Eph aveva saltato il pasto promesso da Gus per scrivere la lettera a Zack in una delle aule vuote in fondo al corridoio in cui si trovava anche Joaquin. In quel momento disprezzava il Padrone più di quanto non avesse mai fatto in quella lunga, orribile ordalia.

Guardò ciò che aveva scritto. Lo lesse cercando di mettersi nei panni del figlio. Non aveva mai considerato la faccenda dal punto di vista di Zachary. Cosa avrebbe pensato?

“Papà mi voleva bene”... sì.

“Papà ha tradito i suoi amici e la sua gente”... sì.

Eph si rese conto, leggendo quelle righe, di quanto Zack si sarebbe sentito in colpa a portare sulle spalle il peso del mondo perduto. Suo padre aveva scelto la schiavitù del genere umano in cambio della libertà di uno solo.

Era davvero un atto d’amore? O era qualcosa d’altro?

Era un inganno. Era la via facile per uscirne. Zack sarebbe vissuto come uno schiavo, sempre ammesso che il Padrone mantenesse la sua parte dell’accordo, e il pianeta sarebbe divenuto un nido di vampiri per l’eternità.

Eph ebbe la sensazione di svegliarsi da un brutto sogno. Come aveva potuto pensare quelle cose? Era come se, lasciando che la voce del Padrone gli entrasse nella testa, avesse accolto anche un frammento di corruzione o di follia. Come se la malefica presenza dello strigoi gli si fosse annidata nella mente e avesse iniziato a produrre metastasi. A quel pensiero ebbe davvero paura per Zack: era terrificante che lui fosse vivo accanto a quel mostro.

Sentì qualcuno avvicinarsi nel corridoio. Chiuse in fretta il diario e lo infilò sotto lo zaino proprio mentre la porta si apriva.

Creem con la sua massa quasi riempiva la soglia. Eph, che si aspettava di vedere il signor Quinlan, rimase sconcertato. Nello stesso tempo però si sentì sollevato: era convinto che il Nato avrebbe capito la ragione della sua angoscia.

«Ehi, doc. Ti cercavo. Da solo, eh?»

«Mi sto rimettendo in sesto la testa.»

«Volevo vedere la dottoressa Martinez, ma è occupata.»

«Non so dove sia.»

«Da qualche parte, con il tipo grande e grosso, il disinfestatore.» Creem entrò e chiuse la porta; allungando il braccio, la manica gli si arrotolò fino al gomito lasciando in bella vista una medicazione quadrata. «Mi sono tagliato, devi dare un’occhiata. Ho visto il ragazzo del Mex, Joaquin. È fottuto in pieno. Devi controllarmi la ferita.»

«Ah, certo.» Eph cercò di schiarirsi le idee. «Vediamo.»

Creem si avvicinò. Lui prese una torcia tascabile dallo zaino e la puntò sul grosso braccio del ciccione.

Sotto il raggio luminoso il colore della pelle pareva buono.

«Tira via il cerotto» disse Eph.

Creem ubbidì, con le dita grosse come salsicce adorne del tirapugni d’argento. Il cerotto strappò ciuffi di ispidi peli neri, ma il gigante non batté ciglio.

Eph illuminò la carne. Nessun taglio, nessuna abrasione. «Non vedo niente.»

«Perché non c’è niente da vedere» replicò Creem.

Ritrasse il braccio e rimase lì in piedi a fissare Eph. Aspettava che capisse.

Alla fine parlò. «Il Padrone ha detto che dovevo incontrarti in privato.»

Eph quasi saltò indietro. La torcia gli cadde di mano e gli rotolò ai piedi. La raccolse e armeggiò per spegnerla.

Il teppista sorrise, tutto denti d’argento.

«Sei tu?» chiese Eph.

«E tu?» fece Creem. «Non aveva senso.» Diede un’occhiata alla porta chiusa prima di continuare. «Senti, amico. Devi essere più presente, capito? Devi parlare di più, fare la tua parte. Non stai lavorando sodo, non abbastanza.»

Eph quasi non lo sentì. «Quanto...»

«Il Padrone è venuto da me non tanto tempo fa. Ha falciato il resto dei miei, cazzo. Ma posso rispettare la sua azione. Questo è il suo territorio adesso, sai?» Un argenteo schiocco di dita. «Però ha risparmiato me. Il Padrone aveva altri piani. Mi ha fatto un’offerta, la stessa che io ho fatto a voi.»

«Consegnarci a lui... per Manhattan?»

«Be’, per un pezzo. Un po’ di mercato nero, qualche commercio di sesso, gioco d’azzardo. Ha detto che aiuterà a distrarre la gente e a tenerla in riga.»

«Perciò quel... quel detonatore è tutta una menzogna.»

«No, è vero. In teoria dovevo infiltrarmi tra voi. È stato Gus a venire da me.»

«E il libro?»

«Quel libro d’argento di cui parlottate di continuo? Il Padrone non mi ha detto niente. È quello che gli darai?»

Eph doveva stare al gioco, perciò annuì.

«Sei l’ultimo al quale avrei pensato. Ma loro... quegli altri presto rimpiangeranno di non avere fatto un accordo prima di noi.»

Di nuovo il sorriso tutto argento. Eph si sentì nauseato dalla sua espressione metallica. «Credi davvero che rispetterà il patto che avete stipulato?»

Creem fece una smorfia. «Perché non dovrebbe? Ti aspetti che lo faccia con te?»

«Non lo so.»

«Pensi che ci fregherà?» Cominciava ad arrabbiarsi. «Perché? Tu cosa ne ricavi da questa storia? Meglio che non sia la città.»

«Mio figlio.»

«E poi?»

«Nient’altro.»

«Tutto qui? Tuo figlio. In cambio di quel cazzo di libro sacro e dei tuoi amici.»

«Lui è tutto ciò che voglio.»

Creem arretrò di un passo, come impressionato. Ma Eph capì che lo riteneva uno stupido. «Sai» riprese «quando ho saputo di te mi è venuto da pensare. Perché due piani? Cosa ha in testa il Padrone? Manterrà tutti e due gli accordi?»

«Probabilmente nessuno dei due» replicò Eph.

A Creem quelle parole non piacquero. «Comunque ho pensato che uno dei due è il piano di riserva. Perché sei stato il primo a fare l’accordo. Allora che bisogno c’era di me? Io sono fottuto e tu ti prendi la gloria.»

«La gloria di tradire i miei amici.»

Creem annuì. Eph avrebbe dovuto fare più attenzione alla sua reazione, ma in quel momento era troppo agitato. Troppo combattuto. Si vedeva riflesso in quell’insensibile mercenario.

«Credo che il Padrone stesse tentando di fottermi. Sono convinto che un accordo di riserva non serva a niente. Per questo ho detto agli altri dove si trova l’armeria. Perché non ci arriveranno mai. Perché Creem farà la sua mossa adesso.»

Eph allora si rese conto di quanto il teppista gli fosse vicino. Guardò le sue mani: erano vuote, ma strette a pugno. «Aspetta» disse intuendo ciò che stava per fare. «Un momento. Ascoltami, prima. Io... io non lo farò. È stata follia anche solo pensarlo. Non tradirò quelle persone... e neanche tu dovresti farlo. Sai dove trovare un detonatore. Noi lo prendiamo, lo colleghiamo alla bomba di Fet e cerchiamo il Sito Nero del Padrone. Così otteniamo tutti ciò che vogliamo. Io mi riprendo mio figlio. Tu avrai i tuoi immobili. E inchiodiamo quel bastardo una volta per tutte.»

Creem annuì, come se stesse soppesando l’offerta. «Divertente. È proprio ciò che direi a parti invertite se tu fossi sul punto di tradirmi. Adiós, doc.»

Lo afferrò per il colletto senza dargli il tempo di reagire. Il grosso pugno di Creem e le nocche d’argento saettarono contro la testa di Eph. Sulle prime lui non sentì il colpo; vide solo la stanza girare e le sedie che si sparpagliavano sotto il peso del suo corpo in caduta. Il cranio urtò il pavimento e tutto divenne dapprima bianco, poi molto, molto buio.

La visione

Come le altre volte, dal fuoco uscivano le figure di luce. Eph rimaneva immobile, imbarazzato, mentre si avvicinavano. Veniva colpito con forza al plesso solare dall’energia di una di loro. Opponeva resistenza per quella che gli pareva un’eternità. La seconda figura si univa alla lotta, ma Ephraim Goodweather non si arrendeva. Combatteva con coraggio, con disperazione, finché nel bagliore vedeva di nuovo la faccia di Zack.

“Papà...” diceva suo figlio.

Il punto critico, di nuovo.

Ma stavolta Eph non si svegliò. L’immagine lasciò il posto a un nuovo paesaggio d’erba verde sotto un caldo sole giallo, increspato da una brezza discreta.

Un campo. Parte di una fattoria.

Cielo sereno, azzurro. Nubi in rapida corsa. Alberi rigogliosi.

Eph alzava la mano per schermarsi gli occhi dalla luce del sole e vedere meglio.

Una semplice fattoria. Piccola, di mattoni d’un rosso luminoso, con il tetto di scandole nere. La casa era a una cinquantina di metri, ma lui la raggiungeva in soli tre passi.

Volute di fumo uscivano dalla canna del camino in pennacchi sempre uguali. Poi la brezza cambiava e il fumo e i gas di scarico formavano lettere dell’alfabeto, come tracciate in bella grafia.

... E L A Z R A E L A Z R A E L A Z R A E L A Z R A E L A Z R A...

Le lettere di fumo si dissipavano, diventavano cenere leggera che si posava lentamente sull’erba. Eph si piegava in due, colpiva con le dita i fili d’erba e scopriva di essersi ferito i polpastrelli: dai tagli colava sangue rosso.

C’era una finestra solitaria a quattro pannelli nella parete. Eph vi accostava la faccia ed espirava sul vetro: il suo alito rimuoveva un po’ di condensa permettendogli di vedere dall’altra parte.

Una donna dai capelli di un biondo lucente sedeva a un vecchio tavolo in cucina. Stava scrivendo in un grosso libro, con una penna ricavata da una bella piuma d’argento scintillante più grossa del normale che tuffava in un calamaio pieno di sangue rosso.

Kelly girava la testa, non del tutto, ma quanto bastava perché Eph si rendesse conto che aveva percepito la sua presenza. Il vetro si annebbiava di nuovo e quando lui soffiava per schiarirlo vedeva che Kelly era sparita.

Allora girava intorno alla fattoria in cerca di un’altra finestra o di una porta. Ma la casa era tutta di mattoni e la sua impresa pareva disperata. I mattoni si stavano scurendo e mentre Eph si allontanava diventavano neri. L’edificio si era trasformato in un castello. La cenere aveva annerito l’erba e reso più affilati gli steli, che gli tagliavano i piedi scalzi a ogni passo.

Un’ombra passava sul sole. Era alata, come un grande uccello da preda; s’inclinava brevemente prima di scivolare via e svanire nell’erba sempre più scura.

In cima al castello, un fumaiolo grande come una fattoria sbuffava cenere nera nel cielo, cambiava in notte minacciosa la bella giornata. Kelly compariva sui bastioni e Eph le gridava un richiamo.

“Non può sentirti” diceva Fet.

Portava la tuta da disinfestatore e fumava un sigaro avana, ma la sua era una testa di ratto, con occhi piccoli e rossi.

Eph guardava di nuovo il castello e i capelli biondi di Kelly volavano via come fumo. Adesso era la calva Nora a scomparire nei locali superiori del castello.

“Dobbiamo dividerci” diceva Fet togliendosi di bocca il sigaro, con mano umana, e soffiando fumo grigio argento che si arricciava al di là dei suoi sottili baffi neri. “Non abbiamo molto tempo.”

Fet il ratto correva al castello e si tuffava a capofitto in una crepa delle fondamenta, dimenando il grosso corpo fra due pietre nere.

In alto, adesso c’era un uomo nella torretta, con una camicia da lavoro con il logo SEARS. Era Matt, il convivente di Kelly, il primo sostituto di Eph come figura paterna e il primo vampiro ucciso da lui. Mentre Eph lo guardava, Matt aveva una crisi e si artigliava la gola. Preso da convulsioni, si piegava in due nascondendosi la faccia e contorcendosi... Quando allontanava le mani, le dita centrali si allungavano in spessi artigli e la creatura si raddrizzava, ora alta più di quindici centimetri. Il Padrone.

Il cielo nero allora si apriva, la pioggia si riversava a catinelle, ma le gocce, quando toccavano terra, invece del normale tamburellio producevano un rumore che risuonava come “papà”.

Eph arretrava barcollando, si girava, correva via. Cercava di distanziare la pioggia fra l’erba tagliente, ma le gocce lo bersagliavano a ogni passo, gli gridavano nelle orecchie: “Papà! Papà! Papà!”.

Finché ogni cosa si schiariva. La pioggia cessava, il cielo tornava a essere un guscio cremisi. L’erba era sparita e il terreno lurido rifletteva il rosso del cielo proprio come fa l’oceano.

In lontananza una figura si avvicinava. Non sembrava molto distante, però a mano a mano che avanzava Eph riusciva a giudicarne le dimensioni. Pareva un maschio umano, alto almeno tre volte lui. Si fermava a qualche passo, anche se a causa della sua imponenza dava l’impressione di essere vicinissimo.

Era davvero un gigante, ma il corpo appariva proporzionato. Un ardente nimbo di luce lo rivestiva.

Eph cercava di parlare. Non aveva paura del nuovo venuto. Si sentiva soltanto imbarazzato.

Qualcosa frusciava sulla schiena del gigante. A un tratto due ampie ali d’argento si aprivano: il loro diametro era perfino maggiore dell’altezza della creatura. Lo spostamento d’aria spingeva Eph indietro di un passo. Con le braccia lungo i fianchi, l’angelo (altro non poteva essere) batteva le ali ancora due volte, sferzando l’aria e prendendo il volo.

Si sollevava in alto, sfruttando le grandi ali, gli arti rilassati mentre puntava verso Eph, con grazia e facilità sovrannaturali. Toccava terra di fronte a lui, facendolo apparire tre volte più piccolo. Alcune penne d’argento scivolavano via dal piumaggio e cadevano al suolo conficcandosi nella terra rossa. Una si librava verso Eph e lui la afferrava. Il calamo diventava un’elsa d’avorio e la piuma una spada d’argento.

L’imponente arcangelo si chinava su di lui. La sua faccia era sempre oscurata dal nimbo di luce, che pareva stranamente fredda, quasi nebbiosa.

L’arcangelo fissava lo sguardo su qualcosa alle spalle di Eph. Con riluttanza lui si girava.

A un piccolo tavolo da pranzo posto sull’orlo di un burrone sedeva Eldritch Palmer, un tempo capo della Stoneheart, nel consueto completo scuro con una svastica rossa nella fascia intorno alla manica destra; usava coltello e forchetta per mangiare un ratto morto su un piatto di porcellana. Da destra si avvicinava una forma confusa: un grosso lupo bianco correva verso il tavolo. Palmer non alzava gli occhi. La belva gli balzava alla gola, lo sbatteva giù dalla sedia, gli squarciava il collo.

Poi si fermava, alzava gli occhi su Eph e correva verso di lui.

Eph non scappava né alzava la spada. Il lupo rallentava avvicinandosi, raschiando il terreno con le zampe. Il sangue di Palmer gli macchiava la candida pelliccia intorno alla bocca.

Eph riconosceva gli occhi del lupo. Erano di Abraham Setrakian, e lo stesso la voce.

AhsArtdagArt-wah.

Eph scuoteva la testa, senza capire; allora una grossa mano lo afferrava. Lui sentiva il battito delle ali dell’arcangelo che lo sollevava dalla terra rossa e vedeva il suolo in basso contrarsi e cambiare. Si avvicinavano a un grande corso d’acqua, poi viravano a destra sorvolando un fitto arcipelago. L’arcangelo si abbassava ancora e puntava dritto su una delle mille isole.

Atterravano in una terra desolata a forma di conca, piena di ferro contorto e di acciaio fumante. Vestiti strappati e carte bruciate erano sparsi fra le rovine carbonizzate; la piccola isola era l’epicentro di una catastrofe. Eph si girava verso l’arcangelo, ma quello era scomparso. Al suo posto c’era una porta. Una semplice porta nell’intelaiatura. Vi era appeso un cartello, scritto in pennarello nero, illustrato con lapidi, scheletri e croci tracciati da una mano giovane. Diceva:

È POSSIBILE CHE NON SOPRAVVIVIATE OLTRE QUESTO PUNTO.

Eph conosceva quella porta. E quella scrittura. Allungava la mano verso la maniglia, apriva la porta e la varcava.

Il letto di Zack. Sopra c’era il diario di Eph, ma al posto della copertina sbrindellata aveva una rilegatura d’argento.

Eph si sedeva sul letto avvertendo la sensazione familiare del materasso che cedeva sotto il suo peso, il rassicurante scricchiolio. Apriva il diario e si accorgeva che le pagine di pergamena erano quelle dell’Occido lumen, scritte a mano e miniate con illustrazioni.

Ancora più straordinario era il fatto che Eph poteva leggere e capire le parole in latino. Percepiva la sottile filigrana che rivelava un secondo strato di testo sotto il primo.

Lo capiva. In quel momento capiva tutto.

AhsArtdagArt-wah.

Come evocato da quella parola, il Padrone varcava la porta priva di pareti. Tirava indietro il cappuccio, metteva in mostra la faccia e le sue vesti svanivano. La luce del sole gli bruciava la pelle che diventava friabile e nera. Vermi si contorcevano sotto la carne che gli copriva la faccia.

Il Padrone voleva il libro. Eph si alzava e la piuma nella sua mano si tramutava di nuovo in una fine spada d’argento. Ma invece di attaccare, lui rovesciava la presa sull’elsa e teneva l’arma puntata in basso, seguendo le istruzioni del Lumen.

Mentre il Padrone si avventava su di lui, Eph conficcava la spada nel terreno nero.

L’onda d’urto iniziale si propagava sulla terra in un’increspatura acquosa. L’eruzione che seguiva era di una potenza divina, una palla di fuoco e di luce accecante che cancellava il Padrone e ogni cosa intorno a lui, lasciando solo Eph a fissarsi le mani che avevano provocato tutto. Mani giovani, non le sue.

Eph si toccava il viso. Non era più Eph.

Era Zack.