Erano ventidue anni che Gōtaro Chiba mentiva alla figlia.
Come ha scritto Fëdor Dostoevskij: «La cosa più difficile nella vita è vivere senza mentire».
La gente mente per le ragioni più disparate. Certe bugie si dicono per presentarsi sotto una luce migliore, più interessante, oppure per ingannare gli altri. Le bugie possono far male, ma possono anche salvare la pelle. Qualunque sia il motivo, di solito alla fine ci si pente sempre di aver detto una bugia.
Ecco, questa era la situazione di Gōtaro. La bugia che aveva detto era diventata una vera e propria ossessione. Borbottando tra sé e sé frasi tipo: «Non avrei mai voluto mentirle», non si decideva a entrare nella caffetteria dove si poteva tornare nel passato.
La caffetteria era a pochi minuti a piedi dalla stazione di Jimbōchō, nel centro di Tokyo. Situata al piano seminterrato in una stradina laterale di un quartiere di uffici, si notava solo per una piccola insegna con il nome.
In fondo alle scale, Gōtaro si ritrovò di fronte a una porta decorata con incisioni. Senza smettere di borbottare, scosse la testa, si girò e fece per salire di nuovo i gradini. Ma poi si fermò di botto con lo sguardo pensieroso. Andò su e giù un altro po’, incerto sul da farsi.
«Perché intanto non entra, e poi ci pensa su?» disse una voce sbucata dal nulla.
Guardandosi attorno stupito, Gōtaro notò che in cima alle scale si era materializzata una donna piccolina che lo guardava. Sopra la camicetta bianca, indossava un gilet nero e un grembiule con la pettorina. Evidentemente doveva essere la cameriera del locale.
«Ah, sì, be’, certo...»
Mentre Gōtaro si ingarbugliava nelle parole, la donna scese le scale d’un balzo e aprì la porta.
Din-don
Il suono di un campanello aleggiò nell’aria mentre entrava nella caffetteria. Non era stato certo preso per un braccio, ma Gōtaro provò l’impulso di scendere di nuovo i gradini. Si sentiva invaso da uno strano senso di calma, come se il contenuto del suo cuore fosse stato messo a nudo.
Gōtaro non si decideva a entrare perché non era sicuro che la caffetteria dove si poteva tornare nel passato fosse proprio quella. Era arrivato fin lì dando retta a quella storia, ma se la voce che gli aveva riportato un amico era una balla, di lì a poco si sarebbe sentito molto in imbarazzo.
Se invece era possibile tornare nel passato, aveva sentito che c’erano parecchie regole irritanti da seguire. Una di queste era che qualunque cosa si faccia quando si è nel passato, non si può cambiare il presente.
La prima volta che aveva sentito quella regola, Gōtaro non aveva potuto fare a meno di chiedersi: “Se non si può cambiare niente, che senso ha tornare nel passato?”.
Eppure adesso Gōtaro era di fronte a quella porta e pensava: “Voglio tornare nel passato comunque”.
Quella donna gli aveva appena letto nel pensiero? Di sicuro la cosa più comune da dire in una circostanza simile sarebbe stata: “Desidera un caffè? Prego, si senta il benvenuto”.
Invece aveva detto: «Perché intanto non entra, e poi ci pensa su?».
Si poteva intendere come: Sì, è vero, puoi tornare nel passato, ma perché prima non entri e poi decidi cosa fare?
Il mistero più grande per Gōtaro restava capire come avesse fatto la donna a intuire che era venuto fin lì per tornare nel passato. Comunque adesso provava un barlume di speranza. Il tono tranquillo di quella donna l’aveva convinto a prendere una decisione. Allungò la mano, girò la maniglia e aprì la porta della caffetteria.
Din-don
Gōtaro entrò nella caffetteria, dove forse sarebbe potuto tornare indietro nel tempo.
*
Al liceo e all’università il cinquantunenne Gōtaro Chiba aveva sempre giocato a rugby, tant’è che era ancora di corporatura massiccia e indossava la taglia XXL.
Viveva con la figlia Haruka, che avrebbe compiuto a breve ventitré anni. L’aveva cresciuta da solo, ed era stata dura. Le aveva sempre detto che la mamma era morta di malattia quando lei era piccola. Con l’aiuto di Haruka, Gōtaro gestiva la tavola calda Kamiya, un modesto localino dove si servivano piatti di riso, zuppa e contorno nella città di Hachiōji, nella Grande Area di Tokyo.
Oltrepassata la grande porta di legno alta due metri, doveva ancora percorrere un breve corridoietto. Subito di fronte c’era la toilette, mentre sulla parete di destra, al centro, si apriva l’ingresso vero e proprio della caffetteria. Vedendolo arrivare, una donna seduta al bancone urlò subito a qualcuno nel retro: «Kazu... un cliente!». Seduto accanto alla donna c’era un bambino che sembrava avere otto o nove anni. Al tavolo in fondo sedeva tranquilla a leggere un libro una donna con un abito bianco a maniche corte e la carnagione chiarissima; sembrava profondamente distaccata dal mondo attorno a lei.
«La cameriera è appena tornata dalla spesa, quindi che ne dice di accomodarsi nel frattempo? Arriva subito, vedrà.»
Dando evidentemente poca importanza alle formule di cortesia con gli estranei, la donna gli parlò in tono disinvolto, quasi si conoscessero da sempre. Doveva essere una cliente abituale. Anziché rispondere, Gōtaro fece un semplice cenno di ringraziamento. Lo sguardo della donna sembrava invitarlo a chiederle qualsiasi cosa sulla caffetteria, ma Gōtaro preferì far finta di non notarlo e si accomodò al tavolino più vicino all’ingresso. Si diede un’occhiata attorno. Orologi molto antichi coprivano le pareti fino al soffitto. Una pala che girava lenta era appesa all’incrocio fra due travi di legno. Le pareti intonacate erano di un tenue color beige, simile al kinako (la farina di soia tostata), e ovunque si percepiva una patina sognante di antico: il posto doveva avere un bel po’ di anni. Senza finestre e nel seminterrato, il locale era illuminato solo da sei lampade con il paralume appese al soffitto, e dominava la penombra; anche la luce aveva una sfumatura color seppia.
«Buongiorno, benvenuto!»
La donna che gli aveva parlato sulle scale sbucò dalla stanza sul retro e gli mise davanti un bicchiere pieno d’acqua.
Si chiamava Kazu Tokita. Teneva i capelli legati e sulla camicia bianca con il papillon indossava un gilet nero con il grembiule: era la cameriera della caffetteria. Aveva gli occhi a mandorla e i lineamenti graziosi, ma non tanto da rimanere impressi. Se chiudevi gli occhi dopo averla conosciuta e provavi a ricordare il suo aspetto, non ti veniva in mente niente. Era una di quelle persone che non facevano fatica a mescolarsi nella folla. Doveva compiere ventinove anni.
«Ah... uhm... È qui che... ecco, sì...»
Gōtaro non sapeva come affrontare l’argomento dei viaggi nel passato. Kazu osservò con calma l’agitazione di Gōtaro, poi si girò verso la cucina e dandogli le spalle gli chiese: «In che momento del passato vuole tornare?».
Dalla cucina venne il gorgoglio del caffè nel sifone.
“Sì, questa cameriera deve proprio saper leggere nel pensiero...”
Il leggero aroma di caffè che si diffuse nel locale lo fece ripensare a quel giorno.
*
Il posto dove Gōtaro e Shuichi Kamiya si erano rivisti per la prima volta dopo sette anni era proprio di fronte a quella caffetteria. Ai tempi dell’università, avevano giocato nella stessa squadra di rugby.
All’epoca Gōtaro era senza casa e senza soldi perché gli avevano requisito tutti i beni in quanto cointestatario di un titolo di debito per la società di un amico che nel frattempo era fallita. Aveva gli abiti sporchi e puzzava.
A ogni modo, anziché manifestare disgusto per il suo aspetto, Shuichi si era mostrato sinceramente contento di averlo incontrato per caso dopo tutto quel tempo e l’aveva invitato a bere un caffè.
«Vieni a lavorare nella mia tavola calda», gli aveva proposto dopo aver ascoltato il racconto delle sue disgrazie.
Dopo la laurea, Shuichi era stato ingaggiato in una squadra di rugby di Osaka, ma non aveva fatto in tempo ad arrivare in fondo al campionato che un infortunio gli aveva stroncato la carriera sul più bello. A quel punto, era stato assunto in un’azienda che gestiva una catena di ristoranti. Shuichi, da inguaribile ottimista qual era, aveva visto quella battuta d’arresto come un’opportunità, e lavorando il doppio o il triplo degli altri aveva fatto carriera ed era diventato un area manager responsabile di sette locali. Dopo il matrimonio aveva deciso di mettersi in proprio e aveva aperto con la moglie un piccolo ristorante. A quanto aveva detto a Gōtaro, il locale era sempre pieno e serviva una mano in più.
«Se accetti la mia offerta, fai un favore anche a me.»
Senza più un soldo e senza speranze nella vita, Gōtaro era scoppiato in lacrime di gratitudine.
«Va bene, ci sto!» aveva annuito con entusiasmo.
Shuichi si era alzato di scatto facendo scricchiolare la sedia.
«Oh, e aspetta di vedere mia figlia!» aveva aggiunto con un gran sorriso.
Gōtaro non era ancora sposato ed era rimasto sorpreso all’idea che Shuichi avesse già una figlia.
«Una figlia?»
«Esatto! È appena nata, ed è così... carina!» aveva risposto Shuichi sgranando gli occhi.
Shuichi era parso molto soddisfatto della risposta di Gōtaro. Aveva afferrato il conto e si era diretto alla cassa.
«Scusi, vorrei pagare.»
Alla cassa c’era un ragazzo che poteva essere un liceale. Alto quasi due metri, aveva occhi sottili, distanti tra loro.
«Sono settecentosessanta yen.»
«Tenga, prego.»
Gōtaro e Shuichi erano due omoni più robusti della media, eppure entrambi avevano sollevato la testa per guardare in faccia il giovane, si erano scambiati un’occhiata ed erano scoppiati a ridere, forse perché avevano pensato la stessa cosa: “Questo ragazzo ha un fisico da rugbista”.
«Ecco a lei il resto.»
Shuichi aveva preso il resto e si era avviato all’uscita.
Prima di perdere tutto, Gōtaro aveva ereditato la ditta del padre, che rendeva oltre cento milioni di yen all’anno. Gōtaro era un tipo a posto, ma i soldi cambiano la gente. Lui si era dato alla bella vita e aveva cominciato a sperperarli. C’era stato un momento in cui aveva pensato che con i soldi si potesse fare tutto. Ma la ditta del suo amico, per la quale aveva firmato come garante, era fallita improvvisamente, e per colpa di questo enorme debito anche la sua società era andata a rotoli. A quel punto, da un giorno all’altro la gente aveva cominciato a trattarlo da reietto. Era convinto di avere degli amici, e invece l’avevano abbandonato tutti, qualcuno sbattendoglielo addirittura in faccia: «A cosa servi senza soldi?».
Invece Shuichi era diverso. Anche se aveva perso tutto, per lui Gōtaro restava importante. Le persone che decidono di aiutare qualcuno in difficoltà, senza sperare di ottenere nulla in cambio, sono davvero una rarità. Ma Shuichi Kamiya era una di queste persone. Seguendolo con lo sguardo mentre lasciava il locale, Gōtaro aveva giurato a sé stesso che gli avrebbe ricambiato il favore. Poi era uscito a sua volta.
Din-don
«E questo succedeva ventidue anni fa.»
Gōtaro Chiba prese il bicchiere d’acqua che aveva di fronte. Aveva la gola riarsa ed emise un gran sospiro. Dimostrava meno dei suoi cinquantun anni, ma cominciavano a spuntargli i primi capelli grigi.
«E così mi sono messo a lavorare per Shuichi. Ho lavorato a testa bassa cercando di imparare il mestiere il più in fretta possibile, ma un anno dopo c’è stato un incidente d’auto e Shuichi e la moglie...»
Erano passati più di vent’anni, ma non era ancora riuscito a superare lo shock. Gli si arrossarono gli occhi e cominciò a incespicare nelle parole.
Sluurrrp!
Il bambino al bancone succhiò rumorosamente con la cannuccia quanto restava del succo d’arancia.
«E poi cos’è successo?» chiese in tono spiccio Kazu, senza smettere di sbrigare le sue faccende. Il suo tono non cambiava mai, non importa quanto fosse grave la conversazione. Era il suo atteggiamento tipico, forse il suo modo di tenere le distanze dagli altri.
«È sopravvissuta solo la figlia di Shuichi, e così ho deciso di prendermene cura.»
Gōtaro parlava guardando a terra, quasi mormorando. Poi si alzò lentamente.
«La prego, mi riporti a quel giorno di ventidue anni fa.»
Fece un inchino lungo e profondo, portando la schiena quasi a novanta gradi e la testa ancora più in basso.
Quello era il caffè diventato protagonista di una leggenda metropolitana una decina d’anni prima. Di solito le leggende metropolitane sono inventate di sana pianta, e invece si diceva che in quel caffè si potesse davvero tornare nel passato.
Ancora oggi se ne raccontano tante su quel posto, come la storia della donna che era tornata indietro per ritrovare il fidanzato andato lontano, della ragazza che voleva rivedere la sorella morta in un incidente d’auto e della moglie che aveva viaggiato nel tempo per parlare con il marito che aveva perso la memoria.
Ma per tornare nel passato bisognava seguire delle regole molto irritanti.
Prima regola: Le uniche persone che si possono incontrare nel passato sono quelle entrate nella caffetteria. Se la persona che si vuole incontrare non ha mai messo piede nel locale, si può tornare nel passato ma non la si può incontrare. In altre parole, se uno venisse da lontano apposta per viaggiare nel tempo, sarebbe quasi di sicuro un viaggio sprecato.
Seconda regola: Qualunque cosa si faccia quando si è nel passato, non si può cambiare il presente. Chi viene nel locale spinto dalla leggenda metropolitana di solito non regge alla delusione e se ne va senza neanche provarci. Questo succede perché normalmente si vuole viaggiare nel tempo per rimediare a errori commessi nel passato. Sono in pochi a non rinunciare quando vengono a sapere che non potranno mai cambiare il presente.
Terza regola: C’è solo una sedia che permette di tornare nel passato. Ma è occupata da un’altra cliente. L’unico momento in cui ci si può sedere su quella sedia è quando la cliente si alza per andare in bagno. La donna va in bagno una volta al giorno, senza eccezione, ma nessuno sa esattamente quando.
Quarta regola: Quando si torna nel passato bisogna restare su quella sedia e non ci si può muovere di lì. Se ci si alza, si viene immediatamente rispediti nel presente. Questo significa che quando si è nel passato non si può uscire in nessun modo dalla caffetteria.
Quinta regola: Il tempo che si può trascorrere nel passato comincia quando il caffè viene versato nella tazza e dura finché il caffè è caldo. In più, bisogna che a versare il caffè sia necessariamente Kazu Tokita, al momento l’unica che può far tornare indietro nel tempo.
Nonostante questa sfilza di regole irritanti, ci sono clienti che sentono parlare della leggenda urbana e si presentano nella caffetteria per viaggiare nel tempo.
Gōtaro era uno di questi.
*
«Supponiamo che lei riesca a tornare nel passato: cosa vorrebbe fare?» gli chiese la donna che lo aveva invitato ad accomodarsi appena entrato nel locale. Si chiamava Kyoko Kijima, moglie e madre a tempo pieno, nonché cliente abituale del caffè. Era solo una coincidenza che fosse lì in quel momento, ma fissava Gōtaro con grande curiosità: forse era la prima volta che conosceva qualcuno intenzionato a tornare nel passato.
«Mi scusi se glielo chiedo, ma quanti anni ha?»
«Cinquantuno.»
Gōtaro aveva preso quella domanda per una critica, come a dire: Ma perché tu, all’età che hai, ci tieni tanto a tornare indietro nel tempo? Sedeva curvo al suo tavolino fissandosi le mani intrecciate.
«Mi scusi se mi permetto, ma non le pare che sarebbe un po’ strano? Preso alla sprovvista, Shuichi, o come si chiama il suo amico, si ritroverebbe di fronte all’improvviso una versione di lei invecchiata di ben ventidue anni...»
Gōtaro non sollevò la testa, e Kyoko proseguì.
«Non crede che sarebbe bizzarro?»
La donna guardò Kazu in cerca di approvazione.
«Sì, può darsi», rispose Kazu, ma in un tono che non indicava pieno accordo con le parole di Kyoko.
«Ehi, mamma, guarda che il caffè diventa freddo!» borbottò il bambino, che nel frattempo aveva finito il succo d’arancia e cominciava a spazientirsi. Si chiamava Yōsuke Kijima e in primavera sarebbe andato in quarta elementare. Aveva i capelli che scendevano fino alle spalle, la faccia abbronzata e una maglietta con la scritta MEITOKU FC e il numero 9 sulla schiena. Evidentemente giocava a calcio.
Yōsuke si riferiva al caffè da asporto nel sacchetto di carta sul bancone accanto a Kyoko.
«Oh, non importa, tanto la nonna odia le bevande bollenti», ribatté Kyoko prima di sussurrargli all’orecchio: «Aspetta un attimo e poi andiamo, okay?».
Poi guardò Gōtaro, in attesa di una reazione.
Gōtaro adesso si era raddrizzato sulla sedia, l’aria più composta.
«Sì, in effetti mi sa che lo spaventerei un po’», ammise.
«Ah-ha!» esclamò Kyoko, con la faccia di chi la sa lunga. Mentre li ascoltava parlare, Kazu aveva dato a Yōsuke un altro bicchiere di succo d’arancia, che lui aveva accettato senza aprire bocca, con un rapido cenno di ringraziamento.
«Se è vero che si può tornare indietro nel tempo, c’è una cosa che voglio dire a Shuichi con tutto il cuore.»
A formulare la domanda era stata Kyoko, ma Gōtaro rispose guardando Kazu. Le sue parole, però, non ebbero effetto sull’espressione di quest’ultima.
Con la sua solita aria indifferente, uscì da dietro il bancone e si piantò di fronte a Gōtaro.
Ogni tanto si presentava qualcuno che aveva sentito la leggenda metropolitana dei viaggi nel tempo, e Kazu rispondeva invariabilmente nello stesso modo.
«Conosce le regole?» gli chiese in tono brusco. In effetti, non tutti i clienti ne erano al corrente.
«Più o meno...» rispose lui, esitante.
«Più o meno?» esclamò Kyoko. Delle persone presenti nel caffè in quel momento, era l’unica a essere così eccitata. Kazu guardò Kyoko senza commentare e poi tornò a fissare Gōtaro. “Risponda alla domanda.”
Gōtaro si strinse nelle spalle come a scusarsi.
«Ti siedi su una sedia, ti fanno il caffè e torni nel passato... non ho sentito altro», rispose un po’ a disagio. Il nervosismo doveva avergli asciugato la gola, perché si affrettò a prendere il bicchiere d’acqua che aveva di fronte.
«È un po’ semplicistico... Da chi l’ha sentito?» gli chiese Kyoko.
«Da Shuichi.»
«Se l’ha sentito da Shuichi... significa che l’ha sentito ventidue anni fa, giusto?»
«Sì, la prima volta che siamo venuti in questo caffè. L’ho sentito da Shuichi, e lui doveva aver sentito delle voci in giro.»
«Capisco...»
«Perciò, anche se dovesse comparirgli di fronte una versione molto più anziana di me, a parte lo spavento credo che non dovrebbero esserci troppi problemi per Shuichi», disse Gōtaro, rispondendo di nuovo a una domanda di Kyoko.
«Cosa ne pensi, Kazu?»
Kyoko parlava come se la decisione di tornare nel passato dipendesse da loro, ma Kazu non fece alcun commento. Anzi, parlò in tono freddo e severo.
«Lo sa che anche se torna nel passato il presente non può cambiare, vero?»
Quello che intendeva era: Lo sa che non può impedire che il suo amico muoia?
Erano sempre tanti i clienti che entravano nel locale con il desiderio di tornare nel passato per evitare che qualcuno morisse. E ogni volta Kazu doveva spiegare quella regola.
Non è che Kazu fosse insensibile al dolore che la gente provava per la perdita di una persona cara, intendiamoci. Il punto era che quella regola non si poteva aggirare, a prescindere dalle proprie ragioni.
Gōtaro non mostrò segni di nervosismo dopo aver sentito le parole di Kazu.
«Sì, ne sono consapevole», rispose con voce tranquilla, quasi dolce.
Din-don
Il campanello della porta suonò. A entrare nel locale stavolta fu una bimba. Quando Kazu la vide, anziché dire il solito Buongiorno, benvenuta, esclamò: «Bentornata a casa!».
La bimba si chiamava Miki Tokita ed era la figlia del proprietario, Nagare Tokita. Teneva sulle spalle con aria fiera uno zainetto rosso brillante.
«Moi è tornata, miei cari!» annunciò Miki con una voce squillante che rimbombò tra le pareti del caffè.
«Ciao, Miki, tesoro! Dove hai preso quel bellissimo randoseru?» chiese Kyoko.
«L’ha comprato lei per moi!» rispose Miki con un sorriso, indicando Kazu.
«Wow, è davvero favoloso!» si complimentò Kyoko.
«Ma la cerimonia d’inizio anno non è domani?» chiese con un filo di voce.
Non intendeva certo criticare Miki, e neppure prenderla in giro. Anzi, l’aveva sinceramente fatta sorridere che Miki fosse così entusiasta di aver ricevuto un randoseru nuovo da portarselo sulle spalle per tutto il quartiere.
«Sì, è domani», rispose Kazu, anche lei con un accenno di sorriso agli angoli della bocca.
«Come sta madame Kinuyo? Sta bene?» chiese Miki, continuando a parlare a voce molto alta.
«La signora Kinuyo sta bene! Oggi siamo tornati qui per prenderle un altro caffè e un sandwich preparati dal tuo papà», rispose Kyoko mostrandole il sacchetto di carta che aveva accanto. Seduto sullo sgabello di fianco, Yōsuke non si girò verso Miki e continuò a succhiare lentamente il suo secondo bicchiere di succo d’arancia.
«Ma la signora Kinuyo non si è ancora stufata di mangiare i sandwich di papà? Mangia lo stesso tutti i giorni.»
«La signora Kinuyo dice che adora i sandwich e il caffè del tuo papà.»
«Non capisco perché. I sandwich di papà non sono poi così buoni», commentò Miki, sempre a voce alta.
Sentendo la conversazione, un omone sbucò dalla cucina.
«Ehi, ehi! Di chi sarebbero i sandwich schifosi?» chiese Nagare, il proprietario della caffetteria, nonché padre di Miki. La madre di Miki, Kei, non era più con loro. Aveva il cuore debole, ed era morta sei anni prima, dando alla luce Miki.
«Ops... bene, miei cari, mi sa che moi adesso se ne va!» esclamò Miki chinando la testa verso Kyoko con enfasi, prima di correre nella stanza sul retro.
«Moi...?»
Kyoko guardò Nagare quasi a chiedere: Dove l’ha imparato?
«Non ne ho idea», rispose Nagare, stringendosi nelle spalle.
Rivolgendo un’occhiataccia a Kyoko e a Nagare, Yōsuke si mise a tirare la madre per un braccio.
«Andiamo?» chiese, stufo di aspettare.
«Oh, sì, stavamo appunto per andarcene», ribatté Kyoko, alzandosi dallo sgabello.
«Bene, è tempo che anche moi se ne vada, miei cari», disse Kyoko, facendo il verso a Miki.
Mise il sacchetto in mano a Yōsuke e senza neppure guardare il conto lasciò sul bancone i soldi del caffè, del sandwich e della consumazione di Yōsuke, compreso il secondo succo che gli aveva versato Kazu.
«Il secondo succo lo offre la casa», le fece notare Kazu prendendo i soldi dal bancone, prima di mettersi a pigiare rumorosamente sui tasti della cassa.
«No, no, figuriamoci, pago io.»
«Non devi pagare una cosa che non hai chiesto. Sono stata io a darglielo.»
Kyoko non voleva prendere i soldi rimasti sul bancone, ma Kazu le stava già porgendo lo scontrino.
«Be’, se lo dici tu...» disse Kyoko, mettendosi i soldi in borsa.
«I miei omaggi alla maestra Kinuyo», disse Kazu, chinando educatamente la testa davanti a Kyoko.
Kazu aveva imparato a dipingere da Kinuyo quando aveva solo sette anni. Era stata Kinuyo a incoraggiarla a iscriversi all’Accademia e, dopo la laurea, Kazu aveva preso a lavorare part time nella scuola di pittura di Kinuyo. Adesso che Kinuyo era ricoverata, spettava a lei sostituirla a lezione.
«Lo so che qui hai molto da fare, perciò ti ringrazio infinitamente anche per questa settimana.»
«Figurati, non c’è problema», ribatté Kazu.
«Grazie per il succo» disse Yōsuke facendo un cenno a Kazu e a Nagare, entrambi fermi dietro il bancone. Poi uscì per primo.
Din-don
«Okay, me ne vado», disse Kyoko salutando con la mano mentre seguiva il figlio fuori dalla porta.
Din-don
Il locale sprofondò nel più assoluto silenzio. Nella caffetteria non c’era musica di sottofondo, perciò quando non parlava nessuno si sentiva la donna in abito bianco sfogliare le pagine del libro.
«Come hanno detto che sta Kinuyo?» chiese Nagare a Kazu quasi parlando tra sé e sé, indaffarato a lucidare un bicchiere. Kazu annuì lentamente una sola volta, ma non rispose alla sua domanda.
«Capisco», ribatté Nagare con un filo di voce, prima di scomparire nuovamente nella stanza sul retro.
Nel locale erano rimasti solo Gōtaro, Kazu e la donna in abito bianco.
Kazu era dietro il bancone e riordinava come al solito.
«Mi piacerebbe saperne di più, se per lei va bene.»
Adesso Kazu era pronta a sentire la ragione per cui Gōtaro voleva tornare nel passato.
Gōtaro la guardò per un istante, poi distolse gli occhi e trasse un respiro profondo.
«In realtà...» attaccò Gōtaro, lasciando quasi intendere che la presenza inopportuna di Kyoko l’aveva trattenuto dal dire tutto quello che pensava. Ma ora, a parte la donna in abito bianco, erano rimasti solo lui e Kazu, e poteva lasciarsi andare. «Mia figlia sta per sposarsi.»
«Si sposa?»
«Sì, voglio dire, in realtà è la figlia di Shuichi», borbottò. «Vorrei mostrare a mia figlia chi era il suo vero padre», proseguì tirando fuori dalla tasca della giacca una fotocamera digitale ultrasottile.
«Se potessi registrare un messaggio da parte di Shuichi...» Gōtaro parlava quasi tra sé e sé, con un filo di voce.
Kazu si incantò a guardarlo.
«E poi?» gli chiese. Voleva sapere che cosa sarebbe successo dopo che Gōtaro le avesse rivelato che non era il suo vero padre.
Gōtaro sentì una stretta al cuore.
“A questa cameriera non si possono raccontare bugie!”
Gōtaro parlò guardando nel vuoto, come se avesse la risposta già pronta.
«Mi aspetto solo che sarà la fine del mio ruolo», disse con pacata rassegnazione.
*
Gōtaro e Shuichi giocavano nella stessa squadra di rugby all’università, ma di fatto si conoscevano sin dalle elementari, quando si erano iscritti al corso di rugby. Avevano giocato in squadre diverse, ma ogni tanto si incrociavano in qualche partita. Però non si può dire che si fossero mai notati. Alle medie e al liceo avevano continuato a giocare a rugby nelle loro rispettive scuole e piano piano, a forza di scontrarsi in gare ufficiali, si erano accorti della reciproca esistenza.
Poi per caso si erano iscritti alla stessa università ed erano finiti in squadra insieme. Gōtaro giocava come estremo, mentre Shuichi era mediano.
Il mediano, identificato dalla maglia numero 10, è il ruolo del fuoriclasse nel rugby. È come il quarto battitore o il lanciatore nel baseball, oppure l’attaccante nel calcio. Shuichi era eccezionale come mediano, e si era guadagnato il soprannome di Shuichi l’Indovino perché le sue azioni erano piccoli miracoli, anzi, i giocatori dicevano che sembrava quasi leggere nel futuro.
Ogni squadra di rugby ha quindici giocatori e ci sono dieci posizioni. Shuichi teneva conto dei punti di forza e delle carenze degli altri giocatori ed era bravissimo a usare o sfruttare qualsiasi giocatore in qualunque posizione. Questa sua straordinaria capacità gli aveva fatto guadagnare la fiducia più completa da parte dei giocatori più anziani della squadra di rugby dell’università, e ben presto avevano iniziato a pensare di nominarlo capitano.
Gōtaro invece aveva cambiato posizione mille volte da quando aveva cominciato a giocare alle elementari. Non essendo capace di dire di no, spesso riempiva posizioni vacanti quando la squadra era a corto di giocatori. Chi alla fine aveva deciso che il ruolo di estremo faceva per lui era stato proprio Shuichi. L’estremo era l’ultimo baluardo della difesa, e perciò era una posizione molto importante nel rugby. Se un avversario violava la linea di difesa della sua squadra, il suo compito era placcarlo e impedirgli di andare a meta. Shuichi voleva a tutti i costi Gōtaro come estremo per via della sua tecnica superiore di placcaggio. Quando Shuichi aveva giocato contro Gōtaro nei match ufficiali alle medie e al liceo, non era mai riuscito a schivarlo. Se la squadra poteva disporre del placcaggio fenomenale di Gōtaro, non c’era niente di cui preoccuparsi. Era la difesa d’acciaio di Gōtaro a permettere gli azzardati schemi d’attacco di Shuichi.
«Quando lascio il fondo campo a te, so di avere qualcuno su cui contare», gli diceva spesso Shuichi prima di una partita.
E poi, sette anni dopo la laurea, si erano incontrati di nuovo per caso davanti a quella caffetteria.
Dopo essersi bevuti un caffè, erano andati all’appartamento di Shuichi, dove avevano trovato Yōko e la loro figlia appena nata, Haruka. Forse Shuichi doveva averla avvertita lungo la strada, perché Yōko aveva preparato un bagno caldo apposta per Gōtaro.
Yōko aveva accolto Gōtaro – ancora prima che si ripulisse – con un sorriso cordiale. «E così tu sei Gōtaro l’estremo? Shuichi mi ha parlato mille volte di te.»
Yōko veniva da Osaka e sapeva mettere gli altri a loro agio ancora più di Shuichi. Le piaceva chiacchierare con tutti e far ridere la gente con le sue battute. Era anche rapida di pensiero e piena di iniziativa. In meno di un giorno, aveva trovato a Gōtaro un posto dove stare e degli abiti da indossare.
Dopo aver perso la sua società, Gōtaro aveva perso anche la fiducia nel prossimo, ma era bastato un mese di lavoro al ristorante di Shuichi per recuperare il suo umore brillante e gioioso.
Di fronte ai clienti abituali, Yōko parlava sempre bene di Gōtaro: «Ai tempi dell’università, era il giocatore di cui mio marito si fidava di più». Se anche lo trovava imbarazzante, Gōtaro sorrideva compiaciuto.
«Il mio obiettivo è guadagnarmi la stessa reputazione anche qui al lavoro», disse una volta, rivelando le sue aspettative per il futuro.
Sembrava che andasse tutto per il meglio.
Un pomeriggio, Yōko fu colpita da un mal di testa lancinante, così Shuichi decise di portarla in macchina all’ospedale. Siccome però non volevano chiudere il locale, Gōtaro si offrì di occuparsi sia del ristorante che della piccola Haruka. Quel giorno i petali di sakura, i fiori di ciliegio, danzavano silenziosi nel cielo blu come una spruzzata di neve.
«Prenditi cura di Haruka», si raccomandò Shuichi salutandolo con la mano mentre correva fuori di casa.
Quella fu l’ultima volta che Gōtaro lo vide.
Shuichi e Yōko non avevano più i genitori, perciò alla tenera età di un anno Haruka rimase sola al mondo.
Vedendo la sua faccina sorridente al funerale dei genitori – troppo piccola per capire che li aveva persi entrambi –, Gōtaro decise che l’avrebbe cresciuta come sua figlia.
Don, don, don...
Un orologio da parete rintoccò otto volte.
Colto di sorpresa, Gōtaro sollevò lo sguardo, le palpebre pesanti e la vista offuscata.
«Dove...?»
Guardandosi attorno, vide le luci seppiate del caffè, le lampade con il paralume e la pala appesa al soffitto che girava lentamente. I pilastri robusti e le travi di legno erano di un bel marrone lucido, e alle pareti c’erano tre grandi orologi dall’aspetto antico.
Gōtaro impiegò qualche secondo a capire di essersi addormentato. A parte la donna in abito bianco, nel caffè non c’era nessun altro.
Si tirò degli schiaffetti sulle guance per schiarirsi i pensieri. Gli venne in mente che Kazu gli aveva detto: «Non sappiamo quando si libererà la sedia che serve per tornare nel passato». Poi, mentre aspettava seduto al tavolo, doveva essersi appisolato.
Gli parve strano essersi addormentato in quel modo dopo aver preso una decisione così fondamentale, ma non poté fare a meno di porsi qualche dubbio sulla cameriera che l’aveva lasciato in quello stato.
Si alzò in piedi e urlò verso la stanza sul retro: «Ehilà... c’è nessuno?».
Ma non ci fu risposta.
Controllò l’ora sul suo orologio da polso e poi su quelli attaccati ai muri. Questi ultimi sembravano regolati ciascuno su un orario diverso. Evidentemente, gli orologi ai due estremi della sala dovevano essere rotti. Uno correva troppo, mentre l’altro era troppo lento. Avevano cercato di aggiustarli un mucchio di volte, ma era stato tutto inutile.
«Le venti e dodici...»
Gōtaro guardò verso la donna in abito bianco.
Fra le tante leggende che Shuichi gli aveva raccontato su quella caffetteria, ce n’era una che gli era rimasta particolarmente impressa: La sedia che serve a tornare nel passato è occupata da un fantasma.
Era un’idea talmente assurda da non poterci credere, ecco perché gli era rimasta impressa.
Indifferente allo sguardo di Gōtaro, la donna proseguì a leggere il suo romanzo con aria concentrata.
“Cosa...?!”
Mentre la guardava in faccia, gli parve di cominciare piano piano a riconoscerla, come se l’avesse incontrata già prima, chissà dove.
Ma non era possibile, se davvero quella donna era un fantasma; perciò non ci pensò più.
Flap!
Di punto in bianco, la donna in abito bianco chiuse il libro e il rumore rimbombò nel caffè silenzioso. A Gōtaro uscì quasi il cuore dal petto e per poco non cadde dallo sgabello del bancone. Fosse stata una cliente qualsiasi, di sicuro quell’azione non lo avrebbe scosso, ma avendo sentito che si trattava di un fantasma... certo, lui non ci credeva, figuriamoci... ma l’associazione tra «fantasma» e «paura» era difficile da scacciare.
«...»
Rimasto pietrificato, Gōtaro cominciò a sudare freddo. Ignorando la sua reazione, la donna si alzò e si avviò in silenzio verso la porta d’ingresso con il romanzo ben stretto in mano.
Con il cuore al galoppo, Gōtaro osservò la donna in abito bianco sfilargli sotto gli occhi senza il minimo rumore.
Oltrepassato l’ingresso, scomparve sulla destra. L’unica cosa in quella direzione era il bagno.
“Un fantasma che va in bagno?”
Gōtaro inclinò la testa guardando la sedia occupata fino a un attimo prima dalla donna. Il posto che serviva per viaggiare nel tempo si era liberato.
Avvicinandosi con cautela, esitante, andò alla sedia, con il terrore che la donna in abito bianco potesse tornare da un momento all’altro con un sorriso diabolico.
Era una semplice sedia, del tutto simile a qualsiasi altra. Aveva eleganti gambe cabriole, mentre la seduta e lo schienale erano imbottiti con un tessuto verde-muschio chiaro. Gōtaro non era certo un intenditore, ma si vedeva da lontano che doveva valere un bel gruzzolo.
“Se mi dovessi sedere su quella sedia...”
Quando Gōtaro posò timidamente una mano sullo schienale della sedia, sentì un fruscio di pantofole strascicate dalla stanza sul retro.
Si girò a guardare in quella direzione e vide una bambina in pigiama. Se non ricordava male, era Miki, la figlia del proprietario. Continuava a fissarlo con i suoi grandi occhi rotondi, e non sembrava minimamente intimorita di incrociare lo sguardo di un adulto mai visto prima. In realtà, era Gōtaro a sentirsi a disagio di fronte allo sguardo diretto della bimba.
«Buona... buonasera», la salutò Gōtaro in tono forzato e innaturale, togliendo di scatto la mano dallo schienale. Miki trascinò i piedi versò di lui.
«Buonasera, monsieur, vuole tornare nel passato?» gli chiese la piccola, senza togliergli i suoi grandi occhi di dosso.
«Ecco, be’, vedi...»
Gōtaro non sapeva come rispondere.
«Perché?»
Miki inclinò la testa incuriosita, ignorando la sua agitazione.
Gōtaro temeva che la donna in abito bianco potesse tornare da un momento all’altro.
«Potresti chiamare qualcuno, per favore?» le chiese.
Ma Miki non gli diede retta e si piantò di fronte alla sedia su cui prima era seduta la donna.
«Kaname è andata in bagno», disse guardando ora Gōtaro, ora il posto vuoto.
«Kaname?»
Miki osservò la porta d’ingresso senza aprire bocca. Seguendo il suo sguardo, Gōtaro capì la situazione e fece un lieve cenno.
«E così si chiama Kaname?»
Anziché rispondere, Miki lo prese per mano.
«Si sieda», disse in tono incoraggiante.
Sparecchiò con gesti professionali la tazza di caffè della donna in abito bianco e scomparve in cucina, strascicando le pantofole, senza dare a Gōtaro il tempo di protestare.
Gōtaro guardò intontito verso la cucina, dove Miki era appena entrata.
“Questa bambina mi aiuterà a tornare nel passato?” si chiese. Poi con aria angosciata si strinse tra la sedia e il tavolino che aveva di fronte e si accomodò.
Non aveva idea di cosa fare per tornare indietro nel tempo, ma sentì il cuore accelerargli in petto al semplice pensiero di sedersi nel posto in cui si poteva viaggiare nel passato.
Dopo poco, Miki fece ritorno con una caffettiera d’argento e una tazza da caffè bianca tintinnanti su un vassoio che teneva con tutt’e due le mani.
Quindi si mise accanto a Gōtaro.
«Adesso moi le versa il caffè», lo avvertì facendo oscillare pericolosamente il vassoio.
“Puoi farlo sul serio?” le stava per chiedere Gōtaro, ma si trattenne.
«Uhm... ecco...» ribatté lui in tono angosciato.
Senza guardare l’espressione che gli si era dipinta in volto perché i suoi occhi grandi e ipereccitati erano fissi sulla tazza da caffè, Miki proseguì la spiegazione.
«Per tornare nel passato...»
In quel preciso momento, Nagare sbucò dalla stanza sul retro con una maglietta indosso.
«Santo cielo, Miki, cosa credi di fare?!» esclamò con un sospiro esagerato. Anziché arrabbiarsi, l’omone sembrava rassegnato, quasi pensasse: “Oh, no, non di nuovo!”.
«Moi sta servendo a monsieur il suo caffè.»
«Non se ne parla, non puoi ancora farlo. E smettila di chiamarti moi.»
«Moi adesso glielo serve.»
«Smettila, subito!»
Mentre il vassoio tintinnante le oscillava in maniera precaria tra le mani, la piccola Miki sbuffò e sollevò lo sguardo sul gigantesco Nagare.
I sottili occhi di Nagare si strinsero e gli angoli della sua bocca si piegarono in una smorfia mentre abbassava lo sguardo su Miki.
Era come se fossero in stallo e il primo dei due che avesse parlato avrebbe perso la partita.
Kazu, comparsa dal nulla, sbucò da dietro le spalle di Nagare e si inginocchiò davanti a Miki.
«Moi...»
Kazu la guardò fisso, alla sua stessa altezza, e piano piano i grandi occhi di Miki persero tutta la loro rabbia e si riempirono di lacrime. In quel momento, la piccola si rese conto di avere perso.
«Il tuo momento arriverà presto», la rassicurò Kazu togliendole il vassoio di mano.
Miki tornò a sollevare lo sguardo su Nagare, gli occhi lucidi, e lui si limitò ad allungare una mano esclamando semplicemente: «Ah-ha!». La sua espressione adesso era molto meno severa.
«Come vuoi tu», disse Miki mentre gli si avvicinava rassegnata per prendergli la mano. Lo sguardo di sfida si era dissolto in un istante. Quando Miki faceva un capriccio così, anziché intestardirsi, riusciva a cambiare umore in fretta. Osservando la sua trasformazione repentina, Nagare pensò con un sorriso malinconico: “Sei proprio come tua madre”.
Dal modo in cui Kazu aveva trattato Miki, Gōtaro ne dedusse che non doveva essere la mamma. In più, comprendeva alla perfezione la fatica che faceva Nagare a trattare con una bambina di quell’età. Dopo tutto, ci era passato anche lui quando aveva cresciuto Haruka come padre single.
«Bene, adesso ripassiamo le regole», disse con un filo di voce Kazu rivolgendosi a Gōtaro, che era ancora seduto nel posto che poteva portare indietro nel tempo. La sala della caffetteria era silenziosa come al solito. Gōtaro aveva sentito quelle regole da Shuichi all’incirca ventidue anni prima, ma adesso quasi non le ricordava più.
Quello che ricordava ancora era che si poteva tornare indietro nel tempo, che qualsiasi cosa avesse fatto non avrebbe modificato il presente, e che su quella sedia c’era seduto un fantasma. Gli altri dettagli gli sfuggivano, perciò fu ben contento quando Kazu annunciò che li avrebbe ripetuti.
«La prima regola è che anche se si torna nel passato, si possono incontrare solo le persone che sono state in questo caffè.»
Questa regola non lo sorprese. Era stato Shuichi a invitarlo nella caffetteria ventidue anni prima, perciò non c’era dubbio che ci fosse entrato.
Visto che Gōtaro era rimasto imperturbabile, Kazu non perse tempo e proseguì. Gli disse che, anche se fosse tornato indietro, non avrebbe potuto cambiare il presente, qualsiasi cosa facesse; che l’unico modo per tornare nel passato era sedersi su quella sedia; che non doveva alzarsi per nessuno motivo, perché altrimenti sarebbe stato rispedito a forza nel presente.
A quest’ultima informazione Gōtaro esclamò: «Ah, davvero?». Ma le regole erano più o meno come se le aspettava, e non parve perdersi d’animo.
«Okay, ho capito», rispose.
Quando Kazu ebbe finito la sua spiegazione, gli disse di restare dov’era e andò in cucina a rifare il caffè.
Lo lasciò seduto su quella sedia, con Nagare in piedi di fronte a lui.
«Mi scusi se glielo chiedo, ma non è sua moglie, vero?»
Non è che ci tenesse particolarmente a sapere la risposta, ma era più che altro un tentativo di fare conversazione.
«Kazu? No, è mia cugina», rispose Nagare, continuando a fissare Miki. «La mamma di Miki... Be’, quando l’ha messa al mondo...»
Nagare si interruppe, non perché si fosse emozionato, ma perché riteneva che il messaggio fosse arrivato.
«Capisco...» disse Gōtaro, e smise di fare domande. Guardò Nagare, con i suoi occhi a fessura, e Miki, con i suoi grandi occhi rotondi, e si disse che la bimba doveva aver preso dalla mamma.
Rifletteva ancora su questo, quando Kazu tornò dalla cucina.
Sul vassoio c’erano la stessa caffettiera d’argento e la tazza da caffè bianca che aveva preso dalle mani di Miki. L’aroma del caffè appena fatto si diffuse nel locale, entrando nei polmoni di Gōtaro.
Kazu si fermò accanto a lui e continuò a spiegare le regole.
«Adesso le servo il caffè», disse mettendogli di fronte la tazza bianca.
«D’accordo.»
Gōtaro guardò la tazza perfettamente pulita e rimase colpito dal suo candore quasi traslucido. Kazu proseguì.
«Il tempo che avrà a disposizione nel passato dura finché il caffè nella tazza è caldo.»
«D’accordo.»
Forse perché glielo aveva già detto Shuichi, ma la notizia che il tempo nel passato era piuttosto breve non parve sorprenderlo.
Kazu annuì appena.
«Questo significa che deve bere il caffè finché è caldo. Ma se non lo beve...» proseguì.
Adesso doveva spiegarsi bene: ...diventerà un fantasma e non si alzerà mai più da quella sedia. Questa regola rendeva quel viaggio un grosso rischio per chi si decideva ad affrontarlo. Non riuscire a incontrare la persona desiderata o non poter modificare il presente erano semplici inconvenienti, in confronto al pericolo di diventare un fantasma.
Tuttavia, se Kazu non stava attenta a pronunciare queste parole con la dovuta serietà, potevano facilmente venire scambiate per uno scherzo, perciò fece una pausa prima di continuare.
«...Divento uno zombi, giusto?» completò la frase Gōtaro.
«Eh?» chiese perplesso Nagare, che ascoltava da lontano.
«Uno zombi», ripeté senza esitare Gōtaro. «Quando Shuichi mi ha spiegato le regole, questa mi era sembrata così assurda... ehm, scusate... ho fatto molta fatica a crederci, me lo ricordo bene.»
A quanto aveva saputo, ogni volta che un cliente non aveva rispettato quella regola le cose erano finite male; ma anziché rattristarsi per il poveretto trasformato in fantasma, Nagare pensava alle persone che questi si lasciava alle spalle. Se fosse successo a Gōtaro, sarebbe stato uno shock devastante per sua figlia Haruka.
Eppure, per qualche strana ragione, Gōtaro non parve dare la dovuta importanza a quella regola, e usare il termine «zombi» come aveva appena fatto, senza la minima esitazione, sembrava suggerire che non avesse avvertito il reale pericolo dietro quelle parole. Tuttavia gli occhi di Gōtaro erano serissimi perciò, anziché dirgli che si sbagliava, Nagare rimase sul vago.
«Be’... non proprio...» balbettò.
«Giusto», confermò in tono distaccato Kazu.
«Eh?» esclamò sorpreso Nagare, sgranando i sottili occhi a mandorla. Miki, che gli stava accanto e forse non conosceva il significato della parola «zombi», guardò Nagare strabuzzando gli occhi.
A ogni modo, Kazu non badò alla reazione di Nagare e riprese a spiegare le regole.
«Deve tenerlo a mente: se non finisce di bere il caffè finché è caldo, toccherà a lei diventare lo zombi seduto per sempre su quella sedia.»
Era nella natura di Kazu, sempre rilassata e generosa, non contraddire Gōtaro, e forse aveva usato anche lei il termine «zombi» perché così era più facile. In ogni caso, quello che intendeva era chiarissimo: che lo chiamasse «zombi» o «fantasma», le cose non cambiavano.
«Quindi, la donna che è stata seduta qui finora...?» chiese Gōtaro, sottintendendo: Non è tornata in tempo dal passato?
«Esatto», confermò Kazu.
«E come mai non ha finito il caffè?» chiese ancora Gōtaro. Per lui era una semplice curiosità, ma quella domanda trasformò il volto di Kazu in una specie di maschera del teatro Nō, dall’espressione incomprensibile.
“Ho fatto una domanda che non dovevo”, pensò Gōtaro, ma Kazu cambiò subito faccia e proseguì.
«Era tornata indietro per rivedere il marito morto, ma forse ha perso la nozione del tempo e il caffè si è raffreddato», raccontò Kazu con l’aria di chi sembrava voler dire: Il resto non serve spiegarlo, giusto?
«Ah, capisco», ribatté Gōtaro con aria comprensiva, guardando l’uscita attraverso cui era scomparsa la donna poco prima.
Dal momento che non fece altre domande, fu Kazu a chiedere: «Posso versare?».
«Sì, grazie», rispose con un sospiro Gōtaro.
Kazu afferrò la caffettiera d’argento che era ancora sul vassoio. Gōtaro non se ne intendeva, ma era evidente che doveva valere una fortuna.
«Allora comincio», annunciò Kazu.
A quelle parole, fu come se l’atmosfera intorno a Gōtaro cambiasse.
La temperatura della caffetteria parve abbassarsi di botto e l’aria si tagliava con il coltello.
Kazu sollevò la caffettiera d’argento e pronunciò la formula: «L’importante è bere il caffè finché è caldo». Poi, lentamente cominciò ad abbassare il beccuccio della caffettiera d’argento verso la tazza. I suoi movimenti erano di una bellezza impenetrabile, quasi fossero parte di un rituale solenne.
Quando il beccuccio fu a pochi centimetri, un filo di caffè nero si allungò verso la tazza senza rumore, all’apparenza immobile. Solo la superficie del caffè saliva, riempiendo la tazza come un’ombra nera di pece.
Mentre Gōtaro osservava il vapore, lo avvolse una strana sensazione, come di vertigine, e tutto attorno al tavolo cominciò a incresparsi e a luccicare.
Temendo di addormentarsi di nuovo, Gōtaro si stropicciò gli occhi.
«Argh!» esclamò senza volere.
Le sue mani, il suo corpo, ogni parte di sé stava diventando un tutt’uno con il vapore del caffè. A incresparsi e a luccicare non era l’ambiente attorno, ma lui stesso. All’improvviso, l’atmosfera prese a muoversi in modo che ogni cosa sopra di lui gli vorticasse sotto a velocità sfrenata.
Sopraffatto da tutte quelle sensazioni, Gōtaro urlò: «Ba... basta!».
Gōtaro non amava le montagne russe e gli bastava vederne una per rischiare di svenire. Ma, sfortunatamente per lui, il mondo scorreva dall’alto in basso a velocità crescente mentre il tempo ripercorreva il lungo viaggio all’indietro di ventidue anni.
Si sentì sempre più stordito. Quando si rese conto di tornare nel passato, Gōtaro perse piano piano conoscenza.
*
Dopo che Shuichi e la moglie erano morti, Gōtaro aveva gestito il ristorante da solo mentre cresceva Haruka. Anche quando Shuichi era ancora vivo, il talentuoso e dotato Gōtaro aveva inventato un metodo per fare tutto da solo, dalla cucina alla contabilità.
Ma, non avendo moglie, Gōtaro aveva scoperto che crescere una bambina così piccola era incredibilmente difficile. Haruka aveva appena compiuto un anno, cominciava a muovere i primi passi e bisognava controllarla di continuo. In più, Haruka si svegliava spesso di notte, privando Gōtaro di un sano riposo. Quando Haruka aveva cominciato l’asilo, Gōtaro si era illuso che la vita sarebbe diventata più facile, ma la piccola aveva paura degli estranei e odiava andare a scuola. Ogni volta che doveva lasciarla, lei scoppiava a piangere.
Una volta andò alle elementari, diceva sempre di voler dare una mano al ristorante, ma era più un peso che altro. Era difficile capire dalle parole che usava cosa intendesse veramente, e se lui non ascoltava con attenzione quello che aveva da dire, lei metteva il broncio. Se aveva la febbre, doveva portarla dal dottore. Ovviamente i bambini hanno anche impegni sociali, compresi il compleanno, il Natale, il giorno di San Valentino e via dicendo. In vacanza, Gōtaro si infastidiva molto quando Haruka lo pregava di portarla al luna park o gli chiedeva questo e quello.
Alle medie Haruka attraversò una fase di ribellione, che con l’età non fece che peggiorare. Durante il liceo, lo chiamò addirittura la polizia perché l’avevano sorpresa a rubare in un negozio.
Da adolescente, Haruka ne combinò davvero di tutti i colori, ma nonostante tutto Gōtaro non si pentì mai di aver deciso di assicurarle un futuro felice.
Solo tre mesi prima, Haruka aveva portato a casa un uomo di nome Satoshi Obi e aveva annunciato che si frequentavano con l’intenzione di sposarsi.
Alla terza visita, Satoshi aveva chiesto a Gōtaro di dargli la sua benedizione.
«Avete la mia benedizione», si era limitato a ribattere Gōtaro.
Tutto quello che voleva era che Haruka fosse felice, e non le avrebbe mai messo i bastoni fra le ruote.
Dopo il diploma, Haruka era diventata molto più ragionevole. Aveva deciso di iscriversi a una scuola di cucina per diventare chef, ed era lì che aveva conosciuto Obi. Finita la scuola, quest’ultimo aveva trovato lavoro in un hotel di Tokyo, nel distretto di Ikebukuro, e Haruka aveva cominciato a dare una mano nel ristorante del padre.
Dopo il grande annuncio, Gōtaro si era sentito terribilmente in colpa per averle mentito.
Per la bellezza di ventidue anni, aveva cresciuto Haruka dicendole che era sua figlia. Per non farle sapere che era rimasta sola al mondo, non le aveva mai mostrato lo stato di famiglia. Con il matrimonio ormai imminente, però, sarebbe cambiato tutto. All’anagrafe per compilare i documenti, avrebbe scoperto che era orfana, e la bugia che Gōtaro aveva custodito gelosamente per tanti anni sarebbe stata scoperta.
Dopo averci pensato su fino all’esasperazione, Gōtaro aveva deciso di confessare ad Haruka tutta la verità prima del matrimonio. Poi avrebbe detto che il vero padre doveva essere presente alla cerimonia nuziale.
“La verità le farà male, ma non c’è altra soluzione.”
Del resto, ormai, non si poteva fare altro.
*
«Ah, mi scusi... signore?»
Gōtaro si sentì scrollare una spalla e si svegliò. Un omone era in piedi di fronte a lui. Indossava pantaloni da divisa neri e un grembiule marrone scuro sopra la camicia bianca con le maniche lunghe arrotolate al gomito. Gōtaro riconobbe il gigante come Nagare, il proprietario della caffetteria. Ma era un Nagare molto più giovane.
Il ricordo di quel giorno cominciò ad affiorare dai recessi del cervello di Gōtaro.
Si disse che quella versione giovane del proprietario era presente anche in quell’occasione, ventidue anni prima.
Il resto del locale – le pale lente sul soffitto, i pilastri e le travi marrone scuro e la parete beige con i tre orologi ognuno su un’ora diversa – era rimasto identico. Anche ventidue anni prima, la caffetteria aveva la sua atmosfera color seppia dovuta alle lampade con il paralume. Se il giovane Nagare non fosse stato lì in piedi di fronte a lui, non si sarebbe neanche accorto di aver viaggiato nel tempo.
A ogni modo, più si guardava attorno, più il suo cuore batteva forte.
“Lui non c’è.”
Se la data era quella giusta, doveva esserci anche Shuichi, e invece non c’era.
Ripensò alle varie regole che gli avevano elencato, e pensò che non gli avevano mai spiegato come tornare al giorno giusto. In più, il suo tempo nel passato durava solo finché il caffè era caldo. Poteva essere arrivato prima che loro due fossero entrati nel locale, oppure potevano aver già lasciato il caffè.
«Shuichi!» chiamò Gōtaro di getto, e involontariamente fece per alzarsi dalla sedia. Ma si sentì sulla spalla la pesante mano di Nagare che lo teneva inchiodato dov’era.
«È in bagno», gli sussurrò.
Gōtaro aveva cinquantun anni ed era un uomo robusto, ma Nagare non dovette usare troppa forza per tenerlo fermo e gli posò la mano sulla spalla con delicatezza, come se stesse accarezzando la testa di un bambino.
«L’uomo che sei venuto a incontrare è andato in bagno. Torna subito, perciò invece di alzarti è meglio se lo aspetti qui», gli suggerì Nagare.
Gōtaro tornò in sé. Secondo le regole, se ti alzavi dalla sedia venivi rispedito all’istante nel presente. Non fosse stato per Nagare, sarebbe successo di sicuro anche a lui.
«Ah, grazie.»
«Non c’è problema», ribatté Nagare in tono piuttosto distaccato, prima di piantarsi dietro il bancone con le braccia incrociate. Dritto in piedi laggiù, più che un gestore sembrava una sentinella di guardia a un castello.
Nel caffè non c’era nessun altro.
Invece allora c’erano altri clienti. Quel giorno di ventidue anni prima, quando Gōtaro e Shuichi erano entrati c’erano una coppia al tavolino più vicino alla porta d’ingresso e un’altra persona al bancone.
E il posto dov’era seduto Gōtaro adesso, quello che faceva viaggiare nel tempo, era occupato da un signore di una certa età con uno smoking e baffi ben curati. Aveva un aspetto molto vecchio stile, e Gōtaro se ne ricordava bene perché al momento si era detto che somigliava a uno che avesse viaggiato nel tempo, direttamente dagli anni Venti.
Però quel giorno di ventidue anni prima gli altri tre clienti – a parte il signore vecchio stile – se n’erano andati in fretta, forse infastiditi dal sudiciume di Gōtaro.
E piano piano i ricordi riaffiorarono.
Appena entrati, Shuichi aveva esclamato con entusiasmo che quella era la misteriosa caffetteria dove si poteva tornare nel passato. Poi, quando Gōtaro aveva finito di raccontare le disgrazie che gli erano capitate, Shuichi si era alzato ed era andato in bagno.
Gōtaro si asciugò il sudore della fronte con il palmo della mano e inspirò profondamente dal naso. Quindi, dalla stanza sul retro, una bambina che poteva andare alle elementari comparve con un randoseru nuovo di zecca sulle spalle.
«Forza, mamma, sbrigati!» urlò la bambina saltellando tutta fiera per il locale.
«Scommetto che adesso sei contenta, eh?» disse il giovane Nagare, ancora con le braccia conserte, alla piccola che correva in tondo tra i tavolini del caffè.
«Un sacco!» rispose la bambina con un sorriso felice mentre usciva di corsa dal locale.
Din-don
Gōtaro ricordava vagamente quell’episodio. All’epoca non ci aveva badato granché, ma era piuttosto sicuro che una donna, forse la mamma della piccola, entro breve sarebbe sbucata dalla stanza sul retro, così si girò a guardare in quella direzione.
«Ferma, aspettami!»
Comparve una donna con i capelli neri e un incarnato così chiaro che pareva quasi traslucido. Neanche trentenne, la donna indossava una casacca color pesca e una gonnellina beige con i volant.
«Oh, non so più che fare con quella bimba! La cerimonia di benvenuto ai nuovi allievi è solo domani», borbottò sollevando le mani, ma con lo sguardo non poi così disperato.
Mentre sospirava, la sua espressione rivelava più che altro una grande gioia.
Osservando il volto della donna, Gōtaro rimase sconcertato.
“Possibile?”
Quel volto l’aveva già visto. Era identica alla donna in abito bianco che era seduta sulla sua sedia a leggere un romanzo prima che lui tornasse nel passato.
Forse era una semplice somiglianza. La memoria umana è così imprecisa, dopotutto. Di sicuro era una persona che Gōtaro aveva già visto, ma adesso si sentiva confuso.
«Sicura di sentirti bene?» le chiese il giovane Nagare abbassando le braccia sui fianchi e stringendo gli occhi fino a renderli due sottili fessure. La sua espressione era difficile da decifrare, ma il suo tono tradiva preoccupazione.
«Ma certo, sto benissimo. Andiamo solo a guardare i fiori di ciliegio qui nei dintorni», lo rassicurò con un sorriso.
Stando alla conversazione, la donna non doveva star bene di salute, ma a prima vista non sembrava avere il minimo problema. Avendo cresciuto Haruka da solo, Gōtaro sapeva quanti sacrifici si dovevano fare per rendere felice i figli.
«Grazie per il tuo aiuto qui al caffè, Nagare, mi serviva», disse la donna dirigendosi verso la porta. Poi si girò a guardare il locale un’ultima volta, fece un cenno a Gōtaro e uscì.
Din-don
Quasi a prendere il suo posto, in quell’istante Shuichi tornò dal bagno.
“Eh?!”
Appena lo vide, Gōtaro smise di pensare a quella donna e si concentrò sull’obiettivo della sua missione.
Shuichi era il giovane uomo che Gōtaro ricordava, ma a Shuichi l’aspetto di Gōtaro doveva sembrare terribilmente anziano.
«Ehi, ma che...?»
Il Gōtaro con cui Shuichi aveva appena parlato era diventato vecchio da un momento all’altro, mentre lui era in bagno. Shuichi lo fissava con un’espressione sconcertata.
«Shuichi.»
Sentendolo parlare, Shuichi sollevò entrambe le mani.
«Aspetta, aspetta, aspetta!» esclamò Gōtaro per farlo tacere. Mentre lo fissava con aria ostile, Shuichi parve ghiacciarsi come una figura in stop motion.
“Qui si mette male...”
Gōtaro era convinto che Shuichi avrebbe capito la situazione al volo appena lo avesse visto nella versione invecchiata, dopotutto, era stato proprio lui a raccontargli che in quel caffè si poteva tornare nel passato.
Del resto, c’erano tutte le ragioni per credere nelle capacità di Shuichi.
L’intuito era sempre stato il suo punto di forza. Quando si trattava di capacità di osservazione, di analisi delle cose e di senso critico, Shuichi si dimostrava sempre al di sopra della media. Molte volte Gōtaro l’aveva visto mettere in pratica queste abilità sul campo da rugby. Shuichi studiava il carattere e le abitudini degli avversari prima delle partite e li imparava a memoria. Come playmaker, faceva meta beffando i giocatori dell’altra squadra. A prescindere dal contesto, le sue analisi erano sempre azzeccate.
Eppure, stavolta la situazione era così assurda che anche Shuichi faceva fatica a raccapezzarsi.
«Shuichi, la verità è che...» azzardò Gōtaro stringendo le mani attorno alla tazza per controllare la temperatura.
Voleva spiegargli come stavano le cose, ma la tazza si stava raffreddando troppo in fretta. Non c’era tempo per entrare nel dettaglio, e la fronte gli si imperlò nuovamente di sudore.
“Cosa posso dirgli?”
Gōtaro era nei guai. Se avesse spiegato tutto dall’inizio alla fine, il caffè sarebbe di sicuro diventato freddo. Ma se Shuichi non avesse creduto che tornava dal futuro, sarebbe stato tutto inutile.
“Riuscirò a spiegarmi? No, temo di no.”
Gōtaro sapeva benissimo di non essere molto bravo a spiegare le cose. Magari con un po’ più di tempo ce l’avrebbe fatta, ma non sapeva per quanto ancora il caffè sarebbe rimasto caldo. Shuichi era immobile e lo fissava con sospetto, quasi con aria inquisitoria, come a volergli penetrare il cuore con lo sguardo.
«Non mi aspetto che tu mi creda, ma...» balbettò Gōtaro, sapendo di dover dire qualcosa.
«Sei venuto dal futuro, giusto?»
Shuichi gli parlava lentamente, neanche fosse uno straniero che non capiva la lingua locale.
«Esatto!» rispose Gōtaro con voce profonda, apprezzando l’intuito fulmineo dell’amico.
Shuichi si strofinò la testa con il pugno, borbottò qualcosa d’incomprensibile e proseguì con le domande.
«Da quanti anni?»
«Eh?»
«Da quanti anni nel futuro sei venuto?»
Aperto alla possibilità, ma comunque scettico, Shuichi cominciava a raccogliere informazioni. Era così che faceva prima di una partita di rugby: metteva insieme le informazioni necessarie, un pezzo dopo l’altro.
“È come lo ricordavo.”
Gōtaro decise di rispondere in fretta, per velocizzare le cose e fargli capire la situazione.
«Ventidue anni.»
«Ventidue anni?»
Shuichi sgranò gli occhi. Gōtaro non l’aveva mai visto così sorpreso, persino quando l’aveva trovato a vivere per strada come un vagabondo.
Anche se era stato proprio Shuichi a raccontargli quella leggenda metropolitana, non pensava che si sarebbe mai ritrovato faccia a faccia con uno che veniva dal futuro. In più, considerando che Gōtaro era invecchiato di ventidue anni mentre era in bagno, non c’era da stupirsi che fosse sconcertato.
«Be’, di sicuro sei invecchiato un bel po’», borbottò Shuichi, addolcendo lo sguardo. Segno che era meno sulla difensiva.
«Immagino di sì», ribatté Gōtaro in tono consapevole.
Eccolo lì, un maturo uomo di cinquantun anni, che si comportava come un bambino timido di fronte a un giovanotto di ventinove. Gōtaro aveva la sensazione di ritrovare il suo angelo custode, colui che l’aveva aiutato a riprendersi la sua vita.
«Comunque ti trovo in forma, sai?» esclamò Shuichi, gli occhi gonfi di lacrime.
«Ehi, che ti succede?»
L’espressione inattesa di Shuichi l’aveva quasi fatto scattare in piedi. Si aspettava che vederlo da un momento all’altro così invecchiato l’avrebbe sconvolto, certo, ma non pensava a una reazione del genere.
Shuichi si avvicinò alla sedia occupata da Gōtaro. Tenendo gli occhi fissi su quelli dell’amico, si accomodò sulla sedia di fronte.
«Shuichi?»
Le lacrime cadevano sonore sul tavolino. Tic-tic-tic.
Gōtaro stava per aprire bocca, esitante e pieno di paura, quando Shuichi gli disse con voce tremante: «Che bel completo indossi».
Di nuovo, il tic-tic delle lacrime.
«Ti sta bene.»
Il Gōtaro appena comparso su quella sedia era la forma futura del suo caro amico, a cui Shuichi stava per cambiare la vita. Quello che aveva incontrato da poco per strada era stracciato e derelitto, perciò Shuichi provava una gioia profonda alla vista del nuovo Gōtaro che si era materializzato lì di fronte a lui.
«Ventidue anni? Non dev’essere stato tutto rose e fiori, vero?»
«No di certo, ma sono volati...»
«Davvero?»
«Eh, già...»
Gli occhi ancora rossi, Shuichi fece un gran sorriso, e Gōtaro gli sussurrò in tono dolce, con un filo di voce: «...Grazie a te».
«Capisco, ahahah.» Shuichi scoppiò a ridere per l’imbarazzo, prese un fazzolettino dalla tasca della giacca e si soffiò il naso. Ma il tic-tic delle lacrime sul tavolo non si fermò.
«Allora?»
Shuichi guardò inquisitorio Gōtaro, quasi a dire: Perché sei venuto? Non che volesse mettergli fretta, ma Shuichi conosceva le regole della caffetteria, e in particolare il limite di tempo per quel genere di viaggi. In più, non poteva credere che Gōtaro fosse venuto a cercarlo senza un buon motivo. Perciò, anziché indulgere nei sentimentalismi, Shuichi sentì di dover andare subito al punto.
Ma la riposta di Gōtaro si fece attendere.
«Ti senti bene?» chiese Shuichi con il tono di chi si rivolge a un bimbo in lacrime.
«A dire la verità...»
Allungò la mano verso la tazza per controllare la temperatura e cominciò cautamente a spiegare la situazione.
«Haruka si sta per sposare.»
«Eh?»
Shuichi era molto perspicace, ma lo shock doveva essere stato forte. Il suo sorriso si dileguò all’istante. Del resto, era comprensibile: per lui Haruka era appena nata.
«Cosa... cosa? Cosa significa?»
«Calma, va tutto bene», lo tranquillizzò Gōtaro in tono rassicurante. Sapeva che non sarebbe stata una conversazione facile.
Si portò il caffè alle labbra e ne bevve un sorso. Non sapeva di preciso a quanti gradi il caffè si potesse considerare freddo, ma in quel momento era di sicuro ancora più caldo della temperatura corporea.
“Dovrebbe andare ancora bene.”
Gōtaro rimise la tazza sul piattino e raccontò la storiella che si era preparato. Fece del suo meglio per non mettere Shuichi in agitazione. Soprattutto, non doveva fargli capire che sarebbe morto di lì a poco; e non era un compito facile, vista la sua intelligenza.
«In realtà, il tuo io futuro mi ha chiesto di tornare indietro nel tempo per chiederti un discorso da pronunciare al matrimonio di Haruka.»
«Io ti ho chiesto di chiedermi...?»
«Sì, una specie di sorpresa.»
«Sorpresa?»
«Shuichi del futuro e Shuichi del passato non si possono incontrare, perciò...»
«...perciò sei venuto tu?»
«Esatto, proprio così», proseguì Gōtaro, sempre più impressionato dalla perspicacia di Shuichi.
«D’accordo, credo di aver capito...»
«Allora, cosa ne dici? È un po’ strano, no?»
«Sì, una follia completa.»
«Già, e c’è dell’altro.» Gōtaro estrasse una fotocamera nuova di zecca. Era ultra sottile, digitale e serviva anche da videocamera, insomma, niente che esistesse ventidue anni prima.
«E quella cos’è?»
«Una macchina fotografica.»
«Così piccola?»
«Sì, e fa anche i filmati.»
«Anche i filmati?»
«Esatto.»
«Incredibile.»
Shuichi guardava fisso Gōtaro, che nel frattempo stava cercando di trovare il bottone di accensione.
«Ma l’hai appena comprata?»
«Eh? Sì, proprio così!»
Gōtaro rispose alla domanda di Shuichi senza pensarci su.
«Dovresti davvero arrivare al punto, sai?» borbottò Shuichi con aria serissima.
«Sì, hai ragione, avrei dovuto capire come funzionava questo coso prima di venire qui», ammise Gōtaro, avvampando.
«Non parlavo della macchina fotografica», ribatté Shuichi, con lo stesso tono.
«Eh?!»
«Oh, lascia perdere», tagliò corto Shuichi.
Poi toccò la tazza per controllare la temperatura. Conoscendo le regole della caffetteria, voleva capire quanto tempo mancava prima che il caffè si raffreddasse.
«Bene, allora facciamo questo filmato!» esclamò alzandosi di scatto con un’esplosione di entusiasmo.
«Possiamo farne solo uno, giusto?»
In base alla temperatura del caffè, anche Gōtaro riteneva che non se ne sarebbero potuti concedere più di uno.
«Sì, così andrà benissimo», rispose Gōtaro. «Bene, allora comincio», aggiunse schiacciando il tasto di registrazione.
«Lo sai... sei sempre stato un pessimo bugiardo», sussurrò Shuichi.
Forse Gōtaro non lo sentì, perché non mostrò alcuna reazione e continuò a puntare la videocamera su Shuichi.
«Ad Haruka, tra ventidue anni da adesso. Congratulazioni per il tuo matrimonio!»
Detto questo, strappò la videocamera di mano a Gōtaro e fece un passo indietro, fuori dalla sua portata.
«Ehi!» urlò Gōtaro, cercando di allungarsi per riprendere la videocamera. Ma Shuichi gli intimò: «Non ti muovere!».
E Gōtaro non si mosse. Il tono fermo di Shuichi gli mise un brivido lungo la schiena. Se quell’avvertimento fosse arrivato un decimo di secondo dopo, forse sarebbe caduto giù dalla sedia. Per fortuna Gōtaro si ricordò appena in tempo la regola per cui non ci si doveva alzare per nessun motivo. Se l’avesse fatto, sarebbe stato rispedito subito nel presente.
«Perché lo fai?» gli chiese Shuichi.
La sua voce rimbombò nel locale, ma per fortuna Gōtaro e Shuichi erano gli unici due clienti. A parte loro c’era solo Nagare, che non sembrava molto interessato alla scena e li guardava senza la minima sorpresa, immobile con le braccia conserte dietro il bancone.
Shuichi emise un sospiro profondo, girò la videocamera verso di sé e si mise a parlare.
«Haruka, congratulazioni per il tuo matrimonio.»
Gōtaro non riusciva ancora a spiegarsi come mai Shuichi gli avesse preso la videocamera, ma quando vide che voleva registrare un messaggio provò un senso di sollievo.
«Il giorno in cui sei nata, i ciliegi erano in fiore... Ricordo ancora quando ti ho tenuta stretta per la prima volta, quanto eri rossa, uno scricciolo tutto rannicchiato.»
Ringraziando la sua buona stella perché Shuichi si era prestato a girare il video, Gōtaro afferrò la tazza di caffè con l’intenzione di tornare nel presente appena Shuichi avesse finito di registrare il suo messaggio.
«Mi bastava guardare il tuo viso sorridente per essere felice. Guardare il tuo viso mentre dormivi mi dava tutta la motivazione di cui avevo bisogno. Essere stato benedetto dalla tua nascita è la gioia più grande nella mia vita. Per me sei la cosa più preziosa al mondo. Per te farei qualsiasi cosa...»
Tutto procedeva secondo i piani. Adesso doveva solo riprendere la videocamera e tornare nel presente. Nient’altro.
«Spero che tu abbia una vita felice finché...» la voce di Shuichi si incrinò all’improvviso per l’emozione, «finché vivrai.»
Tic-tic-tic.
«Shuichi?»
«Possiamo smetterla con questa farsa?»
«Cosa?»
«Smettila di dirmi bugie, Gōtaro!»
«Bugie? Cosa intendi?»
Shuichi guardò verso il soffitto e sospirò pesantemente, gli occhi più rossi che mai.
«Shuichi?»
Shuichi si mordeva una mano, quasi a voler soffocare le emozioni con il dolore.
«Io...»
Tic-tic-tic.
«Non potrò assistere...»
Tic-tic-tic.
Digrignava talmente i denti che riusciva a pronunciare solo una frase alla volta.
«...al matrimonio di Haruka, vero?»
«Cosa intendi? È stata un’idea tua, ricordi cosa ti ho detto?» rispose di getto Gōtaro.
«Non crederai sul serio che io mi faccia prendere in giro da simili balle, vero?» ribatté Shuichi.
«Ma non sono balle!»
A queste parole, Shuichi si girò e puntò i suoi occhi arrossati su Gōtaro.
«Se mi stai dicendo la verità, perché continui a piangere?» borbottò con la voce rotta.
«Eh?!»
Tic-tic-tic.
“Cosa?! Credo che me ne accorgerei se stessi piangendo, no?” pensò Gōtaro, ma in realtà era proprio come aveva detto Shuichi. Gli cadevano dei grossi lacrimoni dagli occhi e finivano sul tavolino con un tic-tic che rimbombava nel locale.
«Oh, che strano! E quando ho cominciato?»
«Non te ne sei accorto? Non hai smesso un attimo di piangere.»
«Non ho smesso un attimo?»
«Sin da quando sono uscito dal bagno.»
Gōtaro abbassò lo sguardo e vide la pozza di lacrime sul tavolino.
«Que-queste sono so-solo...»
«E non basta.»
«Eh?!»
«Il tono con cui hai detto: “Haruka si sta per sposare” era quello di un padre che parla della propria figlia. Perciò non posso fare a meno di pensare che l’hai cresciuta come una figlia al posto mio!»
«Shuichi...»
«Il che significa...»
«No, hai capito male.»
«Andiamo, dimmi la verità.»
«...»
«Che sarò...»
«No... Shuichi, aspetta...»
«Sarò morto per allora?»
Tic-tic-tic.
Anziché rispondere, Gōtaro si mise a piangere ancora più forte.
«Questa è grossa», mormorò Shuichi. Gōtaro scuoteva la testa in maniera esagerata, come avrebbe fatto un bambino, ma non poteva più ingannare il suo amico. Per quanto si sforzasse di porre un argine, le lacrime gli rigavano le guance.
Più lui cercava di trattenere i singhiozzi, più le spalle gli tremavano. Per nascondere le lacrime a Shuichi, si morse un labbro e abbassò la testa.
Shuichi fece il giro del locale e si lasciò cadere sul posto più vicino all’ingresso.
«E quando?»
Shuichi gli stava chiedendo quando sarebbe morto.
Gōtaro voleva solo ingoiare il caffè in fretta e tornare nel presente, ma era come paralizzato, i pugni stretti sulle ginocchia, incapace persino di muoverli.
«Niente più bugie... d’accordo? Dimmi la verità», lo supplicò Shuichi guardandolo negli occhi.
Gōtaro distolse lo sguardo, giunse le mani quasi in preghiera e colpendosi in fronte emise un gran sospiro.
«Un anno dopo...»
«Ho solo un anno davanti a me?»
«È stato un incidente d’auto.»
«Davvero?»
«Eri con Yōko...»
«Oh, cielo, no! Anche Yōko?»
«E così me ne sono preso cura io. Sono stato io a crescere... Haruka.»
Gōtaro si sforzava di non pronunciare quel nome come se fosse suo padre, e Shuichi se ne accorse subito.
«Capisco...» borbottò con un vago sorriso.
«Ma voglio darci un taglio... oggi stesso», disse Gōtaro con voce tremante.
*
Gōtaro non era mai riuscito a scacciare il pensiero che il rapporto padre-figlia costruito con Haruka nel corso di quei ventidue anni fosse frutto della morte di Shuichi. Eppure non poteva fare a meno di sentirsi felice quando passava il tempo in compagnia della figlia.
Ma più si sentiva felice, più lo assaliva il sospetto che, con Shuichi dimenticato per sempre, forse quella felicità non gli spettava...
Se avesse trovato il coraggio di dire prima ad Haruka che lui non era il suo vero padre, forse il loro rapporto sarebbe stato diverso, ma del resto non aveva alcun senso immaginare come sarebbero potute andare le cose.
Il giorno del matrimonio di Haruka era vicino. Rimandare la questione al momento in cui sarebbe stato sbugiardato dallo stato di famiglia aveva solo rafforzato il senso di colpa di Gōtaro.
“Ho vissuto tutta la vita senza il coraggio di dire la verità per paura di perdere la mia felicità.”
Era un tradimento ai danni di Shuichi, il suo angelo custode, e anche di Haruka.
“Sono davvero patetico: non mi merito di partecipare a un evento come il matrimonio di Haruka.”
E così Gōtaro aveva deciso di uscire dalla vita di Haruka subito dopo averle rivelato la verità.
*
Ancora con la videocamera in mano, Shuichi si alzò dalla sedia e raggiunse Gōtaro, che nel frattempo si era accasciato sul tavolino. Puntò l’obiettivo in modo da inquadrare entrambi e gli mise un braccio sulle spalle.
«Non vuoi andare al matrimonio, vero?» gli chiese, scrollandolo leggermente.
Come al solito, Shuichi aveva capito tutto.
«No, non credo proprio. Il padre di Haruka è Shuichi... cioè, sei tu... io non ho mai avuto il coraggio di dirle di te, il suo vero padre. Tu sei stato l’unico che mi abbia aiutato... e lo so che avrei dovuto... ma ho pensato che se Haruka fosse stata la mia vera... figlia, allora...»
Gōtaro continuava a incespicare nelle parole.
«E così ho finito per prendere una decisione che in teoria doveva essere impensabile.»
Gōtaro si coprì il viso con le mani e scoppiò a singhiozzare fuori controllo. La sua era una sofferenza senza fine.
Quando pensava: “Haruka è la mia vera figlia”, era come se Shuichi non fosse mai esistito. Gōtaro, che provava una gratitudine sconfinata per Shuichi, si disprezzava per aver concepito un simile pensiero.
«Adesso è tutto chiaro... ed è proprio da te farti una cosa simile... ti sei portato dentro questa sofferenza per tutto questo tempo, giusto?»
Shuichi fece un sospiro profondo e tirò su con il naso.
«Va bene... ma adesso basta», proseguì tirandogli il lobo dell’orecchio.
«Mi dispiace, mi dispiace così tanto...» ripeteva Gōtaro, mentre le lacrime gli colavano tra le dita e finivano sul tavolino. Tic-tic-tic.
«Perfetto!» esclamò Shuichi puntandosi contro la videocamera.
«Haruka, ascoltami! Ho una proposta da farti», annunciò in tono sicuro e con voce tonante.
«Da oggi in poi...» attaccò, attirando a sé Gōtaro «...il tuo papà saremo tutti e due, Gōtaro e io. Che ne dici, ti va bene?»
Gōtaro smise di singhiozzare e Shuichi proseguì.
«Da oggi in poi, hai un papà in più. Questo è il patto. Che te ne sembra?»
Gōtaro sollevò lentamente il volto rigato di lacrime.
«Aspetta un momento, cos’hai detto?» borbottò.
Shuichi si girò verso di lui.
«Tu meriti di essere felice! Devi smetterla di tormentarti continuando a pensare a me!»
Poi Gōtaro ricordò.
Shuichi era sempre stato così. Anche se le cose andavano male, lui era l’eterno ottimista, e non esisteva altra opzione che andare avanti. Anche adesso, dopo aver sentito che sarebbe morto presto, era lui che pensava alla felicità degli altri.
«Sii felice, Gōtaro!»
In un angolo di quella piccola caffetteria, due omoni robusti si abbracciavano stretti e piangevano.
La pala da soffitto sopra di loro continuava a girare lenta.
Shuichi fu il primo a smettere di piangere e afferrò Gōtaro per le spalle.
«Ehi, guarda l’obiettivo! Stiamo lasciando un messaggio per il matrimonio di Haruka, ricordi?»
Gōtaro, sostenendosi al braccio di Shuichi, alla fine si decise a guardare l’obiettivo, ma aveva il viso gonfio e bagnato di lacrime.
«Coraggio, sorridi!»
«...»
«Su, adesso facciamo tutti e due un bel sorriso e auguriamo tanta felicità ad Haruka per il suo matrimonio, d’accordo?»
Gōtaro si sforzò di sorridere, ma non gli riuscì bene.
Vedendo il misero tentativo di Gōtaro, Shuichi prese a ridere forte. «Ahahah, niente male!» esclamò, prima di restituirgli la videocamera.
«Promettimi che lo mostrerai ad Haruka, d’accordo?»
Detto questo, Shuichi si alzò.
«Mi dispiace, Shuichi.»
Gōtaro non riusciva a smettere di piangere.
«Per caso non le piace il caffè?» chiese Nagare a voce bassa da dietro il bancone. Era il suo modo per esprimere preoccupazione. Il caffè stava diventando freddo.
Ti ricordi il limite di tempo, vero? intendeva dire.
«È vero, adesso dovresti andare!» esclamò Shuichi. Gōtaro lo guardava fisso negli occhi.
«Shuichi!» urlò.
«Va tutto bene, non ti preoccupare. Io sto bene», gli rispose, senza riuscire a scacciare la tristezza dagli occhi dell’amico. Shuichi sorrideva.
«Ehi, vuoi partecipare al matrimonio di Haruka sotto forma di “zombi”, o cosa?» chiese ironico, dandogli piccole pacche sulla spalla.
Gōtaro lo guardò con le guance rigate di lacrime.
«Mi dispiace», sussurrò ancora.
«Ehi, va tutto bene, su, bevi!» ribatté Shuichi agitando i palmi delle mani.
Gōtaro prese la tazza e, sentendola fredda, se la scolò tutta d’un sorso.
La sensazione di vertigine tornò ad avvolgerlo all’istante.
«Shuichi...!» urlò Gōtaro, ma ormai era diventato un filo di vapore che si arricciava verso l’alto, e la sua voce non parve raggiungere l’amico. Eppure, un attimo prima che l’atmosfera luccicante cominciasse a increspare la sua coscienza nebulosa, sentì chiaramente Shuichi dire: «Prenditi cura di Haruka».
Le stesse parole che il Gōtaro ventidue anni più giovane avrebbe sentito di lì a un anno, un giorno in cui i petali di sakura danzavano come fiocchi di neve nel cielo blu senza una nuvola.
Gōtaro scoprì di botto che, proprio come quando stava tornando nel passato, gli sembrava di essere su un ottovolante che sfrecciava fuori controllo, mentre lo riportava a forza nel futuro. E poco dopo perse conoscenza.
*
«Monsieur?»
Alla voce di Miki, Gōtaro rinvenne. L’interno della caffetteria non era cambiato, ma adesso davanti a lui c’erano Miki, Nagare e Kazu.
“È stato un sogno?”
Gōtaro si accorse di stringere in mano la macchina fotografica e si precipitò a premere il pulsante del video.
Mentre Gōtaro guardava lo schermo, la donna in abito bianco tornò dal bagno e si piantò di fronte al suo tavolo.
«Si sposti!» sbraitò con uno spaventoso tono gutturale.
«Ah, mi scusi», disse Gōtaro alzandosi di scatto per liberare il posto.
La donna si sedette con noncuranza e spostò la tazza rimasta, lasciando intendere che andava tolta.
Miki corse a prenderla e la portò via senza vassoio, tenendola con tutt’e due le mani. Passò davanti a Gōtaro e raggiunse Nagare dietro il bancone.
Poi gli porse la tazza.
«Monsieur sta piangendo, miei cari. Moi si chiede se sta bene», disse con il suo solito tono esagerato. Nagare vide che Gōtaro guardava lo schermo della videocamera singhiozzando così forte da sussultare con le spalle, e forse quello spettacolo preoccupò anche lui, perché andò subito a chiedergli: «Si sente bene?».
«Sì, sto bene, grazie», rispose Gōtaro, incollato allo schermo.
«Allora, tutto a posto...» disse Nagare rivolgendosi a Miki. «Dice che sta bene», le sussurrò. Kazu uscì dalla cucina portando una tazza di caffè caldo per la signora in abito bianco.
«Sii felice...» disse con un filo di voce Gōtaro guardando verso quella sedia. «Ecco cos’ha detto», proseguì serrando la mascella.
«Ah, davvero?» ribatté a voce bassa Kazu.
Il video mostrava Shuichi che teneva il braccio sulle spalle di Gōtaro e gli diceva: «Coraggio, sorridi!».
*
«Allora, miei cari, quando potrà farlo anche moi?»
Gōtaro andò alla cassa per pagare il conto, ma Miki continuava a tirare Nagare per una manica.
«Be’, per prima cosa dovresti smetterla con questo moi!»
«Ma moi vuo-le far-lo.»
«Non permetterò mai a una persona che dice moi di farlo.»
«Allora sei solo un fifone.»
«Cosa sono?»
Mentre Nagare e Miki continuavano il loro battibecco, Gōtaro si fermò di botto prima di uscire.
«Posso chiederle una cosa...?» disse a Kazu.
«Mi dica.»
«Era sua madre, vero?» azzardò Gōtaro guardando la donna in abito bianco.
Kazu seguì lo sguardo di Gōtaro.
«Sì», rispose semplicemente.
A Gōtaro sarebbe piaciuto chiederle perché fosse tornata nel passato, ma Kazu non sembrava avere la minima voglia di affrontare la questione e si limitava a fissare con occhi inespressivi la donna in abito bianco.
Quando Gōtaro gliel’aveva chiesto prima di viaggiare nel tempo, lei gli aveva risposto che era tornata indietro per rivedere il marito morto.
“Questa ragazza deve aver sofferto molto più di quanto io possa immaginare”, si disse Gōtaro.
«Grazie davvero...»
Dopodiché uscì dalla caffetteria.
Din-don
«Ventidue anni fa...» sussurrò Nagare. «Allora avevi sette anni, giusto?» chiese a Kazu da dietro il bancone, mentre la ragazza continuava a fissare Kaname.
«Esatto...»
«Spero tanto che anche tu possa essere felice...» borbottò Nagare quasi parlando tra sé e sé.
«Be’, io...»
Kazu stava forse per dire qualcosa, ma Miki non gliene diede il tempo.
«Ehi, miei cari... tra quanto pensate che moi avrà il permesso di farlo?» chiese abbracciando le gambe di Nagare.
Kazu la guardò con un sorriso caloroso.
«Quanto sei insistente», sospirò Nagare. «Tranquilla, prima o poi verrà il tuo momento», le disse, cercando di divincolarsi dalla sua stretta.
«Quando sarà? Quando, che giorno?»
«Verrà quando verrà!»
«Non capisco», insistette Miki, avvinghiata alle gambe del papà.
«Quando, quando, quan-do?»
Un attimo prima che la pazienza di Nagare si esaurisse, Kazu si inserì nella conversazione.
«Miki, verrà anche il tuo momento...» Si avvicinò alla bambina e le si inginocchiò di fronte, mettendosi alla sua altezza.
«Quando avrai sette anni...» le sussurrò dolcemente.
«Davvero?» esclamò Miki, guardandola negli occhi.
«Sì, davvero», confermò Kazu.
Miki guardò anche Nagare in attesa di un suo cenno.
Nagare non sembrava troppo convinto, ma alla fine si lasciò sfuggire un sospiro di rassegnazione.
«Okay», rispose, annuendo un paio di volte.
«Hip hip urrà!» urlò Miki saltando per l’entusiasmo. Poi corse nella stanza sul retro, seguita da Nagare che scuoteva la testa borbottando: «Ma tu guarda cos’ho dovuto dire».
Lasciata sola, Kazu guardò in silenzio la donna in abito bianco che leggeva il suo romanzo.
«Mi dispiace, mamma, io ancora...» sussurrò all’improvviso.
I tic-tac dei tre orologi da parete rimbombarono sonori quasi mettendosi in connessione con Kazu.
Sempre...