lastre di ghiaccio, ricordi? Ed era stata un’idea tua!”

“E così ho avuto una storia con un’altra... bella roba. Il dottor Steingesser non pensa che sia una buona ragione per mandare all’aria il nostro matrimonio.”

“Quale matrimonio? Di quale matrimonio stai parlando? Il tuo matrimonio con il dottor Steingesser o il mio purgatorio con te?”

“Molto divertente.”

“Io non sto affatto cercando di essere divertente.” Mi alzai dalla tazza, mi infilai nel letto e mi tirai le coperte sulla testa. Restai lì sdraiata, assaporando la mia giusta rabbia. Dopo un po’ sentii Bennet che spegneva metodicamente le luci, chiudeva le porte, pantofolando giù per il corridoio. Alla fine si infilò nel letto, accanto a me. Ci fu un attimo di silenzio durante il quale restammo sdraiati fianco a fianco come due sculture su un sarcofago. Il re e la regina. Morti. Marmo freddo da cattedrale.

Finalmente le mie labbra si mossero. Dissero:

“Credo che dovresti uscire da questo letto all’istante perché se resti qui un minuto di più giuro che andrò in cucina prenderò un coltello e ti taglierà le balle. Non voglio il divorzio... voglio castrarti. Semplicissimo. E non devi nemmeno fare la fatica di interpretare quello che dico perché te lo dico chiaro. FUORI DA QUESTO LETTO!”

Bennett afferrò il cuscino e si affrettò a scappare nella stanza degli ospiti.

Passarono alcuni minuti. L’orologio ticchettava. Mi tremavano le labbra e le lacrime mi scivolavano sulle guance e dentro le orecchie. Mi venne in mente una canzone che cantavamo sempre a scuola. “Ho le orecchie piene di lacrime perché a letto, sdraiata, ho pianto per teeeeee...” ma non mi sembrò affatto buffa. Qualcuno passò sul marciapiede, giù nella Settantasettesima strada, con una radiolina a volume abbastanza alto da superare il ronzio dell’aria condizionata.

Avevo toccato il fondo del matrimonio. Dormivamo separati sotto lo stesso tetto, incapaci di confortarci a vicenda. Più soli che se non ci fossimo mai incontrati. Meglio vivere in una caverna come un eremita o passare la notte girando di bar in bar in cerca di qualcuno da portarsi a letto. Non c’è solitudine che possa uguagliare quella di un matrimonio finito. Il letto diventa una zattera in un mare infestato da squali. È come atterrare su un pianeta morto, privo di atmosfera. Non si sa dove andare. Non c’è spazio per sopravvivere. Semplicemente non c’è. L’anima affonda come un sasso.

E in quella solitudine gelata, di pietra, la carne si risveglia... quasi ad affermare la propria forza vitale. La donna, degradata al di là di ogni possibile degradazione, si alza dal letto, cammina in punta di piedi lungo il corridoio moquettato e scivola nello stretto lettino della camera degli ospiti, occupato da quell’estraneo, il suo legittimo consorte davanti a Dio e agli uomini. La luce azzurra della luna filtra dalle persiane. Il vecchio condizionatore stride come un giardino pieno di grilli, e lei si stringe a quel corpo caldo e immobile.

Potrebbero essere due estranei che si sono appena conosciuti in un bar, per l’intimità che c’è fra loro... eppure provano una strana eccitazione.

“Ehi, che cosa stai facendo?” chiede lui.

“Ti sto toccando,” risponde lei.

“Pensavo che volessi castrarmi.”

“Lo voglio ancora.”

La serietà della voce di lei glielo fa diventare duro di colpo. La solita vecchia storia. Lei con le ossa rotte, ammansita, lui sadico, con la sua crudeltà da tutti i giorni. È una cosa che la eccita. Lui potrebbe benissimo essere uno stupratore, un nottambulo in cerca di avventure, un fattorino invitato ad entrare per una sveltina. Sono entrambi gelidi ed esperti. Lei gli apre i pantaloni del pigiama. Lui le cerca la fica. La pugnala selvaggiamente con un dito. Fa male, ma chissà perché questa notte il male le fa bene. La pugnala con un altro dito. Lei si gira sul letto, fa perno sulle sue dita, gli prende in bocca l’uccello duro, vorrebbe staccarglielo con un morso, lasciare solo la radice sanguinante, uno zampillo di sangue che sporcasse quelle lenzuola azzurro luna. Invece lo solletica con la lingua. Lo mordicchia in fondo, gli fa un po’ male ma non troppo. Lui geme. Ha paura ma è anche eccitato. Sarebbe così facile fargli male davvero... ma lei non ci riesce. Preferirebbe far del male a se stessa. Adesso lui le sfrega forte la clitoride e lei lo desidera. Lo odia, lo disprezza, ma vuole quel suo strano cazzo a forma di radice. È lì che la aspetta, scuro come un vecchio ceppo tagliato, contorto, quasi inanimato... o morto. Quella vista la eccita ancora di più. Lui giace immobile, in silenzio, l’uomo che morì con un’erezione e poi diventò ancora più duro con il rigor mortis. Lei si arrampica su quel pene rigido, se lo mette dentro, si muove ritmicamente, lo usa come un cazzo artificiale, con freddezza. L’orgasmo arriva a cerchi concentrici, come l’acqua di un lago immobile in cui venga fatto cadere un sasso da grande altezza. E improvvisamente lui si muove, si muove, in cerca del suo orgasmo. È come se quell’orgasmo fosse nascosto dentro di lei, in profondità, e lui dovesse cercarlo, pescarlo dal fondo, agganciarlo, tirarlo fuori come un pesce che si agita. Ecco. Abbocca. No, non proprio. Ecco. Un piccolo morso. Lui si agita ciecamente, poi riprende il ritmo. Adesso.

Lei osserva lo spettacolo da molto lontano, come se stesse leggendo un libro... eppure la eccita. La lettura la eccita spesso. E spesso non riesce a capire se stia vivendo o scrivendo.

Ecco. Ce l’ha fatta. Ecco, ecco, ecco, ecco, ecco... Non si muove più, resta immobile. Senza parole. Senza gemiti. Pesce e pescatore ansimanti sulla riva del mare. Che tipo di uomo è uno che non fa il minimo rumore quando viene? Un uomo morto?

Lei si sente sporca, piena di vergogna, vagamente necrofila. Scende da quel pene morto e si sdraia al suo fianco, pensa. Come fanno due persone a stare insieme per otto anni e avere così poco da dirsi? Lontani. Potrebbero essere due vagoni merci, attaccati per un po’, poi staccati e spediti ai poli opposti della terra. Eppure lui potrebbe dirmi parole d’amore, pensa lei, le parole mi riscaldano sempre... Ma lui non conosce parole d’amore. Non conosce parole. Le parole sono l’unico linguaggio che non riesce a parlare.