13.

PRENDI IL RED-EYE...

Ogni paese ha il circo che si merita. La Spagna ha le corride. L’Italia ha la Chiesa cattolica. L’America ha Hollywood.

La mattina seguente il cameriere di Ralph ci preparò un’elaborata colazione durante la quale Ralph insisté per leggerci ad alta voce passi dal suo libro preferito, Se sapessi chi sono, te lo direi (stampato su carta di riso a Big Sur e rilegato a mano in batik marrone da alcuni hippie). L’aveva scritto un suo amico, un certo Dwayne Hoggs, che era, secondo Ralph, un filosofo, uno scultore e “un essere umano meraviglioso”. Il suo stile lasciava un po’ a desiderare, ma quello che gli mancava in stile lo guadagnava in schmaltz.

“‘Ho chiesto al ruscello. Dimmi chi sei,’” lesse Ralph con aria ispirata. “‘E il ruscello ha risposto: Il mio nome è scritto in sillabe d’acqua. La schiuma lo ripete. Puoi immergere il piede nel mio nome’... Non è meraviglioso?”

“Ummmm,” dissi io.

“Ummmm,” disse Josh.

“Lo so perché non riesce a dirci chi è,” disse Josh parlando di Hoggs, mentre stavamo uscendo dall’emporio di Ralph. “Perché lui è lo scemo del villaggio. Se saprebbe chi è si sentirebbe tremendamente imbarazzato.”

“Non si dice ‘Se sapesse chi è’?”

“Non a Big Sur, nossignora,” disse Josh. “La sintassi è una cosa borghese e repressiva, non lo sa?” (Stava imitando il rauco accento di Brooklyn di Kurt.) “E poi ti amo da morire.”

“Anch’io.”

“Promettimi una cosa,” disse Josh in tono appassionato.

“Che cosa?”

“Promettimi che non rivedremo mai più Ralph Battaglia.”

“Promesso,” dissi io.

Tornammo al Beverly Hills Hotel, dove ci aspettava una bella sorpresa: il mio appartamento era occupato nientepopodimeno che da Britt Goldstein, quel terrore in miniatura, e da due ospiti della medesima. Stavano tutti facendo colazione a letto, un quadretto delizioso, e gli uomini (che indossavano solo catenine d’oro al collo con medaglie di San Cristoforo) avevano un aspetto estremamente ripugnante. Tirarono su le lenzuola fino alle ascelle pelose appena ci videro entrare.

“Salve, Isadora,” disse Britt (con quella sua eterna voce nasale). “Spero che non ti dispiaccia...” (diede una occhiata ai suoi compagni di bagordi che stavano inghiottendo fette di bacon fritto come se fossero stati all’Ultima Colazione) “... il fatto è che ieri sera abbiamo fatto molto tardi e io ero così eccitata per questa storia...” (si voltò da una parte e poi dall’altra, indicando con un cenno del capo i suoi amici) “... che volevo raccontarti tutto immediatamente. Poi, quando abbiamo scoperto che eri fuori... be’, abbiamo pensato di fermarci ad aspettarti... poi abbiamo fumato... e sai come vanno a finire queste cose.” Mi lanciò un’occhiata timida e accattivante. Le due guardie del corpo continuarono a mangiare imperterrite.

“Questo è Sonny Spinoza,” (indicò quello alla sua destra, con la faccia da delinquente) “e Danny Dante” (il delinquente alla sua sinistra).

“Salve,” dissero insieme con due grugniti.

“E questo è Josh Ace,” dissi io.

Britt lo squadrò da capo a piedi, con occhi calcolatori. Occhi che si fermarono un attimo sui lacci strappati delle scarpe di tela.

“Non male,” disse rivolgendosi a me, come se Josh fosse stato un soprammobile. “Vedo che hai saputo cavartela da sola. Vuoi mangiare qualcosa?”

“Grazie, no. Abbiamo già mangiato.”

Josh si guardava intorno come un animale in trappola, non vedeva l’ora di andarsene. Gli avevo raccontato di Britt, ma evidentemente non mi aveva creduto, fino a quel momento.

“Senti, tesoro,” disse Josh. “Perché non facciamo che io vado a casa a lavorare un po’ e torno a prenderti più tardi?”

“Mi sembra una buona idea,” disse Britt, “voglio dire, non che io ce l’abbia con te, ma noi dobbiamo parlare di affari.”

“Giusto,” dissi io, chiedendomi se avessero intenzione di mettersi qualcosa addosso prima di parlare d’affari. Volevo anche farmi una doccia ma ormai era chiaro che la stanza era di Britt, non mia. Era lei a pagare il conto e adesso aveva deciso di prendere possesso del suo. I produttori... Gesù. La prossima volta sarei stata attenta a pagarmi da me il conto dell’albergo.

“Ti dispiacerebbe uscire un attimo, tesoro, mentre ci mettiamo addosso qualcosa?” disse una delle due facce da delinquenti, nel tono più rispettoso che conosceva. “Intanto potresti dare un bacetto al tuo amico.”

“O.K.,” dissi io, arrossendo. Britt era tornata nella mia vita solo da due minuti e già mi sentivo come un lacché.

In corridoio salutai Josh. “È meglio che torni a salvarmi più tardi,” gli dissi. “Sembra una sequenza del Padrino.”

“Verrò verso le cinque, O.K., tesoro? Se hai bisogno di aiuto fai un fischio, ma quei due mi sembrano bravi ragazzi. Un po’ fatui, ma bravi ragazzi. Ricordati che è più sicuro fare affari con la mafia che con qualunque multinazionale. E comunque, hanno gli stessi avvocati.”

“Oh, Dio,” dissi io fingendomi terrorizzata. “Potrei scrivere un altro libro: Candida e l’Onorata Società.”

“Puoi scommetterci,” disse Josh, dandomi un bacio e avviandosi di buon passo giù per il corridoio. “Se hai bisogno di qualcosa, scrivi...” disse dal fondo.

“Molto divertente,” gli urlai dietro.

Bussai alla porta della mia stanza.

“Un attimo solo, tesoro,” disse una delle due facce da delinquenti.

Dopo cinque minuti circa la porta si aprì e mi si parò davanti Danny Dante, in jeans di camoscio, piedi nudi e petto nudo. In tutto, un metro e cinquantacinque. Solo cinque centimetri più di Britt. Cominciavo a sentirmi la buona gigantessa bionda.

“Ehilà,” disse, “benvenuta nella nostra umile dimora.”

“Grazie,” dissi.

Una Britt coperta da capo a piedi da un caftano mi ficcò in mano una tazza di caffè. Era uscita dal letto e fumava furiosamente camminando su e giù per la stanza, come sempre. Sonny Spinoza era seduto sul bordo del letto e si stava infilando un paio di mocassini di pelle di serpente.

“Ecco la proposta,” disse Britt. “Danny e Sonny hanno degli amici... un gruppo molto importante... disposti a finanziare Candida confessa. Possono tirar fuori sei milioni di dollari per il film, subito. Tutto quello che chiedono in cambio è che si cambi il titolo in Candida!... e poi due o tre cosette... l’eroina dovrebbe essere italiana invece che ebrea, ma su questo si può ancora discutere...” (mi schiacciò l’occhio con aria di intesa) “... e poi dovremmo accaparrarci qualche attrice di successo per la parte della protagonista. Io penso, con molta franchezza... dato che ho già visto com’è la situazione con gli studio... che saremmo pazze a non accettare. Ci sono un sacco di soldi... şe ci decidiamo a concludere l’affare adesso. Perché entro le prossime settantadue ore passerà una nuova legge sulle tasse (non chiedermi quale) che prosciugherà letteralmente i fondi di questo gruppo. Quindi bisogna agire in fretta... ecco perché ti ho portato qui questi ragazzi... in modo che tu possa renderti conto di persona che non sono due fanfaroni. Tutto quello di cui abbiamo bisogno per cominciare è che tu firmi un’opzione per i diritti. Le condizioni si possono definire in seguito. L’opzione firmata serve soltanto a loro, per far vedere ai capi che hanno veramente la possibilità di dare il via all’affare. Tutte le menate con agenti e avvocati le definiremo in seguito. Che cosa ne pensi?” Britt mi soffiò in faccia una boccata di fumo con aria enfatica. “Io penso che saremmo veramente pazze a non approfittare di questa occasione.”

Quel discorsetto mi lasciava perplessa. L’unica cosa che la cifra sei milioni mi faceva venire in mente era il numero di ebrei fatti fuori dai nazisti, e poi non sapevo assolutamente di che tipo di “gruppo” stessero parlando. Volevo sembrare reticente ma esperta. E così dissi, “Che attrice avete in mente per la parte della protagonista, comunque?”

Danny si aspettava la domanda. Saltò in piedi (anche così non arrivava all’altezza di un uomo normale seduto).

“Ascolta, bambina,” disse, “non voglio sembrarti uno sbruffone, ma negli ultimi due anni mi sono occupato di certi ‘affari’ per conto di Robyn Barrow. Siamo buoni amici... anche se, tanto per dire le cose come stanno, a lei piacciono le donne... e ti posso assicurare che sono in grado di coinvolgerla nel nostro progetto per centomila sottobanco... e con questo il successo del film è assicurato.” Sapevo un sacco di cose su Robyn Barrow... la diva di Flatbush... ma quella descrizione era assurda. “Affari”? Donne? I centomila... quella era un’altra storia. A nessuno piacciono le tasse. E più sono ricchi meno gli piacciono... ma perché mai una donna di classe come Robyn avrebbe dovuto andare in giro con un tipo come Danny? (Hollywood, dopotutto, è il feudo di una banda di italiani e di ebrei di New York molto più interessati alla compravendita di immobili che al sesso pervertito.)

“O.K.,” disse Danny, “forse vorrà i centomila su una banca svizzera, non sottobanco. Ma è una brava ragazza, giudiziosa... e di gran compagnia. Senti, una volta le ho detto, ‘Robyn, se qualcuno cerca di fare il furbo con te gli spezzo tutt’e due le gambe... e se tu sei nei guai e non mi chiedi aiuto spezzerò le tue di gambe,’ capito?”

Avevo capito. Una teoria interessante. Centomila sottobanco oppure un paio di gambe spezzate per far fronte alle molte vicissitudini del destino. Doveva esserci un manuale che spiegava meglio la teoria, ne ero sicura.

“Piccola, mi piaci,” mi disse Danny. “Mi piace anche lei” (indicò Britt con un cenno della testa). “Sembra un barboncino... e tu sembri un cocker spaniel. Sentite, sono pronto a spezzare le gambe a chiunque vi dia fastidio. Quando hai un amico come Danny, piccola, capisci il significato della parola amicizia per la prima volta.”

L’amico di Danny, Spinoza, un omaccione alto almeno trenta centimetri più di Danny, annuì con aria grave.

“È vero,” disse. “Danny non dice mai bugie.”

“E allora,” disse Britt, “Che cosa ne dici di questa storia?”

“La protagonista deve essere italiana oppure avete detto tanto per dire?” chiesi.

“Oh, stavo scherzando,” ammise Britt. “Questi due ragazzi sono molto sofisticati. Gli piacciono gli scherzetti come questo. E in realtà Robyn Barrow è una buona idea. Ma nessuno potrebbe prenderla per italiana. Ricordati che cosa ti ho promesso: controllo artistico totale.” Sonny e Danny fecero di sì con la testa, con aria solenne.

“Sei tu l’artista,” disse Danny. “Sei tu che hai il talento. Noi siamo solo i finanziatori. Ti dirò una cosa, se io avessi il tuo talento, sarei sospettoso, proprio come te. E così pensaci pure sopra. Potrai conoscerci meglio. Più ci conoscerai e più conoscerai questo sporco mondo del cinema meglio sarà per noi. Hollywood è piena di pescecani... e non solo nello Squalo. È un mondo di lupi.”

Britt fece di sì con la testa. “Io odio il mondo del cinema, rimanga fra noi,” disse, “e uno di questi giorni mi ritirerò in campagna a scrivere... Ecco che cosa voglio fare veramente. Ma il problema è che non abbiamo molto tempo. Settantadue ore... prendere o lasciare. E in queste settantadue ore dobbiamo concludere qui e poi correre a New York a concludere con gli avvocati del gruppo. E poi voglio dare una vera festa hollywoodiana per te, prima che te ne vada... in realtà ho già invitato cinquanta persone a casa del mio avvocato per domani sera... e poi ho prenotato quattro posti per noi sul Red-Eye per New York... quindi la cosa migliore è che tu firmi subito questa opzione... e poi potremo definire il resto a New York.”

Dalla borsa di cuoio color caramello tirò fuori un pezzo di carta tutto cincischiato e me lo tese. Era stampato fitto fitto, a caratteri piccolissimi, ma riuscii a leggere l’intestazione: MODULO DI OPZIONE UNIVERSAL. E poi da qualche parte, verso il fondo della pagina, una scritta raggelante: Diritti mondiali perpetui.

“E che cosa dovrei fare? Firmare col sangue?” dissi scherzando. (Tipico di Isadora avere il presentimento di star facendo una puttanata e farla comunque.)

“Oh, non far caso a tutte quelle chiacchiere di avvocati,” disse Britt, “cureremo i particolari in seguito. La cosa più importante è dare il via al progetto. Più tardi potremo fare un contratto vero e proprio, con agenti e avvocati... potremo fare le cose per bene. Ma adesso loro hanno bisogno di questo pezzo di carta firmato da sbattere sotto il naso a quella gente. Nessuno sarebbe disposto a sganciare sei milioni di dollari senza nemmeno un pezzo di carta, no? E tu devi fare solo questo per noi... firmare un pezzo di carta.”

“Veramente sarebbe meglio che chiamassi un agente, no? Oppure un avvocato?”

“Senti,” disse Britt. “Voglio che tu sia completamente al sicuro. Veramente. E se chiamerai un avvocato vorrà vedere le carte e per far questo ci vorrà del tempo e ci saranno le solite menate legali e noi abbiamo solo settantadue ore a disposizione. Ma chiamalo pure, se vuoi. Avanti, chiamalo. D’altra parte invece potresti fidarti di me... sono tua amica, no?... e poi definiremo tutti i particolari. Io lavoro in questo ambiente da un sacco di tempo e posso dirti una cosa sola... nel mondo del cinema non si combina niente senza un po’ di fiducia. Ecco perché ci tengo a far partire il progetto. Senti... tu sei qui, tutti sanno che io farò il film, nessuno altro ti farà offerte per i diritti perché sanno che li ho già io... e allora perché dovresti fare difficoltà proprio adesso che stiamo per avere i finanziamenti? Ti stai mettendo i bastoni fra le ruote da sola, non capisci? E questo pezzo di carta non conta niente, proprio niente. In seguito sistemeremo tutto nei particolari.”

“Se non conta niente perché volete che lo firmi? Perché non potete semplicemente dire a quella gente che io ci sto, purché le cose vengano fatte per bene?” chiesi.

“Perché sai come sono fatti quelli che hanno i soldi,” disse Britt. “Sono idioti, idioti completi. Hanno sempre bisogno di qualche pezzo di carta.”

Sonny si strinse nelle spalle, esprimendo simpatia per il povero artista innocente obbligato a fare i conti con tutti quegli idioti coi soldi. “A volte si è costretti a fare affari con degli idioti,” disse.

“Sì,” disse Danny, “questo è un gruppo privato di investimento di cui fanno parte quindici, forse venticinque persone. Non si può metterle in moto senza qualcosa di scritto. Ma sappiamo benissimo che non significa niente. Quella gente non capisce un cazzo di cinema. Sono solo uomini d’affari, ecco tutto.”

“Ecco qua,” disse Britt, togliendo il cappuccio a una biro e porgendomela insieme al foglio spiegazzato. Sonny e Danny si avvicinarono subito, circondandomi. Quello che aveva detto Britt era vero. Tutti sapevano che le avevo ceduto i diritti, anche se non avevo firmato niente, e così che cosa potevo fare.. andare a chiedere la carità? Perfino il mio agente aveva detto che non avremmo ricevuto altre offerte serie. Firmai con il cuore che mi si stringeva.

La sera dopo, alla festa “hollywoodiana” c’erano tutti quelli che contavano... gli ospiti, i parassiti e alcuni esemplari inclassificabili... tutti che girellavano pigramente sul patio della villa anni Venti stile moresco di Bel Air costruita da una stella del muto e adesso di proprietà dell’avvocato di Britt. C’era anche Robyn Barrow, con quei suoi enormi occhi scuri, il nasetto minuscolo rimodellato dal chirurgo e il suo amante hippie di Big Sur. Circolava la voce che Robyn fosse in grado di “far partire” qualunque tipo di progetto... ecco chi era quella donna! La sua agente lo sapeva benissimo. Deena Maltzberg era larga quanto Robyn era alta, portava occhiali rosa a forma di cuore e aveva unghie lunghissime color platino. Aveva anche un incredibile senso dell’umorismo... e, benché fosse una trafficona tremenda, non mentiva mai. Aveva la tendenza a coccolare le sue clienti come se fossero bambine, a stare sempre fra i piedi e a chiamarle “piccola”. La sentii perfino insistere perché Robyn mangiasse qualcosa.

“Tesoro, piccola mia, almeno un gambo di sedano, proprio per non svenire,” disse Deena.

Devo proprio?” disse Robyn con una vocetta da bambina.

“Sì, piccola, devi... altrimenti la mamma si arrabbierà moltissimo con la sua bambina,” e Deena continuò su questo tono.

Poi si voltò verso di me, “Questa è Candida,” disse. “Candida, questa è Candida.” E schiacciò l’occhio prima a me e poi a Robyn. Io restai lì impalata a guardare quella leggenda vivente, senza sapere che cosa dire. Quando una persona è così famosa, si conoscono di lei le mille facce presentate dai rotocalchi e dallo schermo ed è impossibile vederne il vero volto sotto tutte quelle false immagini.

“Il tuo libro mi è piaciuto moltissimo,” disse timidamente Robyn, tormentandosi una ciocca dei capelli neri che potevano (o meno) essere suoi. “Dev’essere meraviglioso saper scrivere.”

“Dev’essere meraviglioso saper cantare,” dissi io. Oppure guadagnare cinque milioni di dollari all’anno. O avere tutto quel potere. Ma in realtà non ci credevo. Sapevo che i soldi non danno sicurezza alla gente e che probabilmente Robyn era alla mercé della sua agente, del suo avvocato, della sua banca, del suo ragazzo, dei suoi ammiratori. Sapevo abbastanza della fama per avere la certezza che creava almeno altrettanti problemi quanti ne risolveva. Specialmente il tipo di fama che aveva Robyn. Non poteva mai contare sul fatto di essere invisibile, non poteva mai essere una qualunque. Era per questo che la pagavano... per essere costantemente disponibile, costantemente in vetrina. In una cultura in cui la popolarità equivale a potere, più si è potenti, più si è visibili. Ma si tratta di uno strano tipo di potere perché fa di coloro che lo posseggono altrettante vittime. Meglio essere potenti alla maniera di Sonny Spinoza... senza essere famosi, dietro le quinte. L’anonimato dà una libertà della quale nessuno si accorge finché non la perde.

Robyn era a disagio e si guardava intorno spaventata e diffidente. Aveva l’aria imbarazzata tipica delle persone in vetrina. La gente famosa sembra sempre guardare da un’altra parte... si guardano le scarpe, oppure si nascondono dietro i capelli lunghi, dietro gli occhiali scuri o sotto i cappelli a tesa larga... forse perché si sentono vulnerabili, sotto quei milioni di occhi che li fissano in continuazione. Robyn indossava un fantastico vestito di chiffon grigio, pieno di lustrini d’argento, orlato di volpe argentata.

“Questo vestito è adorabile,” le dissi.

“Oh,” disse lei e si strinse nelle spalle come se stessimo parlando di un paio di jeans. “Odio i vestiti di questo tipo, ma Deena dice che devo indossarli... per il personaggio. Bleah!” E fece la faccia della discola costretta dalla mamma a mettersi il vestitino di organza con le scarpine di vernice.

“Vuol sapere una cosa? Non dovrei dirla ma sono così fatta che non me ne frega niente. Deena è la migliore amica che ho al mondo, voglio dire proprio l’unica amica... come quando si hanno dodici anni e si va a scuola insieme, sai... e si fa il patto di sangue, capisci? E in realtà non so nemmeno se sarebbe mia amica se non fosse anche la mia agente. Non è assurdo? Non è assolutamente assurda, una cosa del genere?” Ma Robyn non aveva nessuna voglia di aspettare la mia risposta. “Scusami,” disse, “devo andare a far pipì.”

Mi voltai, sperduta, e mi trovai davanti agli occhi un mucchio di astri del firmamento di Hollywood: la famosa stella svedese Siv Bergstrom; la sua elegantissima “amica”, Ninka Bernadotte (alta e bruna, in giacca di velluto e pantaloni di lamé d’argento); Sally Sloanè, l’inglesina arrivata dalla Londra del 1968 e mai più ripartita; e un sacco di stelle nascenti americane, un sacco di stelline, stellette e mezzestelle con il loro seguito. (Perché mai le stelle avessero bisogno di un seguito era una cosa che non avevo capito finché non ero diventata famosa... poi mi era stato chiaro che quando non si è più anonimi, invisibili, bisogna sviluppare una specie di colorazione mimetica e che gli unici che la possono fornire sono gli altri. Era come avere un bersaglio disegnato sulla fronte, come essere una lumaca senza guscio, una renna senza corna. Si aveva un assoluto bisogno di gente normale, anonima, invisibile intorno per prendere a prestito la loro anonimità).

Britt era in piedi in un angolo del patio ombreggiato da alberi, e cospirava con il suo avvocato, inalando di tanto in tanto un po’ di polverina bianca da un minuscolo flacone. Il suo avvocato era forse l’unico uomo calvo di tutta Beverly Hills... il che, dopotutto, era un segno di distinzione in una città in cui i trapianti di capelli sono più comuni dell’erba gramigna. Portava una maglietta con la scritta “SONO RICCO”. Una vera provocazione. E poteva permettersela. In un mondo così insicuro e imprevedibile, dove perfino le stelle più famose venivano a trovarsi da un momento all’altro senza i soldi per pagare le tasse, gli avvocati erano i soli del giro a non avere problemi di lavoro e a incassare parcelle vistose, vincessero o meno le cause dei loro clienti. Lo stato di avvocato a Beverly Hills doveva essere quanto di più simile ci fosse allo stato di proprietario terriero nell’Inghilterra del diciottesimo secolo.

Il proprietario terriero in questione, di nome Melvin Weston (nato Weinstein?)... mi scivolò accanto e mi invitò a seguirlo in un grand tour della casa.

“Potrà usare il materiale in un nuovo libro, chissà!” disse, sorridendo proprio come un avvocato. (Oh Dio, pensai, chi odio di più? Gli avvocati o gli psicanalisti? Un bel dilemma. Diffidare di chiunque si faccia pagare un tanto all’ora: quasi sempre hanno l’orologio che va avanti.)

Ma rivolsi a Melvin un sorriso dolce dolce. “Un’ottima idea,” dissi. Britt corse a confabulare con Deena Maltzberg; Spinoza e Dante stavano corteggiando Robyn Barrow; e Josh (sempre intimidito da riunioni del genere) era stato preso sotto le voluminose ali di una agente in gonnella, molto pettoruta e molto ubriaca, di nome Maxine Medoff, gentilmente soprannominata “Vipera”.

“Venga con me,” disse Melvin.

Proprio in quel momento un uomo alto, con una faccia nota (ormai grigia dal disuso), ci venne incontro barcollando e disse con aria ambigua, “Posso venire con voi?” Guardai quella faccia stanca, dall’espressione canzonatoria, quei grandi occhi verde mare con enormi occhiaie nere e riconobbi Boyd McCloud, che credevo morto... anche se poteva avere sì e no quarant’anni. (Com’è che quando gli attori non compaiono più nelle foto dei rotocalchi, si pensa che non siano più di questo mondo? Morte per pubblicità... o per anonimato.) Boyd McCloud era stato sul punto di diventare il nuovo James Bond... oppure il nuovo Tarzan, adesso non ricordo bene... dieci anni prima. Era uno sciatore olimpionico, un eroe dei mass media, posava per la pubblicità delle sigarette, per le copertine delle riviste, faceva provini e filmini pubblicitari per prodotti “maschili”, da duri. Aveva fatto un film... un polpettone su un campione olimpionico di nuoto... e poi era sprofondato nell’oblio più totale... vittima di troppa pubblicità e poca sostanza. Una volta aveva bisogno di tre avvocati, due agenti e due pubblicitari, e adesso probabilmente passava le giornate in coda all’Ufficio di collocamento.

Mi sorprendeva che Melvin se lo tenesse intorno. In America, e in particolare a Hollywood, si pensa che il fallimento sia una malattia tremendamente contagiosa... specialmente il fallimento creato dalla stessa Hollywood. Ma Boyd era stato un cliente di Melvin e gli doveva dei soldi e Melvin voleva sempre esser sicuro che la gente che gli doveva dei soldi non sparisse nel nulla.

“Guida le mie Rolls,” disse Boyd con disinvoltura.

“Le mie, adesso,” precisò Melvin.

“A saldo delle parcelle,” disse Boyd, tanto per mettere bene in chiaro le cose, prendendomi per la novellina che ero.

“All’inferno... Boyd... quelle Rolls sono solo un anticipo... in realtà tu mi devi l’anima.”

“Quale anima?” disse Boyd.

Partimmo tutt’e tre per il grand tour. Visitammo la grande sala di proiezione in stile moresco, con grossi cuscini sul pavimento al posto delle sedie. Visitammo le cucine cavernose nel seminterrato, con la collezione di calici Tiffany in bella mostra, i servizi di piatti di vermeil e gli armadi pieni di terraglie ereditate da transatlantici defunti. Visitammo la serra col tetto a cattedrale, i vetri piombati a mano, stile art-nouveau, con una fontana all’italiana nel centro (e un fiume in miniatura che scorreva pigramente fra vasi di orchidee e gardenie fragranti). Visitammo la piscina, scavata in un boschetto di banani, con enormi, orrende sculture cubiste appoggiate su piedistalli in mezzo all’acqua. Visitammo la stanza da bagno padronale con la moquette bianca, il lampadario proveniente da uno degli appartamenti di prima classe dell’Ile de France e lo Jacuzzi di marmo bianco sprofondato in un tappeto peloso.

Ogni oggetto veniva amorosamente, appassionatamente illustrato da Melvin in persona, con l’accompagnamento sinistro e imbarazzante di Boyd... che continuava a precisare come ogni oggetto fosse stato pignorato a un cliente o all’altro che non poteva pagare, compresa, evidentemente, la casa stessa. Melvin negava. “Avanti, Melvin,” disse Boyd, “saresti capace di pignorare il letto a tua madre, se non ti pagasse una parcella.”

“Ma se non altro non le farei causa... come certe persone di mia conoscenza,” disse Melvin in tono misterioso... e scoppiarono entrambi a ridere fragorosamente.

Avevo paura di chiedere chi, fra tutte quelle stelle del cinema, aveva fatto causa alla propria madre. Ma non avevo nessuna voglia di saperlo.

“Svelti, svelti, ragazzi,” disse Britt, radunandoci in branco, mentre l’ora magica, le nove, si avvicinava. Dovevamo prendere il Red-Eye per New York e bisognava mettere insieme valige e persone e salutare tutti.

“Ti porto io all’aeroporto,” si offrì Josh.

Ci guardammo, non sapevamo se ci saremmo visti ancora.

“Bene,” disse Britt. “Sonny e Danny e io prendiamo la limousine... e dobbiamo passare a prendere le mie valige e quest’altra scrittrice che viene a New York con noi... Shelley Granowitz... e poi sto pensando seriamente di portarci anche Cliff...”

Cliff era un nuovo acquisto... accaparrato, in realtà, non a saldo di una parcella, bensì nel breve periodo di tempo che ci era voluto a Melvin e Boyd per mostrarmi la casa. Clifford Bing era bello, con lo sguardo vitreo e aveva ventiquattro anni. Aveva gli occhi color turchese, una collana di turchesi al collo e i capelli più biondi che avessi mai visto. E non diceva mai una parola. Io mi ero trovata un ventiseienne e Britt aveva subito dovuto trovarsene uno di almeno due anni più giovane. Ecco a che punto di competitività riusciva ad arrivare.

“Non è giusto,” dissi debolmente. “Se tu ti porti Cliff io mi porto Josh...”

“Piccola,” disse Britt fissandomi con quei suoi occhi gelidi, “non possiamo permetterci di portare anche Josh. E poi tu a New York hai un marito, o te ne sei dimenticata?” E poi, come un boia dal cuore tenero, mi offrì una boccata del suo joint.

“Ne ho bisogno,” mormorai.

“Tientelo pure tutto,” disse lei, munifica... e se ne andò a fare il suo giro di saluti.

Io e Josh ci dicemmo un fattissimo addio in macchina, durante il tragitto verso l’aeroporto, nell’aeroporto e perfino alla rampa d’imbarco.

“Scrivimi,” dissi.

“A quale indirizzo?”

E improvvisamente ci ricordammo che io ero una donna sposata e che non mi era proprio possibile ricevere a domicilio le lettere dell’amante.

“Due amici,” dissi, “entrambi degni di fiducia e molto cari.” E gli diedi l’indirizzo di Hope e di Rosanna Howard.

“Ti amo,” dissi, “e non voglio tornare a casa.”

“Anch’io ti amo,” disse lui, “ma credi che basterà?” E restò lì con quel suo sorriso obliquo incollato sulle labbra, agitando la mano, alla rampa di imbarco, mentre io mi allontanavo camminando all’indietro, incapace di staccare gli occhi da lui, finché fui costretta a girare l’angolo e Josh sparì alla vista, una figura minuscola alla fine del tunnel.

L’aereo decollò. Le luci di Los Angeles punteggiavano la spessa coltre di smog. Io ero in lotta contro il movimento dell’aereo. A mano a mano che guadagnavamo altezza le punte delle dita mi facevano sempre più male: sentivo la mancanza di Josh. Quando l’aereo virò sul Pacifico dirigendosi verso oriente mi sembrò che le pareti della carlinga si chiudessero su di me e dovetti fare uno sforzo tremendo per non muovermi, per restare seduta dov’ero, per non alzarmi e tornare indietro.

Ero furibonda con me stessa per aver permesso a Britt di trascinarmi in quel viaggio, per aver firmato l’opzione, per essere salita su quell’aereo. Quella Britt era così dura e autoritaria che riusciva sempre a ottenere il consenso degli altri ai progetti più incredibili.

A nessuno veniva mai in mente di mettere in questione la sua autorità, semplicemente. Altrimenti come avrei fatto a finire, completamente fatta, sul Red-Eye, con quel branco di strani personaggi? Eravamo una carovana di pagliacci, un gruppetto di buffoni, una troupe di puttane, un branco di idioti. Il nostro gruppo occupava quasi tutta la prima classe. Sonny e Danny, Britt e Cliff, Shelley Granowitz con il suo yorkshire di nome Bogart (nascosto sotto la pelliccia di orsetto lavatore, mi fece pipì addosso appena salito sull’aereo), e due produttori dall’aspetto tremendamente finocchiesco di nome Sam Fink e Dan Fox (della Fox-Fink Productions), che lavoravano insieme, vivevano insieme e avevano improvvisamente deciso di venire con noi, anche se non avevano il minimo interesse a partecipare ai profitti di Candida!, almeno così mi assicurarono. Uno di loro (Sam) era in analisi: le sedute si svolgevano interamente per telefono, in transcontinentale, tra Los Angeles e New York, almeno così mi disse. Tutti i pomeriggi all’una (le quattro per la sua analista) faceva il numero di New York, si sdraiava sul divano del suo ufficio di Beverly Hills e si lasciava andare a libere associazioni per telefono. All’una e cinquanta (le quattro e cinquanta per lei), la seduta era finita. Tutto questo gli costava almeno cinquecento dollari la settimana, ma naturalmente era la casa di produzione che pagava. Per l’uomo delle tasse l’analista era una “consulente” di New York.

“Ecco perché ho apprezzato tanto il suo libro,” mi disse balbettando, “perché anch’io sono passato attraverso tutta la trafila analitica.”

“Fa sempre piacere incontrare un’anima gemella,” dissi io.