11.

IL POTERE DIVINATORIO DELLE ONDE...

A questo mondo ci sono persone sempre allegre, che sembrano possedere più energia delle altre. È perché non la usano tutta per reprimersi o per illudersi. Essere infelici non è un hobby, è un lavoro a tempo pieno...

La California. Avevo un sacro terrore della California. Era là che gli scrittori andavano a morire, era là che i poeti andavano a farsi distruggere, era là che produttori e parassiti succhiavano i talenti più promettenti, li uccidevano, facevano polpette di ogni genio in boccio che gli cascava fra le grinfie.

I produttori. Si mangiano scrittori a colazione, registi col tè e attori nel corso delle loro cene di sette portate. Eppure, nonostante sapessi benissimo queste cose, nonostante sapessi di non aver la minima fiducia in Britt e di odiarla cordialmente, quella telefonata mi eccitò moltissimo. Fra me e Bennett la situazione era a un punto morto. Quella era una buona scusa per andarmene.

Un’ultima occhiata a Bennett all’aeroporto. In un certo senso fu l’ultima occhiata a Bennett in assoluto. Aveva i capelli neri e lucenti, gli occhi tristi e piccini dietro i riflessi delle lenti spesse, ed era rigido come un baccalà.

No... aspettate. C’è un’altra scena prima di questa. L’ultima volta che io e Bennett facemmo l’amore.

Era il pomeriggio della partenza per la California. L’aereo sarebbe decollato alle 7.30. Ci eravamo alzati presto, entrambi nervosissimi. Bennett preparò la colazione. Io cominciai a fare le valige. Lui andò a giocare a tennis. Io gli preparai uno spuntino per quando sarebbe tornato. Lui tornò. Io avevo finito di fare le valige. Andammo a letto.

Ma adesso ho uno strano vuoto di memoria... una foschia bianca, come le lenzuola sugli occhi di un sognatore spaventato che si sveglia all’alba. Poi un oggetto di vetro, argenteo, sale dal fondo dello stagno della memoria. Che cos’è? Ha la forma di un bastoncino. Luccicante, fragile, argenteo, è il bastoncino di un elfo giocoliere... solo che ci sono dei numeri, delle sfaccettature luccicanti lungo il bordo.

Un termometro Ovulindex! Uno di quegli oggetti che si usano per sapere quando si è fertili... è sul tavolino da notte perché (nella disperazione del mio matrimonio con Bennett e nell’ansia costante di andarmene) ho cominciato a provarmi la temperatura tutti i giorni, per scoprire quali sono quelli fertili, e ogni tanto ho anche lasciato perdere il diaframma nel tentativo di farmi mettere incinta “per sbaglio”.

Quei tentativi furtivi di fare uno “sbaglio” mi riempiono di ambivalenza e terrore. Da una parte so benissimo che i bambini non sono l’ideale per rattoppare un matrimonio in pezzi, dall’altra voglio un bambino che mi tenga compagnia nella disperazione e nella solitudine che mi assaliranno senz’altro quando mi deciderò finalmente a lasciare Bennett. Oppure può darsi che un bambino riesca a cambiare tutto, a ridarci la voglia di vivere, a risvegliare l’amore fra noi. E poi la morte di Jeannie è un incitamento alla procreazione. Avrò una bambina e la chiamerò Jeannie.

Eppure in questo momento, dato che devo andare in California e dato che forse laggiù mi aspetta un destino meraviglioso, cerco il diaframma (sul fondo della valigia) e me lo metto prima del ritorno di Bennett dalla partita di tennis.

A letto ci mettiamo a parlare.

“Sei scocciato perché me ne vado?” chiedo, vedendo la faccia scura di Bennett.

“Sentirò la tua mancanza,” dice lui.

E io mi commuovo. Per la prima volta durante tutti quegli anni di matrimonio sta cercando di essere tenero, di esprimere qualcosa. È ancora un tentativo meschino, stentato, per nulla spontaneo... ma è sempre tenerezza. Mi metto a piangere.

“Non voglio altri che te,” gli dico piangendo.

E allora perché è tutto così triste tra noi? Perfino i momenti di tenerezza sono tristi. Non abbiamo mai riso insieme a letto.

Fa all’amore in modo esperto, meccanico, freddo. Non selvaggiamente come durante quell’estate di rabbia gelosa... ma nemmeno teneramente. Preme tutti i bottoni del mio corpo, come se fossi un calcolatore da tavolo.

In aereo c’è qualcosa di diverso dal solito. Manca qualcosa. La paura. Mi lascio andare contro lo schienale in attesa di quella vecchia, familiare sensazione di panico, la mia vecchia amica paura, la certezza del fatto che sto per morire. Eppure allaccio la cintura di sicurezza e mi sento completamente calma. Il decollo è normale, privo di tensione. L’aereo si solleva, sostenuto dal potere della morte di Jeannie. Ho la sensazione che la mia vita abbia tratto nutrimento dalla sua morte: adesso succeda quello che deve succedere. Non sono io la responsabile di quell’aereo, non sono io che devo tenerlo su. O lo fa Jeannie oppure cadrà... e in un modo o nell’altro, sono in mani più solide e forti delle mie.

Improvvisamente volare mi sembra un miracolo! Giriamo sopra le pianure del Queens, sopra i cortili delle case degli operai con le piscine di gomma gonfiabili che luccicano come rotondi occhi blu. Vorrei che Leonardo da Vinci fosse qui seduto vicino a me. Se solo potesse volare su un 747! Se solo Jeannie fosse qui con me a volare sopra le Montagne Rocciose, verso il grande cielo dell’occidente, a ricominciare tutto da capo, una nuova vita.

È stata veramente la morte di Jeannie a liberarmi dalla paura di volare che mi ha ossessionato per anni... oppure è stato qualcos’altro? Forse la comprensione del fatto che la vita è incontrollabile e imprevedibile, che le nostre ansie non possono influenzare il futuro? Oppure sono improvvisamente cresciuta, sono diventata adulta e non ho più paura di uscire di casa, di lasciare la mamma, la terra, la strada in cui sono cresciuta, Bennett, l’uomo che mi ha cambiato il cognome in “Wing” e poi mi ha impedito di volare?

Abbastanza stranamente, perfino durante gli anni di peggior panico, avevo sempre avuto un sacro terrore del decollo e respirato di sollievo all’atterraggio. Assurdo, perché l’atterraggio era in realtà il momento più pericoloso del volo. Ma forse quello di cui avevo veramente paura era l’idea di lasciare la mia casa... ora, improvvisamente questo fatto non mi terrorizza più. La mia casa è dovunque sono io. E in questo momento sono in aereo sto volando.

Cerco di far conversazione con l’uomo seduto vicino a me... il funzionario di una casa discografica che indossa splendidi abiti californiani. Un miscuglio di Gucci, Hermès e Cardin .. e una camicia di seta sbottonata da cui escono collanine, catenelle e mazzetti di peli ricciuti sulla pelle abbronzata.

Parlammo per tre ore... una conversazione scandita da aperitivi, antipasti, cena, brandy... senza scambiarci i nomi. Poi, un po’ prima dell’atterraggio, lui mi chiese, “Ti chiami White? E abitavi in un grande appartamento con una scala circolare?”

“Sì,” dissi io, sorpresa. E poi ricordai: questo è il primo tizio che ti ha toccato la passera, che ti ha infilato una mano sotto le sottane quando avevi dodici anni! Cristo! Isadora va a Hollywood! Ecco che cos’è Hollywood... un mucchio di gente cresciuta insieme nello Upper West Side... tutti trasformati in una pubblicità ambulante di Gucci, Hermès e Cardin più il potere abbronzante del sole della California? Improvvisamente Hollywood non mi sembrava più minacciosa.

“Tuo padre aveva dei tamburi,” disse il mio vecchio amico. “Mi ricordo di averli suonati.”

“Io ricordo che mi hai infilato una mano sotto le gonne,” dissi io sfacciatamente.

“Strano, io non me lo ricordo affatto!”

“Sei un villano!”

“Ma i tamburi di tuo padre erano straordinari.” Ci pensò su un attimo. “Mi chiedo come mai siamo usciti insieme solo due volte. Tu eri considerata una ragazza diversa dalle altre...”

E allora mi ricordai che cosa pensavo di lui (a parte l’eccitazione e la paura per la prontezza con cui la sua mano mi si era infilata sotto le sottane): un altro snob alla Horace Mann, un altro principino ebreo da scuola privata! Mi sentivo superiore. Ma naturalmente quando avevo dodici armi mi sentivo superiore a chiunque.

L’aereo aveva mezz’ora di ritardo e con suo grande scorno, Britt, la ritardataria cronica, era arrivata con solo venti minuti di ritardo. Quando la individuai tra la folla stava fumando come l’insegna pubblicitaria della Camel in Times Square, masticando gomma e passeggiando nervosamente avanti e indietro, come una tigre in gabbia. Indossava jeans rattoppati che aderivano come guanti a ogni curva (rara!) del suo corpo e una camicetta fatta di vecchi fazzoletti di seta. Sul dito portava un anellino con la scritta AMORE a lettere d’oro massiccio. La sua bocca dura non diceva certo amore e i suoi capelli lanosi e arancione erano stati acconciati di fresco da un esperto parrucchiere di Beverly Hills in un perfetto stile afro-californiano. Un alone di riccioli incorniciava la piccola testa ostinata e una manciata di lentiggini color caramello le segnava delicatamente naso e guance.

“Andiamo,” disse, appena recuperato il bagaglio, “devo portarti subito in albergo perché ho un appuntamento ‘interessante’ più tardi.”

“E tuo marito?” le chiesi, sorpresa.

“L’ho lasciato dopo aver letto il tuo libro. Ti ho già detto quanto ha significato per me quel libro. E dovresti vedere questo tizio di stasera. Dio mio... una bellezza. Ti piacerebbe da morire. Ma non ho nessuna intenzione di presentartelo...” Fece una pausa, mi guardò con occhio critico, poi disse: “Oh, non so. Forse potrei anche presentartelo... basta che tu mi prometta di non metterti a dieta.”

Ecco Britt... competitiva e maligna. Non faceva mai una cosa gentile (come venire all’aeroporto) senza contemporaneamente far di tutto per sottolineare la sua superiorità.

Magra. Certo che era più magra di me. Ci pensava la sua cattiveria a mantenerla sottile. Quella... e un assortimento di sintomi ipocondriaci da riempire il manuale Merck.

Il Beverly Hills Hotel. Chi può descrivere il primo sguardo di un newyorchese al Beverly Hills Hotel? Era lì davanti a noi, rosa come la torta di compleanno di una bambina, con tutte quelle palme sottili e ondeggianti al posto delle candeline e le luci misteriose che uscivano dal fogliame. Il nome di quella massa di stucco rosa brillava di luce verdissima.

Rolls-Royce con strane targhe scivolavano lungo il viale incontro a ragazzi principeschi coi capelli biondo platino. Se quelli erano gli addetti al parcheggio, come sarebbero stati gli ospiti dell’albergo? Oh, splendore incredibile! La terra di Oz, lo specchio di Alice... con Britt come Regina di Cuori... adesso mi stava spingendo in fretta dentro l’atrio con il suo enorme, inutile camino, oltre gli impiegati sorridenti, giù per lunghi corridoi (dove un operaio stava veramente ridipingendo il cielo bianco fra le foglie di palma verde giungla della tappezzeria!). Dipingere le rose di rosso! Siamo a Beverly Hills, dove l’erba vera deve sembrare Astroturf, dove le palme vere devono sembrare di plastica, dove i fiori tropicali non hanno profumo e dove gli avvocati girano in Rolls-Royce con valigette Vuitton sulle ginocchia.

Questa è la terra del Grande Affare, di chi non risica non rosica, di o la va o la spacca, dei milioni all’anno e poi la bancarotta, di riunioni, riunioni, riunioni, interrotte di tanto in tanto da un film, di tante chiacchiere e pochi fatti, di ruffiani e ruffiane, dell’avidità e dell’astuzia.

La targa di una Rolls-Royce parcheggiata davanti al Beverly Hills Hotel la sera del mio arrivo dice tutto: CUPIDO... nel senso di cùpido, non di Cupìdo. Britt non era sincera come il proprietario di quella macchina.

“Voglio fare un bel film con il tuo libro, non una di quelle cretinate commerciali,” disse nell’appartamento che mi aveva prenotato (dove stavamo facendo fuori una cena sontuosa a base di arrosto di agnello, tagliato dal maître in persona assistito da un valletto).

“Credo che dovremmo procurarci Truffaut o Ingmar Bergman... o forse John Schlesinger,” disse Britt, buttando giù un gran boccone di agnello. Era nervosa per il suo appuntamento... voleva mangiare e battersela, con tante scuse. Mi sembrava quasi di vedere il ticchettio nel suo cervello. Aveva fatto la sua parte... era venuta a prendermi all’aeroporto. Adesso era il momento di pensare a se stessa. Cominciò a ingoiare forsennatamente la mousse au chocolat (Britt mangia un sacco di cioccolata ma non ingrassa mai... segno sicuro di possesso diabolico), si stese sulle labbra un bel po’ di rossetto color sangue... e poi corse via, al suo appuntamento con un uomo la cui amica e concubina temporanea era via per il fine settimana. Che fortuna!

Restai sola in quel grande appartamento, ad aspettare le prime avvisaglie del solito panico da stanza d’albergo... ma chissà perché, non arrivò. Ispezionai le stanze, mi feci una doccia, tirai giù la coperta del letto, ammucchiai i cuscini contro la testiera e poi uscii a dare un’occhiata al balcone, che dava sulla piscina deserta con relative cabine altrettanto deserte. L’aria era dolce e calda. Io ero tranquilla. Ero felice di essere sola, felice di aver compiuto un’intera trasvolata continentale senza un momento di terrore e inequivocabilmente felice di essere nella malvagia, tremenda Los Angeles.

Mentre ero sul balcone sentii squillare il telefono. Anche se quell’interruzione alle mie fantasticherie notturne mi infastidì un po’, quando tirai su la cornetta e sentii la voce tremante di Holly attraverso tremila miglia di cavo telefonico, seppi che doveva trattarsi di qualcosa di serio. A New York erano le quattro di mattina. Anche se Holly era un po’ pazza e non conosceva orari, non aveva certo l’abitudine di fare telefonate in teleselezione nel cuore della notte.

“Che cosa succede?” le chiesi in tono allegro, come se in quel modo mi fosse possibile sradicare qualunque paura l’avesse spinta a telefonare.

“Credi che io sia pazza, Isadora?” mi chiese Holly. “Voglio che tu mi dica la verità.”

“Certo che no,” mentii.

“Senti, è una cosa seria. Voglio che tu mi dica se pensi che io sia pazza.”

“Che cosa vuol dire ‘pazza’?”

“Questa non è una risposta e tu lo sai. Non voglio semantica da quattro soldi e nemmeno battute brillanti, voglio solo sapere se ti è mai capitato di riscontrare nel mio comportamento segni indubbi di pazzia... non immaginazione o i miei quadri o cose del genere... ma illusioni, allucinazioni, cose che io vedo e non esistono, invenzioni, questo tipo di cose.”

“No,” dissi in tono deciso, cercando disperatamente di ricordare se fosse vero o meno. “No, assolutamente no.”

“Be’,” disse Holly, improvvisamente sollevata, “in questi ultimi due giorni... non so perché non te l’ho detto prima che partissi, ma avevo paura che ti sembrasse strano... non ho fatto altro che pensare a Jeannie Morton. Lo so che è una cosa morbosa, una pazzia, ma è quasi come se fosse qui con me, a casa mia, come se svolazzasse fra le piante, come se mi guardasse dipingere, una presenza concreta. Continuo a prendere in mano i suoi libri, a leggerli, poi dipingo un po’, do da mangiare al gatto, leggo un’altra delle sue poesie, dipingo ancora, penso a lei... ma sono sempre agitata, come se lei stesse cercando di dirmi qualcosa, come se fosse qui con me, e intanto continuo a pensare di essere pazza e poi ho pensato di telefonarti ma non sapevo se tu fossi già a Los Angeles e avevo anche paura che tu mi credessi pazza... Così alla fine (e tu sai che io non dipingo mai persone) prendo una tela pulita e una delle sue fotografie, quella sul retro della copertina di uno dei suoi libri... quella in cui è seduta nel solario con quel suo gatto d’angora in grembo... e comincio a farle il ritratto. Lo so che ho qualche rotella fuori posto, ma mentre sto dipingendo, stranamente, la stanza diventa più tranquilla, l’agitazione mi passa, mi sento meglio... E così continuo a dipingere finché sono stanca morta (ho usato Seymour come modello per il gatto, ma Jeannie l’ho copiata dalla fotografia, o almeno spero) e poi alla fine sono così stanca che mi addormento senza bisogno di Valium... che per me è una novità assoluta. E poi... qui arriva il bello... l’ho sognata ed era proprio lei, parlava come parla lei e ha detto qualcosa di molto strano che non ho capito bene ma forse...”

“Che cosa?”

“Ha detto, ‘Dì alla tua amica di usare il taccuino.’ E aveva un’aria molto decisa, era come un ordine. Allora mi sono alzata e ti ho telefonato.”

“Come facevi a sapere che l’amica ero io?”

“Tu sei la mia unica amica, stupida. Senti, Isadora, ti dice niente quella frase?”

“Ci sto pensando,” dissi. “Ascolta... puoi restare un attimo in linea? Credo che qualcuno stia bussando alla porta...”

“È Jeannie,” disse Holly, terrorizzata.

“Non essere ridicola.”

Andai alla mia valigia, tirai fuori il taccuino con la copertina rossa e tornai al telefono.

“Non c’è nessuno,” dissi, “solo un paio di produttori ubriachi nel corridoio...”

“Dio ti ringrazio,” sospirò Holly all’altra estremità di quel lungo cordone ombelicale. Aprii il taccuino alla prima pagina e fui felice di non trovare altre scritte oltre a quella che c’era sempre stata.

“Credo che tu abbia lavorato troppo ultimamente,” dissi a Holly in tono rassicurante, cercando di rassicurare anche me stessa. Sfogliai il taccuino con la mano libera e proprio in mezzo vidi qualcosa che non avevo mai notato prima:

“Come posso salvarmi la vita?” chiese il poeta.

“Diventando folle,” disse Dio.

Era la calligrafia di Jeannie, senza dubbio. Ma soprattutto era la voce di Jeannie, inconfondibile.

“Senti, Holly. Non ho nessuna intenzione di star qui a sentire queste storie soprannaturali. Tu senti la mancanza di Jeannie, ecco tutto. Anch’io la sento. Non è un fantasma che ti perseguita, è solo amore.”

“Ehi... bella questa frase. Nessuno ti ha mai detto che dovresti metterti a scrivere i testi dei bigliettini di auguri?”

“Molto divertente.”

“Dico sul serio. Potresti anche provare a scrivere un best-seller... magari finiresti a Hollywood, faresti un sacco di soldi. Sempre meglio che dipingere felci.”

“Credi di poter tornare a letto, adesso?”

“Credo di sì, sto bene, veramente, è stato solo un momento di pazzia.”

“Se ti sentirai di nuovo male prometti di ritelefonarmi? Chiama a carico del destinatario, tanto è Britt che paga, e se lo può permettere, non aver paura.”

“Adesso va meglio.”

“O.K.”

“Ti voglio tanto bene,” disse Holly.

“Anch’io a te. Telefonami se ti senti strana. Promesso?”

“Promesso.”

“Tanti baci.”

“Anche a te,” disse lei.

Ci mandammo una serie di bacetti in transcontinentale e riappendemmo.

Britt me ne fece passare di tutti i colori. Durante la settimana che seguì cominciai a conoscerla meglio e quello che scoprii non mi piacque. Era incorreggibile, mi faceva aspettare quattro o cinque ore di fila, si fermava un’ora o due e poi scappava da qualche uomo, lasciando la coperta del letto piena di foglioline di marijuana e rimasugli di cocaina.

Mi aveva preso per un’idiota e aveva ragione. Chi se non un’idiota sarebbe andata a Hollywood in cambio di un biglietto d’aereo e le spese d’albergo? Chi avrebbe lavorato giorni e giorni a buttar giù un copione che sarebbe risultato un disastro come struttura, e anche impossibile da mettere sullo schermo, visto che era un miscuglio del mio libro e dei suoi suggerimenti e che a un certo punto nessuna delle due sapeva più che cosa stava facendo. “Fidati di me,” disse Britt. E io mi fidai. Oh, sono speciale quando si tratta di fidarsi della gente sbagliata.

Sapevo di essere ignorante, ma pensavo che almeno Britt sapesse quello che stava facendo. E così feci una cosa che uno scrittore non dovrebbe mai fare: misi le mie parole nelle sue mani. Accettai i suoi suggerimenti. Lasciai che fosse lei a dirmi che cosa dovevo scrivere. E fu la mia ingenuità la causa del disastro. Il copione che venne fuori non aveva niente del mio libro e non aveva niente dell’idea di Britt di un film di successo. Era un ammasso di errori.

Lavoravamo al Beverly Hills Hotel, nell’ufficio di Britt alla Paradigm Pictures, nella sua villa a Beverly Hills. Lavoravamo è una parola un po’ forte per quello che facevamo in realtà. Era impossibile trattenere l’attenzione di Britt per più di dieci minuti di fila. Camminava avanti e indietro, fumava, grugniva, rispondeva al telefono, prendeva appuntamenti, ordinava il caffè, mi lasciava a badare ai suoi due nevrotici Lhasa Apsos, mi mandava a comperare da mangiare... e nel complesso mi trattava come una serva o una segretaria personale. Ero così strabiliata da questo trattamento che non riuscivo nemmeno a trovare le parole per protestare. Nessuno mi aveva mai trattato in quel modo. Britt sapeva quello che stava facendo oppure era completamente scema? Sospetto che la seconda ipotesi fosse quella giusta. Tutte le volte che riuscivo a trovare il coraggio di farle capire che non ero la sua governante, la sua balia, la sua baby-sitter, perdeva il controllo e scoppiava in lacrime, mi diceva che mi voleva un gran bene, mi diceva che si identificava completamente con me e che mai e poi mai avrebbe fatto qualcosa che potesse dispiacermi. A spizzichi e bocconi riuscimmo finalmente a fare a pezzi Candida confessa e a infilarlo in una serie di schede, scena per scena. Poi cominciammo a girare carponi sul pavimento della mia stanza d’albergo nel tentativo di dare un ordine alle schede. La mia vita su schede sotto le mie ginocchia! Mentre facevamo a pezzi, il libro mi accorsi che avrei dovuto fare a pezzi anche la mia vita. Ma se sarei poi riuscita a rimetterla insieme, era un’altra faccenda.

Nel bel mezzo della mia seconda settimana in California, Britt sparì. Né la sua segretaria né la sua governante né il suo svagato marito seppero dirmi dov’era finita. L’aspettai per un giorno intero e poi, quando cominciò a essermi chiaro che nessun altro era preoccupato per lei (non era la prima volta che spariva... e le altre volte era sempre tornata alla base, magari con un nuovo fidanzato), decisi di prendermi anch’io una vacanza. Andai fino a Berkeley a trovare un’amica e trascorsi tutto il tempo in aereo ad ammirare i contorni delle montagne. Non mi ero mai sentita così bene in aria. O al mondo. Non avevo mai pensato meno a Bennett. Non esisteva più; la mia depressione non esisteva più e sembrava proprio che stessi per cominciare una nuova vita.

Telefonai alla segretaria di Britt la mattina stessa del mio ritorno, e, quando seppi che non era ancora tornata, proclamai un’altra giornata di vacanza e decisi di impiegare il mio tempo come volevo.

Affittai una macchina e andai a Disneyland. Poi proseguii da sola fino a Malibu e restai immobile sulla spiaggia nel vento, pensando alla mia vita e saggiando il potere divinatorio delle onde, a piedi nudi.

L’oceano era un incredibile miscuglio di viola, azzurro e verde, con la superficie luccicante di scaglie mosse dal vento. L’aria era tersa e l’orizzonte una lama di rasoio a metà strada col Giappone, l’oceano ricadeva su se stesso, si raccoglieva e ricadeva su se stesso, all’infinito.

Restai lì con i piedi piantati nella sabbia, vicino all’acqua, e aspettai che le labbra irregolari delle onde mi dicessero che cosa fare della mia vita. Se le onde arriveranno fino ai miei piedi, promisi a me stessa, lascerò Bennett.

Poi aspettai, sempre più triste, perché le onde continuavano a fermarsi a pochi centimetri dalla mia carne profetica. Restai immobile per quelle che mi sembrarono centinaia di onde, cercando di non far capire all’oceano il mio disappunto e la mia tristezza. Poi finalmente accadde: una parete scintillante di acqua azzurra venne a frangersi sulla spiaggia in una distesa di schiuma bianca, mandando una striscia di acqua ribollente di bollicine fino ai miei piedi: mi sfiorò le caviglie, i polpacci, salì fino alle ginocchia. Sentii la sabbia bagnata scivolarmi via sotto i piedi e fui presa dal panico... e da una specie di esaltazione. Il mare aveva appena pronunciato la sentenza di divorzio da Bennett.

Più tardi, quel pomeriggio, dovevo andare a trovare un vecchio e famoso scrittore americano (già espatriato a Parigi) che l’età matura aveva portato, come tanti altri bohémiens frenetici, alle comodità borghesi della vita sulla costa del Pacifico. Kurt Hammer si era conquistato una fama underground con le copie stracciate dei suoi romanzi cosiddetti pornografici, contrabbandati negli Stati Uniti ai tempi in cui il sesso era considerato indegno di apparire in un libro. Adesso che il sesso era in tutti i libri, le vendite erano notevolmente calate, e le percentuali anche. La censura, che ai tempi l’aveva fatto sembrare un moderno Marchese de Sade, l’aveva lasciato perdere, e adesso passava per una specie di romantico, un uomo innamorato dell’amore... e soprattutto innamorato delle parole.

Ormai aveva ottantasette anni e passava le giornate a letto, a scrivere, a leggere e a intrattenere discepoli e ammiratori. Questi venivano da tutto il mondo, e se non venivano lui gli scriveva, a mano, su carta gialla. Da quel letto comunicava con il mondo intero! Scriveva con una calligrafia inclinata molto simile alla mia... per lui non era eccezionale scrivere una ventina di lettere al giorno. Il pomeriggio in cui andai a trovarlo me ne diede ventidue da imbucare, per la Svezia, il Giappone, la Francia, la Jugoslavia e il Medio Oriente. Kurt era stato accusato di sciovinismo dal movimento delle donne e la cosa l’aveva scocciato e incuriosito. Corrispondeva con femministe di tutto il mondo e non mancava di dichiarare, tutte le volte che se ne presentava l’occasione, che le donne erano il sesso superiore. “Nessun uomo può vivere a lungo quanto me,” diceva, “senza scoprire questa verità.”

Guardando quel vecchio ottuagenario capriccioso, con gli occhi pieni di malizia (con la pelata piena di lentiggini e il sorriso grottesco di un bambino che ha appena fatto una marachella particolarmente gustosa) era difficile credere all’immagine del mostro di depravazione e maschilismo.

“Io sono un vecchio sporcaccione, sai,” disse Kurt con aria maliziosa, con un accento che sapeva ancora di Brooklyn. “Non hai paura a sederti sul mio letto?”

Feci una risatina. Mi sembrava proprio innocuo. “Qualunque cosa le rispondessi, la prenderebbe come un insulto.”

“Ormai sono superiore a qualunque insulto. Non mi importa più niente del mondo. Tutte le mattine quando mi sveglio mi dico: Come? Non sei ancora morto? A volte mi sento così male che credo di essere morto. Tutto quello che chiedo è che l’aldilà sia interessante come la vita. Il nirvana non mi interessa. Dev’essere di una noia spaventosa. In realtà non riesco a immaginare niente di peggio. A me piacciono gli estremi... il bene, il male, la merda, Chopin. A proposito, ti piace Chopin?”

Feci di sì con la testa.

“Io lo adoro. Per me, non c’è niente di commovente quanto Chopin. Sarei disposto a rinunciare a qualunque libro, proprio qualunque, io abbia scritto per essere invece l’autore di un preludio come quelli di Chopin. È la pura verità.”

Rimasi ore intere con Kurt, a parlare dei suoi libri, dei miei libri, del mio matrimonio, dei suoi matrimoni. Provava per la gente giovane quell’intenso interesse che provano tutti gli scrittori quando non sono più in competizione, quando il loro lavoro è finito, completato, quando sanno per certo che tutti i libri costituiscono in realtà una grande impresa comunitaria. Gli raccontai com’era doloroso per me leggere commenti maligni sui miei libri e lui prese fuoco.

“Non voglio più sentirti dire quella parola, doloroso,” disse. “Sai che cosa dicevano di Whitman?”

“No,” ammisi.

“‘Un maiale che razzola nella spazzatura’. Ecco la recensione di Foglie d’erba. Hai letto Foglie d’erba?”

“Sì, mi piace da morire.”

“E sapevi di questa recensione?”

“No,” confessai.

“E allora che non mi capiti più di sentirti dire ‘doloroso’. Il dolore non è una cosa da sprecare sulle puttanate dei giornali. In realtà non ho mai capito la necessità del dolore. Il trucco è cercare di pensare non a quanto dolore, ma a quanta gioia si prova, in qualunque momento. Qualunque idiota può provare dolore. La vita è piena di scuse per il dolore, di scuse per non vivere, scuse, scuse, sempre scuse. Quando ti troverai in un letto a ottantasette anni, come me, il solo dolore che potrai provare sarà quello per tutti i dolori inutili che hai provato da giovane, per tutte le volte che non hai fatto qualcosa che volevi fare per paura o vigliaccheria, per tutte le volte che hai permesso ai bastardi, ai moralisti e ai piagnoni di fermarti, di impedirti di essere te stesso. Bisogna stare attenti ai morti viventi, capisci cosa voglio dire? La gente che vorrebbe morire e vorrebbe che tutti gli altri morissero con loro. È gente da evitare. Se imparerai a evitarli, starai benissimo. E anche quando devi scrivere qualcosa, non ascoltarli mai. Non sanno quello che fanno, sono capaci solo di distruggere, di far tacere qualunque voce... compresa la propria, dopo un po’. Hanno bisogno di te... altrimenti non saprebbero che cosa scrivere... ma tu non hai affatto bisogno di loro. Capisci che cosa voglio dire? Capisci perché odio la parola doloroso?”

Fuori dalla finestra della stanza di Kurt il Pacifico stava per ingoiare il sole. A New York era già notte... ammesso che New York esistesse ancora. Cominciavo a dubitarne.

Da dove era saltato fuori il mito che la letteratura finisce all’imboccatura del George Washington Bridge, mi chiedevo percorrendo in macchina la Pacific Coast Highway? Nessuno avrebbe potuto essere più sciovinista di me nei confronti di New York: avevo passato quasi tutta la vita nello stesso isolato. E quindi fu ancora più eccitante scoprire che c’era vita anche a occidente delle Montagne Rocciose. Mentre tornavo di corsa al Beverly Hills Hotel a cambiarmi d’abito per una festa offerta in mio onore da amici di New York, pensavo al pomeriggio passato con Kurt. Kurt era riuscito a convincermi che non c’era niente di tragico nell’avere ottant’anni... bastava arrivarci con il minor numero di rimpianti possibile.

Ci sarebbero state l’artrite, l’arteriosclerosi e tutte le altre malattie della carne... ma lo spirito poteva anche sopravvivere, non era necessario che morisse di morte prematura. Per la prima volta ebbi la visione di me stessa a ottantasette anni... una visione sbiadita, magari, ma pur sempre una visione. Un giorno sarei stata un’incredibile vecchia signora! Sarei stata circondata da studenti, discepoli... forse anche nipotini. La mia vita, che un mese prima mi era sembrata finita, stava appena cominciando. Che cos’erano mai trentadue anni in confronto agli ottantasette di Kurt? Che cosa mi era venuto in mente di parlare proprio a lui di dolore? Poteva darsi che fossi stata messa al mondo contro la mia volontà, ma ormai c’ero, avevo scelto di restarci, e nessuno sarebbe riuscito a sbattermi fuori prima che fossi disposta ad andarmene.

Lasciai la macchina d’affitto nel parcheggio e corsi, volai nel mio appartamento: non vedevo l’ora di buttar giù un po’ di parole sulla carta. Sbattei la porta, mi tolsi le scarpe con un calcio, mi sdraiai sul letto a pancia in giù con il taccuino di Jeannie, lo aprii alla prima pagina e scrissi, ridacchiando in continuazione:

Come salvarsi la vita
di Isadora Wing
(Amanuense dello Zeitgeist)

1. Eliminare i sensi di colpa.
2. Non fare della sofferenza un culto.
3. Vivere nel presente
(o almeno nell’immediato futuro).
4. Fare sempre le cose di cui
si ha più paura;
il coraggio è una cosa che si impara a
gustare col tempo, come il caviale.
5. Fidarsi della gioia.
6. Se il malocchio ti fissa,
guarda da un’altra parte.
7. Prepararsi ad avere ottantasette anni.

(continua)

Alle sei e mezzo, quella sera stessa, me ne stavo fuori, davanti al Beverly Hills Hotel, senza occhiali e di conseguenza senza poter guardare i bellissimi ragazzi biondi che parcheggiavano tutte quelle Rolls-Royce (con tutte quelle poetiche targhe), gli agenti abbronzati in jeans di Fred Segai e mocassini di Gucci, le ragazzotte speranzose di essere scambiate per stelline, le stelline speranzose di essere scambiate per dive, gli ospiti degli show televisivi, gli scrittori fantasma, i soggettisti, i fantasmi.

“Ms. Wing?” chiese un ragazzo, che evidentemente ci teneva alla correttezza politica (come la mia amica Gretchen, che da Gristede sceglieva sempre insalata di vari colori politici).

“Chiamami Isadora,” dissi io (e incredibilmente non scoppiai a ridere a quell’uscita assurda... dato che stavo guardando interessata la faccia pelosa, calda e piacevole che si era appena inserita nel mio orizzonte limitato dalla miopia).

“Josh Ace,” disse, tendendo la mano per stringere la mia e accompagnandomi a una MG verde pisello col tetto abbassato parcheggiata in doppia fila. (Questo riuscivo a vederlo anche senza occhiali). Josh era il figlio di Robert e Ruth Ace, gli amici che davano una festa in mio onore quella sera. Erano una famosa coppia di soggettisti degli anni Trenta, sulla lista nera negli anni Cinquanta, sopravvissuti al maccartismo scrivendo spaghetti western a Roma per una decina d’anni e adesso felicemente di ritorno in California, idolatrati dai radicali chic (a me piaceva chiamarli il gregge radicale) dell’industria del cinema. Avevo conosciuto gli Ace attraverso amici scrittori a New York (dove avevano vissuto per cinque anni). Non sapevo nemmeno che avessero un figlio.

Josh era alto, snello, con la barba rossa e aveva modi molto gentili. Generalizzai subito: “Figlio dei fiori.” Lui chiuse la portiera della MG e si arrampicò al posto di guida.

“Allacciati la cintura di sicurezza,” disse (io interpretai subito quella frase come un segno di preoccupazione per me, ma in realtà si trattava di un nuovo tipo di macchina che non poteva partire se io non mi fissavo bene al sedile. E via verso la casa dei suoi genitori sulle Hills, dove io, l’espatriata newyorchese, dovevo ricevere il benvenuto della comunità.

“È molto carino da parte dei tuoi genitori dare una festa per me,” dissi.

“Sono innamorati di te,” disse Josh. “Avevano proprio voglia di darla, questa festa. Mio padre voleva venire a prenderti di persona, ma ho insistito per venire io.”

“Perché?”

“Perché ero curioso. Ho letto le tue poesie e mi sono piaciute. In realtà, dalle descrizioni dei giornali, pensavo che fossi alta due metri, con una corazza al posto del reggiseno, e una lancia in mano. Sono contento di essermi sbagliato.”

“È il mio modo di scrivere che è alto,” dissi.

“Sì, ma mi aspettavo una donna che mi mettesse paura.”

“E come fai a sapere che non ti metterò paura?” chiesi, non sapendo bene se ritenermi offesa o lusingata.

“Non posso saperlo, certo, ma di solito la mia prima impressione sulla gente è quella giusta. Questa probabilmente è anche la prima volta che mio padre azzecca un giudizio su una persona. Di solito non capisce niente di persone.”

“La gente confonde sempre gli scrittori con le loro idee,” dissi io, “specialmente le scrittrici.”

“Ummm,” disse Josh, “dev’essere dura fare la scrittrice.”

“È carino da parte tua dire una cosa del genere. Di solito incontro molta più resistenza.”

“Non capisco come qualcuno possa avere la forza di resisterti,” disse lui.

Che ruffiano, pensai, guardando quel viso caldo, quel naso aquilino, le lentiggini, la barba folta, il sorriso dai denti di coniglio. Divertente sedurre un ragazzino.

“Probabilmente tu pensi che io sia un ragazzino,” disse lui, leggendomi nella mente.

“Niente affatto,” mentii. “Perché? Quanti anni hai?”

“Ventisei, ma sono molto vecchio dentro.”

Dio mio, pensai, ventisei. “Non ho ventisei anni da almeno mezzo secolo,” dissi io. Lui mi guardò come se fossi pazza.

Ci fermammo a una stazione di rifornimento, dove trovai finalmente il coraggio di chiedergli che cosa “faceva”. Sembrava una domanda assurda. Perché mai avrebbe dovuto fare qualcosa oltre a essere così affascinante?

“Il racket di famiglia,” disse Josh. “Ho appena scritto un copione per De Laurentiis... un vero polpettone... la mia dev’essere stata almeno la ventinovesima stesura. Se la fortuna mi assiste non lo accetteranno. Non credere che io sia uno di quei soggettisti di grido o qualcosa del genere. Non sono nessuno. Ho avuto quell’incarico per nepotismo puro.”

Quando disse “nepotismo” mi venne voglia di abbracciarlo. Era la sua onestà a renderlo così simpatico, specialmente dopo tutto quel tempo passato con Britt... che non sapeva niente e voleva sapere tutto. Josh diceva di non sapere niente... e sapeva un sacco di cose. Lo si capiva dalla sua modestia.

“In realtà,” disse Josh, tirando fuori i soldi per la benzina, “ho fatto solo quel lavoro. Passo un sacco di tempo facendo la coda all’Ufficio di collocamento.”

“Il lavoro viene sopravvalutato,” dissi io.

“Solo per quelli della tua generazione. Io ho passato quattro anni all’università e mi sono laureato in LSD. Niente mi piacerebbe più di un buon lavoro... se solo qualcuno me lo desse.”

“Sarebbero pazzi a non dartelo,” dissi. Oh, Mondo Nuovo, abitato da uomini così dolci. Perché mai, mi chiedo, sentendomi sempre più una vecchia puttana o una Donna di Bath, perché mai non ho dato prima un’occhiata sotto i trenta?

La Festa. Prima non vedevo l’ora di andarci, a quella festa, ma adesso che c’ero mi sembrava una folla di gente irritante, messa lì per separarmi da Josh. Anche se lui era l’unico col quale volevo parlare, feci finta di ignorarlo e gironzolai doverosamente da un gruppo all’altro, nel tentativo di dimenticare le idee che mi faceva venire in testa.

“Bella casa per dei comunisti,” dissi a Robert Ace, esaminando il soggiorno di venti metri per quindici, con il tappeto alto dieci centimetri, la piscina olimpionica, i camerieri negri con i vassoi di antipasti. E Robert mi spiegò (gesticolando con un grosso sigaro in mano) che lui non era più comunista: adesso era buddista Zen e la meditazione si poteva farla tranquillamente anche nelle stanze molto grandi. Era un uomo esile e smilzo, con i baffi alla Groucho Marx e un paio di occhiali che gli scivolavano continuamente sul naso.

“È un giudista Zen,” disse Josh, facendo capolino dietro di me e sorridendo con quei suoi denti da coniglio. Quel sorriso diceva tutto. Affetto per il padre mescolato a un’infallibile capacità di smascherare qualunque tipo di balla... un rifiuto categorico di farsi prendere in giro.

Nel frattempo c’era quell’agente che mi perseguitava... un uomo di nome Greg Granite (...nato Greenberg?) ... che voleva portarmi a casa sua quella sera stessa, e, visto che non c’era niente da fare, aveva cambiato idea e aveva deciso che mi avrebbe portato a casa sua la sera dopo, e, visto che non c’era niente da fare, aveva cambiato di nuovo idea e aveva deciso che avrei scritto dei copioni che lui avrebbe venduto alle reti televisive. Ah, Hollywood... dove gli affari sono piacere e il piacere affari, dove i comunisti abitano case da 350.000 dollari con piscine olimpioniche, dove gli agenti cambiano nomi fragili in nomi “duri” e inseguono le scrittrid su per le Hills nelle notti profumate di ottobre! Valeva la pena di essere venuta lì... le rogne con Britt, le rogne con Bennett, le rogne coi pazzi del cinema... lì, nella terra di Oz, dove quella delizia di “ragazzino” mi sgranava addosso i suoi occhioni verdi dall’altro capo della stanza e diceva, Lascia che ti porti via di qua, lascia che ti porti nel mondo buffo, solleticante della mia barba.

Fui assalita, festeggiata, monopolizzata fino alle due del mattino. Stelle del cinema appassionate di meditazione Zen, agenti melliflui (che studiavano il Tai Chi) e scrittori circospetti (che praticavano la telepatia) mi monopolizzarono a turno. A Hollywood si incontra sempre un certo tipo di scrittore grigiastro, con le spalle curve, abbacchiato, con un reddito di mezzo milione di dollari all’anno e nessuna speranza. E io conversai per un’ora con uno così... un certo Herman Kessler che diceva di sapere di non essere in grado di scrivere un romanzo. Forse sarebbe stato in grado di farlo, una volta, ma ormai era troppo tardi. E inoltre, perché lavorare tre anni per 20.000 dollari di anticipo sul romanzo quando poteva guadagnarne altrettanti in due mesi, scrivendo copioni?

“Un bel problema,” ammisi.

Era ricco, ma infelice. Era stato costretto a permettere che un mucchio di produttori analfabeti riscrivessero i suoi copioni, che attori arroganti facessero a brandelli senza pietà i suoi migliori aforismi, che i registi frantumassero le sue perle filosofiche, che gli aiuto registi ne facessero polpette, che i produttori le calpestassero e le riducessero in polvere sotto le suole delle scarpe di cuoio italiano. Era un uomo sconfitto, un intellettuale derelitto, un barbone della letteratura. Gli avevano portato via le parole e gli avevano dato solo soldi in cambio. Un baratto disgustoso. Passò un’ora a desiderare di essere me.

Josh venne in mio soccorso verso le due del mattino, borbottando qualcosa a proposito di un giro sulla Mullholland Drive.... o roba del genere.

Ce ne andammo tra i sorrisetti beffardi e quelli educati di tutti gli altri personaggi che si erano offerti di accompagnarmi a casa.

In che razza di pasticcio mi stavo cacciando? pensai, arrampicandomi nella MG di Josh. Sapevo che c’era qualcosa in ballo... ma facevo finta che fosse tutto normale. Pensai al taccuino di Jeannie, alle cose che avevo cominciato a scrivere dopo la lunga chiacchierata pomeridiana con Kurt. Che cosa avrebbe fatto Kurt in una circostanza del genere? In che modo si sarebbe preparato lui ad avere ottantasette anni? Avrebbe fatto la stessa cosa di Jeannie al posto mio: si sarebbe comportato da pazzo.

Ma mi sentivo stranamente imbarazzata con Josh. Ero ben decisa a non comportarmi come l’eroina grazie alla quale ero diventata fatalmente famosa.

Josh e io girammo in automobile per ore. Prima ci fermammo sulla Mullholland Drive a guardare le luci che disegnavano la pianta di Los Angeles e occhieggiavano dietro lo smog come piccoli UFO. Poi andammo sullo Strip, dove Josh mi indicò l’Istituto di Amore Orale (un centro di massaggi), il Centro dei Sogni Diventati Realtà (un altro centro di massaggi), il Kosherama (un normalissimo negozio di gastronomia) e altre enormi, grottesche insegne che facevano pubblicità a gigantesche rock star. L’aria era ancora incredibilmente tiepida e io ero calma e nervosa allo stesso tempo, come se avessi preso una specie di Dexamyl psichico. Avrei voluto che quella corsa in macchina non finisse mai, avrei voluto che continuassimo a girare per la città all’infinito, noi due insieme, fianco a fianco, vicini, a parlare, parlare, parlare.

Sapevo che alla fine avremmo dovuto prendere la fatale decisione... a letto o non a letto (con tutte le relative possibilità di delusione, sofferenza, amore non corrisposto, desiderio non corrisposto), ma in quel momento mi stavo godendo il momento magico, la sensazione che non avremmo mai provato il bisogno di dormire, che la cosa importante era il viaggio, non la meta.

Erano le tre di mattina, poi furono le quattro, poi le cinque. Continuavamo a girare in macchina senza sapere cosa fare, non volevamo separarci ma non volevamo nemmeno unirci, non ancora, volevamo soprattutto prolungare quella deliziosa, eccitante sensazione di attesa.

E poi rovinai tutto... come solo io posso fare... con quel mio dannato bisogno di tradurre tutto in parole.

“Ho l’impressione che fra noi ci sia qualcosa di non espresso,” sbottai (mentre percorrevamo lo Strip deserto per quella che doveva essere almeno la decima volta).

“Non espresso?” disse Josh, con aria vaga.

“Non stai forse pensando di portarmi a letto?” (Il cuore mi si fermò per un attimo, attonito per quell’incredibile sfacciataggine.)

“Letto?” disse lui, come se non avesse mai sentito prima quella parola, come se il letto fosse un oggetto assolutamente misterioso, una specie di reperto archeologico, un attrezzo in uso nell’antica Grecia ma ormai dimenticato, conosciuto solo dagli specialisti. “Letto?” ripeté, con la stessa aria stupefatta. “Oh... a New York forse mi darei da fare, ma a L.A. tutto funziona come... come al rallentatore.”

“Che cosa?”

Al rallentatore. Con calma, in altre parole. Vuoi venire a casa mia? Ho un appartamento molto carino... architettura spagnola degli anni Venti. Molto Giorno della locusta e nostalgico.”

Venni presa dal panico. Se fossi andata a casa sua sarebbe stato chiaro che volevo andare a letto con lui. (Era chiaro comunque, ma volevo continuare a illudermi.)

“E se andassimo al Polo Lounge?”

“O.K.,” disse Josh.

Parcheggiò la macchina in seconda fila davanti al Beverly Hills Hotel, come se non fosse certo di come sarebbe andata a finire, o forse stava solo cercando di essere gentile, forse stava solo cercando di farmi capire che non era un maschiaccio sicuro di sé.

Entrammo al Polo Lounge e lo trovammo chiuso.

“Dove si può trovare qualcosa da bere?” chiesi ingenuamente al portiere assonnato. (Io e Josh eravamo come due bambini sperduti nel bosco, Hansel e Gretel in cerca di pane e acqua.)

“Servizio in camera,” rispose lui con un’occhiata maliziosa. E così la decisione era stata presa, da uno sconosciuto imparziale.

Salimmo nel mio appartamento come due bambini ubbidienti, ordinammo castamente Tab e ginger ale, ci sedemmo lontani uno dall’altro, tutti vestiti, con i piedi sul letto. Che divertimento sedurre un “ragazzino”, stavo pensando. E lui magari stava pensando che non avrebbe commesso l’errore di confondermi con Candida (bollandosi per sempre ai miei occhi come un buzzurro, una persona che non capiva la differenza fra letteratura e vita, arte e illusione, romanzo e autobiografia). Forse era ben deciso a controllarsi, per deferenza verso la mia sensibilità di scrittrice. Forse si immaginava che torme di uomini mi avessero insidiato per tutto quell’anno e lui non avrebbe fatto l’errore di allungare la fila. Ma nessuna di queste possibilità mi consolava. Sapevo solo che non sopportavo l’idea che se ne andasse. Quindi toccava a me.

Cullammo fra le mani i nostri bicchieri di analcolico. I cubetti di ghiaccio tintinnavano leggermente, sciogliendosi.

“Non preoccuparti, sono un gentiluomo,” disse Josh con aria ambigua con un cenno per nulla ambiguo in direzione del letto. Una strana conversazione, davanti a quell’enorme mobile che ci separava. Aveva un paio di scarpe da ginnastica tutte sporche e con i lacci strappati, commovente. I lacci della scarpa destra erano sfatti. La presenza di quel letto aveva ammazzato la nostra brillante conversazione. I cubetti continuavano a tintinnare. Tossii. Fumammo una sigaretta. Alla fine, forse non sapendo cos’altro fare, Josh si alzò in piedi.

Non posso permettere che esca così dalla mia vita, pensai. Così alzai gli occhi, praticamente gli chiesi un bacio. E quando le nostre lingue si incontrarono, tutto fu deciso.

“Resta qui, ti prego.” (Non credevo alle mie orecchie, avevo proprio detto così. Che faccia di bronzo. La dorma aggressiva.) “Vai a parcheggiare la macchina.”

E lui mi baciò ancora. Ci stringemmo come due naufraghi appena arrivati su una zattera.

IO: Vai a parcheggiare la macchina.

LUI (infantile): Promettimi che non cambierai idea.

IO (adulta, rassicurante): Non dire sciocchezze.

Lui andò a parcheggiare la macchina e io (mentre mi mettevo il diaframma, un caftano trasparente e un po’ di profumo) pensai: Sono pazza. Sono una donna sposata. Lui ha solo ventisei anni e io sono amica dei suoi genitori. Dio mio... corruzione di minorenne.

Lui tornò, bussò alla porta, ci abbracciammo di nuovo come se non ci vedessimo da anni.

Poi ci furono solo i jeans sul pavimento, le scarpe di tela con i lacci strappati, e scoprii che aveva il petto coperto di peluria rossa, morbida come lana mohair, l’uccello grosso e che era gentile ed esperto a letto. Scopava come se avesse voluto ritornare dentro l’utero. Il cuore mi batteva così forte che non riuscivo a venire. I nostri ritmi non erano ancora sincronizzati. Lui venne, gemendo. E poi dormii fra le sue braccia, come se per la prima volta in vita mia avessi trovato una casa.

Colazione nella Terra di Oz. Pancetta fritta e croccante. Succo d’arancia in un secchiello di ghiaccio. Fornelli di metallo a forma di cubo con una montagna di uova strapazzate. Io ero sotto le coperte, nuda. Josh andò ad aprire la porta in jeans e senza camicia.

Sul tavolo della colazione c’era una rosa un po’ appassita. Josh si tolse i jeans per tenermi compagnia sotto le coperte. Mangiammo nudi.

Ero stupefatta di vederlo così a suo agio senza niente addosso. Anche Bennett aveva un bel corpo, ma faceva sempre di tutto per nasconderlo. Giacca del pigiama, calzini, mutande. Si rifugiava sempre nei vestiti. Josh invece riempiva la stanza con la sua pelle abbronzata.

Mentre mangiavamo uova e bevevamo succo d’arancia mi lesse le notizie curiose.

Una scappatella, pensavo intanto, poi tornerò da Bennett. Mi stavo raccontando un mucchio di bugie sull’importanza di fare questa “esperienza’’ con “un uomo più giovane”. Ero molto pomposa e seria su cose del genere. Stavo facendo una ricerca, un’esperienza di vita, non stavo “vivendo”. Nella prossima incarnazione, dotta ed esperta, avrei finalmente vissuto. Questa era solo un’esercitazione.

“Sai una cosa incredibile?” dissi io.

“Che cosa?”

“Ho dormito come un ghiro stanotte. Non ci riesco mai, di solito... con uno sconosciuto.”

Ferito, Josh disse, “Lo fai spesso... andare a letto con qualcuno appena conosciuto?” Non aveva capito quello che volevo dire... che lui era uno sconosciuto ma non mi sembrava tale. Non ero mai riuscita a dormire bene fra le braccia di un uomo che non conoscevo bene. Mi giravo e mi agitavo nel letto, mi svegliavo terrorizzata alle sei di mattina, pensando: che cosa sto facendo qui? Che cosa ho fatto? Ma mi sembrava di conoscere Josh da un secolo, era come un fratello. Come facevo a dirgli una cosa del genere senza sembrare sdolcinata? E così non dissi niente.

“Lo fai spesso, eh?” chiese ancora.

Era insicuro, pensava che andassi a letto con tutti. Dovevo trovare le parole giuste per rassicurarlo. Ma era una cosa prematura, sarebbe scappato a gambe levate. Aveva sei anni meno di me, era il figlio dei miei amici, un tenero virgulto. E io avevo un marito, una vita, una carriera, e quella strana ospite, la Fama. Avevo la sensazione che la mia vita stesse per cambiare, ma lui era giovane, senza una lira, di un’altra generazione.

Come potevo sapere che un anno dopo avremmo avuto entrambi, miracolosamente, la stessa età?