14.

LA STRADA IN CUI HO VISSUTO...

La California è un sogno nella mente di New York... New York è un incubo dal quale Los Angeles cerca disperatamente di svegliarsi...

Per andare da Los Angeles a New York ci vogliono cinque ore di volo, ma la distanza reale dovrebbe essere misurata in anni-luce. Los Angeles è più diversa da New York di quanto New York lo sia da Londra, Stoccolma o Parigi. Un giorno gli scienziati scopriranno la natura del gas invisibile che riempie l’aria della California del sud e riesce a convincere i più rigidi, cinici americani dell’est a spogliarsi nudi, a perder tempo al sole, a divorziare, a costruire piscine, a darsi allo Zen, a confabulare con gli spiritualisti e, in generale, a comportarsi come se avessero scoperto Dio attraverso il sesso, la nudità, il culto del sole.

Il ritorno a New York da Los Angeles è sempre un’esperienza profondamente sconvolgente. Improvvisamente le strade diventano strette, i corpi imbacuccati, il cielo si restringe a una striscia grigia fra le cime dei grattacieli... e di colpo si ritorna a quella frenesia di attività per lo più inutili che i newyorchesi definiscono Vita. Rumori, sporcizia, frenesia. Gente con la fronte aggrottata che si protegge il corpo con le braccia incrociate, con le parole dure, con i vestiti pesanti. Donne che stringono affannosamente la borsetta al petto. Facchini, tassisti e guardiani di gabinetti villani e collerici. Il cielo li schiaccia. I grattacieli li opprimono. Sono nervosi per mancanza di spazio. Non possono muoversi e respirare. Vorrebbero tutti essere in un altro posto, magari in California.

Solo quando l’intera banda fu scesa a terra e si fu allineata in attesa delle valige, mi accorsi di quanto freddo facesse a New York. Avevo lasciato Los Angeles con addosso lo stesso caftano leggero e i sandali che mi ero messa per la festa. Il turbolento yorkshire di Shelley mi aveva fatto pipì sui piedi che adesso erano freddi e appiccicaticci. Britt e i suoi amici ridevano e scherzavano e io mi sentivo come un bambino emarginato al campeggio estivo.

Andavano tutti allo Sherry-Netherland. Io invece dovevo tornare alla casa della Settantasettesima strada, dove sarei stata costretta ad affrontare i rimasugli della vita che mi ero lasciata alle spalle. Sentivo ancora la mancanza fisica di Josh, mi dolevano le dita e avevo il cuore stretto. Ogni dieci anni vado in California e la mia vita cambia completamente, pensai, e intanto dicevo a me stessa che quella frase sarebbe stata un buon inizio per un nuovo libro. E poi maledii me stessa per aver avuto quel pensiero. Non volevo un altro libro, volevo Josh. Mi rifiutavo di scrivere un altro libro in cui l’eroina in cerca d’amore trova solo cinismo. Avevo già raccontato ripetutamente quella storia. L’avevo raccontata nelle poesie, in un romanzo, in un copione cinematografico, perfino... e non c’era nessuna ragione di ricominciare.

Tutto dentro di me cercava di reagire ai miei sentimenti per Josh. Il Beverly Hills Hotel sembrava un sogno. Le lunghe ore a letto, le strane ordinazioni nel cuore della notte (“Marmellata di fragole senza toast,” aveva chiesto Josh, che voleva che ce la spalmassimo addosso per leccarla via) le ore passate a parlare di tutto sotto il sole, ridendo, capendo a poco a poco che, nonostante la differenza di anni, eravamo anime gemelle... non mi fidavo di tutto questo. Era troppo bello, troppo allegro. Non poteva durare. Doveva finire... tempo un mese... al massimo due. E allora? Qual era l’alternativa? Tornare da Bennett e scrivere un altro libro cinico per provare che l’amore è un’illusione? Di libri come quello al mondo ce n’erano più di quanti ne fossero necessari. Tutta la grande narrativa dell’età moderna parlava di donne che si innamoravano di vili seduttori e a causa di quell’amore morivano. Chi fra le onde del mare, chi sotto le ruote di un treno, chi di parto. Qualcuno doveva pur sfatare la maledizione, qualcuno doveva pur svegliare la Bella Addormentata senza per questo mandarla al massacro, qualcuno doveva pur gridare una volta per tutte: ribellati, vivi e racconta agli altri com’è andata!

“Avanti, ragazzi,” disse Britt. “Da questa parte per l’albero dei dollaroni!” E ci ammucchiammo tutti nella limousine dietro di lei.

Le strade grige del Queens e il cuore che mi mancava. Di solito la vista del Queensboro Bridge mi riempie di eccitazione. Significa New York, Casa mia, un certo tipo di esaltazione che non si prova in nessun altro posto al mondo. Ma questa volta New York sembrava tetra, lugubre, triste. Era una prigione a tremila miglia di distanza da Josh. New York era il passato e la California era il futuro. Non avevo niente da fare in quel posto, non avrei dovuto essere lì, non volevo tornare al passato.

La Settantasettesima strada in una gelida mattina di ottobre. Il Museo di Storia Naturale come un incubo di mattoni rossi, le foglie portate via dal vento, la gente che guarda il cane cacare sul marciapiede. Era la mia casa... ma non mi sembrava più tale. La mia casa era con Josh.

Pensai al mio ritorno nella Settantasettesima strada con Bennett, nell’estate del ’69. Era l’estate del primo uomo sulla luna, l’estate dopo la morte della nonna, l’estate dell’infarto del nonno che non voleva più saperne di vivere.

Che cosa mi aveva riportato nella Settantasettesima strada? In una certa misura anche le minacce di Bennett (aveva minacciato di lasciarmi se non avessi accettato l’appartamento del nonno), ma forse c’era anche qualcosa di più profondo: il bisogno di piantare di nuovo radici dopo quegli anni alienanti in Germania, il bisogno di ritrovare la mia infanzia per poterne scrivere e così trascenderla, il bisogno di ritrovare il filo del passato, di dargli un senso. E forse anche la scrittrice in me, che voleva tornare allo scenario della sua infanzia.

Avevo vissuto nella Settantasettesima strada dall’età di due anni all’età di dodici. (Poi avevamo traslocato in un altro triplex cadente a Central Park West, un appartamento simile all’altro... ma io ero più grande). Nella Settantasettesima strada avevo avuto il mio primo triciclo, avevo imparato a girare su “due ruote”, avevo imparato ad attraversare le strade per andare a scuola.

Ero arrivata sulla Settantasettesima strada Ovest che non sapevo ancora stare ben salda sulle gambe e non ricordo altra casa prima di quella. Ricordo invece Columbus avenue, quando i bar erano irlandesi invece che portoricani; quando gli autobus correvano in due direzioni e costavano cinque cents, poi sette cents, poi quindici cents; quando c’erano coincidenze per la parte est e ovest della città, prima gratuite, poi a due cents di tariffa, poi più nulla. Niente costa più due cents sulla Settantasettesima strada... nemmeno le cartoline. In effetti la cassetta delle lettere dietro l’angolo ogni tanto sparisce, senza lasciare tracce, se non quattro bulloni sul marciapiede di cemento. Riappare, qualche settimana dopo, in qualche seminterrato, spogliata degli assegni della pubblica assistenza. L’idea che qualcuno rubi una cassetta delle lettere tutta intera mi sembra il simbolo estremo dell’anarchia urbana. Gli scippi sono un fatto normale, in una città; la cacca di cane e le radio a transistor a tutto volume possono essere sopportate o ignorate; ma la posta è sacra... specialmente per uno scrittore. Aspettare la posta è uno dei momenti principali della giornata di uno scrittore. Se le cassette delle lettere possono essere rubate così, dalla strada, in pieno giorno, non c’è più nulla di sacro.

Ricordo la Settantasettesima strada durante la grande nevicata del 1947. Le macchine sepolte nella neve, i gradini del museo cancellati, spariti, e i bambini che urlavano nella neve alta, che lasciavano impronte in quel silenzio bianco.

Ricordo le serate di Ognissanti nella Settantasettesima strada, in giro a estorcere chicche con le minacce casa per casa, ricordo la primavera che tornava nei fiori degli alberi da frutto davanti al museo... e naturalmente il rituale del giorno del Ringraziamento, i grandi palloni colorati che si gonfiavano.

Da bambina vivere nella Settantasettesima strada era come appartenere a un club di privilegiati. Gli altri bambini guardavano da lontano i palloni salire nell’aria; noi li guardavamo gonfiarsi a poco a poco, da vicino. Gli altri bambini venivano a guardare i dinosauri con la metropolitana; noi praticamente vivevamo coi dinosauri. Ci sentivamo come gli abitanti di un paese di titani. Eravamo piccoli, va bene, ma vivevamo gomito a gomito con giganti leggendari. Eravamo bambini, va bene, ma frequentavamo gli dei.

Durante gli anni dell’adolescenza, naturalmente, avevo rinnegato l’intero isolato. Avrei voluto vivere nel Village, a Granmercy Park, a Parigi, a Roma. Qualunque posto era meglio che la Settantasettesima strada. Poi la mia famiglia aveva traslocato, spostandosi da quell’appartamento da artisti che cadeva a pezzi sulla Settantasettesima strada a un altro appartamento da artisti che cadeva un po’ meno a pezzi sull’altro lato del museo. Non molto lontano... ma un altro mondo. Adesso stavamo dalla parte del Planetario invece che dei dinosauri: un salto di migliaia di anni luce.

Che cosa spingesse me e Bennett a tornare nella Settantasettesima strada nel ’69 non è ben chiaro. Chiamatela paura... oppure chiamatelo sincronismo. Oppure ritorno alle radici dell’infanzia. Gli scrittori del sud hanno i loro fiori di magnolia e le piantagioni in rovina, io ho la mia cacca di cane e le cassette delle lettere che spariscono da un minuto all’altro. Può darsi che quella strada puzzasse di spazzatura... ma era la mia strada. Può darsi che i turisti vedessero la pensione di quint’ordine come un pugno nell’occhio, i sacchi di immondizia traboccanti, gli scarafaggi giganti che attraversavano allegramente la strada in pieno giorno, i ragazzotti portoricani che sussurravano, “Ehi, bella, vuoi scopare?”... ma io vedevo solo la mia infanzia. Quello che la rue des Vignes e la rue des Hospices erano per Colette, la Settantasettesima strada e Central Park West erano per me. Gli amici mi prendevano in giro perché vivevo ancora nella stessa strada in cui ero cresciuta, ma io sapevo che, almeno in quel momento della mia vita, per me era importante restare lì.

Quel momento era passato. Adesso la Settantasettesima strada sembrava soffocante in confronto alla California e al gran cielo dell’ovest. Tutta la mia vita in quel posto era un artificio. Adesso vivevo dov’era il sorriso buffo, caldo di Josh.

Trascinai le valige nell’atrio e citofonai nel mio appartamento. Bennett era in casa. Miracolosamente Bennett (che non cambiava mai i suoi programmi qualunque cosa succedesse) era rimasto a casa ad aspettarmi. Più mi allontanavo da lui, più sembrava innamorato. Durante i primi anni del nostro matrimonio, quando io facevo tutto il possibile perché le cose andassero bene, lui mi trascurava, si chiudeva nei suoi silenzi, si arrabbiava, andava da Penny e mandava me dallo strizzacervelli invece di prendermi fra le braccia. Adesso era lui a darsi da fare... ma era troppo tardi. Troppo tardi.

Sentì la chiave girare nella toppa e aprì la porta.

“Tesoro,” disse, e mi prese tra le braccia. Dopo tanti anni di gelo quel suo calore mi sembrava falso. Il suo corpo era strano, freddo come quello di un rettile. Non era il corpo al quale mi sentivo unita. Ero in un’altra sfera, adesso. Toccai Bennett senza toccarlo realmente... come se fra noi due ci fosse un diaframma invisibile.

Si era tagliato i capelli, i baffi alla mongola e si era anche fatto crescere una barba freudiana. Stentata, per la verità, ma l’influenza del maestro era evidente. Aveva le orecchie a sventola... le aveva sempre avute? Impossibile saperlo.

“Lasciati guardare,” disse. “Hai un aspetto meraviglioso.”

Possibile che non vedesse Josh su di me? Era cieco?

“Perché ti sei tagliato i capelli?” chiesi, ritraendomi. “E perché ti sei fatto crescere quella stupida barba?”

“Oh, ne ho discusso con il dottor Steingesser. Sembravo un bambino, senza.”

“Adoravo i tuoi capelli lunghi.”

Scrollò le spalle con indifferenza. Non era importante: quello che diceva il suo analista era importante.

“E poi, che cosa c’è che non va nel sembrare un ragazzino?”

“Non va bene per i pazienti,” disse lui.

“Questa è una stupidaggine. I pazienti non vengono da te perché hai i capelli corti. O perché hai la barba.”

“Questo è quello che pensi tu,” disse Bennett con disprezzo. “Non voglio più sembrare un ragazzino. Il dottor Steingesser mi ha fatto capire che provavo un desiderio inconscio di sembrare giovane. E dopotutto ho quarant’anni.”

“Non ho mai capito perché aver l’aria di un conformista assoluto possa essere d’aiuto nel trattare con l’inconscio. Francamente penso che si tratti di stronzate. Non c’è ragione che il grigiore e l’aspetto austero aiutino a interpretare i sogni della gente.”

Bennett era irritato ma ben deciso a non litigare. Era restato a casa ad aspettarmi, aveva annullato i suoi appuntamenti per me... tutte cose che mi avrebbero fatto sciogliere come neve al sole se le avesse fatte qualche anno prima, o perfino qualche mese prima. Ma adesso non mi importava niente. Anzi, mi irritava. La sensazione che avevo ricavato dal mio primo incontro con Bennett era di spiacevole ipocrisia. Come facevo a farglielo capire? Come facevo a esprimere questa sensazione? Non riuscivo nemmeno a esprimerla a me stessa.

Lui mi abbracciò, si sfregò contro di me. Sentivo la sua erezione attraverso i pantaloni e mi riempiva di ripugnanza; poi provai un’ondata di incredibile tristezza. Tutte le volte che io e Bennett avevamo dovuto separarci in passato, mi ero preoccupata che potesse andare in giro a scopare, che potesse trovarsi un’altra donna, o semplicemente che potesse decidere di non volermi più. Ora per la prima volta ero completamente sicura della sua fedeltà, del fatto che avesse sentito la mia mancanza... ed era troppo tardi.

“Andiamo a letto,” disse, prendendomi per mano e trascinandomi verso la stanza da letto.

“Che ore sono? Non devi andare a lavorare?”

“Tra una mezz’ora o giù di lì,” disse lui, del tutto impermeabile alla mia riluttanza. Di solito non ero mai riluttante quando si trattava di andare a letto. Era Bennett a essere riluttante, dei due. Era Bennett a lamentarsi della mia fica vulcanica, della mia eterna voglia di scopare sempre e dappertutto.

“Devo dare un’occhiata a tutta quella posta,” dissi mentre passavamo davanti alla porta del mio studio. “Solo a guardarla divento nervosa...”

“La posta può aspettare,” disse Bennett... che non aveva mai pensato prima che la posta potesse aspettare. Ci eravamo scambiati personalità, sembrava; lui era diventato me.

Mi spogliò con gesti di passione, cominciò a succhiarmi doverosamente i capezzoli, a massaggiarmi la clitoride, mi infilò dentro l’uccello, sussurrandomi che ero bella, che la mia fica era deliziosa, stretta, che lui stava bene, lì dentro. Il mio corpo rispondeva come d’abitudine, quasi contro la volontà della mente che lo abitava. La mia fica si inumidiva per lui, il cuore batteva forte, i capezzoli si indurivano. Venni... pensando a Josh (con il quale era così difficile venire). Oh, Doris Lessing, mia cara... la tua Anna si sbaglia sugli orgasmi. Non sono un segno d’amore... non più di quanto lo sia il tuffo di quell’altra Anna sotto le ruote del treno. Sono tutti trucchetti femminili, mishegoss culturali, condizionamenti, lavaggi del cervello, mitologie maschili.

Che cosa vuole una donna? Vuole quello che le hanno detto che dovrebbe volere. Anna Wulf vuole gli orgasmi, Anna Karenina la morte. L’orgasmo non prova niente. Un giorno tutte le donne avranno orgasmi come tutte le famiglie hanno la televisione a colori... e finalmente potranno cominciare a occuparsi dei veri problemi della vita.

“A che cosa stai pensando?” mi chiese Bennett.

“A Tolstoi e a Doris Lessing,” dissi.

Bennett ridacchiò. Questa era l’Isadora che conosceva, l’Isadora con la quale poteva vivere, l’Isadora che poteva tenere sotto controllo. Questa era la donna che amava la letteratura, non la vita. Con quella donna lui stava bene. E io non mi ero mai sentita tanto a disagio con lei in vita mia.

Per la prima volta [scrissi più tardi a Josh] mi sembra possibile cercare di integrare il mio lavoro con la mia vita. Quello che voglio dire è... credo di aver sempre pensato che bisogna essere infelici per produrre, per scrivere. Non sono sicura di averlo mai detto chiaramente a me stessa... ma una cosa è certa, ho sempre vissuto così. Adesso sto cominciando a chiedermi perché mai io abbia vissuto così. Solo per tener lontano il malocchio? Credo di aver fatto un patto con me stessa, a un certo punto: avrei rinunciato all’amore e avrei avuto in cambio la letteratura. Gli uomini possono avere entrambe le cose. Le donne devono sempre scegliere. E se proprio dovevo scegliere, avrei scelto la letteratura. Almeno ero sicura che non mi avrebbe deluso, o comunque che mi avrebbe deluso meno dell’amore. E così decisi di vivere con una persona con la quale praticamente non comunicavo. E razionalizzavo così la mia scelta: lui mi permette di scrivere.

Mi permette. Solo da poco ho cominciato ad accorgermi di quanto sia patetica questa parola. Io gli permetto forse di fare lo psichiatra? Non mi verrebbe nemmeno in mente di permettere o di non permettere. Non è affar mio. Eppure mi sento grata (e colpevole) nei confronti di Bennett, o almeno mi sono sentita grata per anni, semplicemente perché mi permette di scrivere. E questo mi doveva bastare, doveva supplire a tutto il resto: la mancanza di affetto, la mancanza di comunicazione, la mancanza di risate.

Solo da quando ho cominciato ad accorgermi che le cose che scrivevo erano importanti per gli altri, che aiutavano gli altri, ho smesso di considerare il mio lavoro un hobby che il mio freddo ma indulgente marito mi permetteva di coltivare... e ho cominciato a considerarlo un mio diritto.

Questa consapevolezza mi è stata di enorme aiuto... come peraltro l’approvazione dei lettori. Adesso ho un posto nel mondo, sono collegata al resto della società. Mi sento utile e produttiva, come quando insegnavo inglese alle matricole. Non sono più una che passa le giornate a masturbarsi in una stanzetta.

Viviamo in un mondo dove tutti sono abituati a mentire sui propri sentimenti.. e così la gente prova un’immensa gratitudine per chiunque abbia il coraggio di provare a dire la verità. Suppongo che sia questa la ragione per cui molti scrittori sono venerati come semidei. Può darsi che disprezziamo la verità nelle nostre azioni quotidiane, ma ci sentiamo sollevati e esilarati quando troviamo qualcuno che cerca se non altro di esprimerla in un libro.

Ho passato sei mesi di infelicità dovuta alla mia ridicola notorietà, sopraffatta dalla notorietà, sentendomi in colpa, provando il desiderio di punirmi, divisa e lacerata... ma adesso (con la prospettiva della California, di te, della longevità di Kurt e della morte di Jeannie davanti a me) sto cominciando a capire che forse questa notorietà è un dono che mi è stato fatto perché me ne servissi come di un sentiero verso la libertà.

Per tutta l’infanzia, l’adolescenza, i vent’anni sono stata consumata dall’ambizione, dall’invidia per tutti quelli che riuscivano a pubblicare un libro, che diventavano personaggi famosi, amati, lodati. Poi, quando sono riuscita ad avere la fama e le lodi, sono piombata nella disperazione, nel terrore, nella paura di sbagliare... lacrime versate per preghiere esaudite, cose del genere. Ma adesso sto oscuramente cominciando a capire che per una persona ambiziosa come me l’unico modo per trascendere l’ambizione è proprio arrivare alla fama e sopportarne tutte le follie e gli scompensi. Solo dopo potrò dedicarmi alle cose che mi importano veramente... ad amare qualcuno con tutto il cuore, a scrivere invece di bruciarmi coi mass media, a usare il successo invece di lasciare che sia il successo ad usare me...

Per la prima volta in vita mia sembra proprio che sia riuscita a mettere la testa a posto. Mi sembra che non ci sia nessuna ragione per cui io non possa amarti e scrivere allo stesso tempo... eppure, solo scrivere queste parole mi spaventa. Meglio che la nostra felicità non pretenda di splendere. Meglio non attirare il malocchio...

Ma nei giorni che seguirono un mucchio di cose non andarono per il verso giusto. Non arrivarono lettere di Josh. Rosanna Howard cercò di convincermi a lasciarlo, dicendo che ero pazza a buttarmi in una storia con un altro uomo proprio quando “stavo per rompere i miei rapporti di dipendenza con gli uomini”, proprio quando potevo lasciare Bennett e andare a vivere con lei. Ma come facevo a spiegarle che Josh non aveva niente a che fare con la “Dipendenza dagli Uomini” o la politica femminista o qualunque altra disputa teorica? Josh era semplicemente il miglior amico che avessi mai trovato. E allora perché non mi scriveva? Mi ero sbagliata un’altra volta? Avevo scelto un altro sopraffattore? Forse le lettere erano andate perdute. Ci credetti per uno, due, tre giorni, poi cominciai veramente a chiedermi che cosa fosse successo.

Intanto Britt mi faceva vedere i sorci verdi. Si era installata allo Sherry-Netherland con la sua corte, si dava da fare come una matta, girava per New York a ruota libera, telefonandomi di tanto in tanto per tenermi al corrente del punto in cui erano arrivate le varie trattative e raccontandomi ogni sorta di cose contraddittorie e confuse.

Ormai sembrava chiaro che Dante e Spinoza erano fuori, che lei era “in trattative con uno degli studio più importanti”, che stava “trattando con alcuni registi”, che “mi avrebbe tenuta al corrente degli ultimi sviluppi”. Ormai stava dicendo con molta disinvoltura che aveva intenzione di interpretare lei stessa la parte della protagonista nel film. Anche se non aveva la minima esperienza come attrice, anche se la sua voce sembrava ben decisa a uscirle sempre dal naso, aveva deciso che lei e lei sola poteva essere la vera Candida... e non so come era riuscita a convincere un importante regista a pensarla allo stesso modo.

Incredibile ma vero, intanto il libro diventava sempre più famoso. Era dappertutto. Il mio telefono non smetteva mai di squillare. Le lettere arrivavano a fiumi... e Britt teneva conferenze stampa e rilasciava interviste allo Sherry-Netherland, blaterando del film di cui sarebbe stata la protagonista, cavalcando verso la gloria attaccata alle sottane di Candida, arrivando perfino a dire in un’intervista di essere stata lei “a fare di Isadora Wing quello che era...” La sua chutzpa mi faceva impazzire di rabbia. Britt non aveva mai scritto un libro e non aveva mai fatto un film. Non aveva mai fatto altro che blaterare con quella sua voce nasale e dare ordini alla gente. Tutta la sua fama di produttrice si basava su un film western per il quale era riuscita a farsi dare i soldi da quell’idiota di suo marito (che era l’erede di una agenzia di mediazione). Senza che loro ne avessero la minima colpa, il film era diventato un enorme successo commerciale e, secondo la logica di Hollywood, la gente che sborsa e fa i soldi, assurge alla fama di produttore. Così Britt era diventata un “produttore” in gonnella senza aver mai fatto un film.

Quando fui abbastanza calma da accorgermi che razza di contratto avessi firmato e del fatto che ormai ero legata mani e piedi, mi disperai. Britt non aveva nessun obbligo verso di me. Tutte quelle chiacchiere sul film di buon livello, sul finanziamento privato e il controllo artistico, vennero convenientemente dimenticate non appena ebbe tra le mani il pezzo di carta con la mia firma. Si scoprì che i famosi finanziatori privati non erano mai esistiti, che la Paradigm Pictures era da sempre in combutta con lei, e che Sonny e Danny erano solo due ragazzotti che aveva raccattato per la strada. Erano due mafiosi come lei era un’attrice. E se fossero stati veramente mafiosi probabilmente sarebbero stati più degni di stima.

La mia agente non mi era di nessun aiuto. Era giovane e priva di esperienza e lavorava per un’agenzia mastodontica di cui Britt era la cliente importante, non io. Il dieci per cento sui ricavati delle mie vendite non era nulla in confronto al dieci per cento di un film... qualunque film... e l’ultimo film di Britt aveva incassato milioni di dollari.

“Hai bisogno di un buon avvocato,” disse Rosanna Howard. “La differenza che esiste tra il far soldi e il diventar ricchi è avere un avvocato.”

“Che te ne pare di Gretchen?” chiesi.

Rosanna fece una faccia divertita. “Non si va da un’avvocatessa femminista per un pasticcio di film,” disse. “Quello di cui hai bisogno è il tipo di avvocato che mette paura a gente come quella. La legge si sfrutta a proprio vantaggio mediante l’intimidazione. La maggior parte dei casi non finisce mai in tribunale comunque (e se ci finisce, quello che succede dopo non ha niente a che fare con la giustizia), quindi la questione è la seguente: hai la possibilità di far prendere una bella strizza ai tuoi avversari? Io credo che tu sia stata defraudata e imbrogliata e costretta a firmare qualcosa che 1) non volevi firmare 2) non capivi. Hai bisogno di un avvocato con due palle così. E ne hai bisogno subito.”

Pensai alla casa di Bel Air in cui viveva l’avvocato di Britt, alle Rolls-Royce, ai servizi di vermeil e ai calici di Tiffany... tutta roba ottenuta a saldo di varie parcelle. Se non ci riuscivano le stelle del cinema a pagare i conti dell’avvocato, come potevo riuscirci io?

“Non sono sicura di potermi permettere un avvocato,” dissi a Rosanna.

“Non puoi permetterti di non permettertelo,” disse lei.