2.
MADRE E FIGLIO

Nulla come il cri-cri del grillo suzumushi ricorda che è arrivato l’autunno.

Ma questa simpatia nei confronti degli insetti è un fenomeno culturale unico. Al di fuori del Giappone e della Polinesia, il verso degli insetti tende a essere considerato cacofonico.

Secondo una teoria, i giapponesi e i polinesiani provengono entrambi dal Sud della Mongolia. La fonetica del samoano, una delle lingue della Polinesia, è simile al giapponese. Entrambe hanno cinque vocali, a, e, i, o, u, e formano le parole combinando consonanti e vocali, oppure vocali e basta.

Il giapponese possiede anche espressioni onomatopeiche per riprodurre i suoni ed espressioni mimetiche per comunicare stati che non producono suoni. Ma che sia il sala sala del fiume che scorre, il byuu byuu del vento che soffia, o lo shin shin mimetico della neve che cade silenziosa e il kan kan dei raggi del sole, tutti questi versi rievocano il carattere peculiare del mondo che ci circonda.

Questi termini prendono vita nei fumetti giapponesi di oggi, dove si trovano scritti accanto alle nuvolette dei dialoghi. Quando un personaggio assume una posa drammatica, si aggiunge ZUBAAN! per dare più enfasi; oppure, se si rompe un oggetto pesante, per aggiungere intensità si trova scritto DOHN! Sulu sulu dà la consistenza di una superficie scivolosa, mentre la caratteristica del silenzio è racchiusa nel verso shi-n. Quando i fumetti usano questi glifi, l’obiettivo è sempre sottolineare la realtà del momento.

Spesso a lezione di musica si canta una canzoncina piena di queste espressioni.

Sento il grillo del pino frinire!

Fa cri-cri, cri-cri, cri-cri.

Sento il grillo del pino frinire!

Cri-cri, cri-cri, cri-cri.

Una sera d’autunno...

Miki Tokita cantava questa canzoncina, Armonia degli insetti, ad alta voce. Era tutta contenta che il padre, Nagare, ascoltasse la canzone che aveva appena imparato a scuola. Cantava con tanto entusiasmo che era diventata rossa in faccia.

Nagare si sforzava di continuare ad ascoltare la voce stonata e acutissima di Miki. Un solco profondo gli si formava sulla fronte, e la sua bocca tendeva a somigliare a una U al rovescio.

Canta nella lunga notte autunnale.

Oh, che bello sentire la sinfonia degli insetti!

Alla fine dell’esibizione, ci fu un forte applauso. «Bravissima, bravissima!» esclamò Kyoko Kijima, battendo le mani. Kyoko, che se ne stava seduta su uno sgabello del balcone, aveva ascoltato Miki cantare. Le lodi di Kyoko lasciarono la bambina sorridente, soddisfatta e compiaciuta.

Sento il grillo del pino frinire.

Miki ricominciò a cantare.

«Molto bene, Miki, sei bravissima, ma adesso basta!» tagliò corto Nagare, stanco di sentire quella canzoncina per la quarta volta di fila. «Grazie per aver condiviso con noi la tua canzone, ma adesso metti via il tuo randoseru», le ordinò, porgendole lo zaino che aveva lasciato sul bancone.

Miki, ancora tutta fiera per le lodi di Kyoko, annuì e scomparve nella stanza sul retro.

Cri-cri, cri-cri, cri-cri...

Mentre Miki lasciava la sala cantando, ricomparve la cameriera del locale, Kazu Tokita.

«Be’, mi sa che l’autunno è proprio arrivato», sussurrò a Kyoko.

La canzoncina di Miki sembrava portare quella novità nella caffetteria, che invece rimaneva sempre uguale, a prescindere dalla stagione.

Din-don

A entrare stavolta fu un uomo sulla sessantina: Kiyoshi Manda, detective della Omicidi del commissariato di Kanda. Erano i primi di ottobre, e la mattina cominciava a fare freddino. Kiyoshi si tolse l’impermeabile e si accomodò al tavolino più vicino all’ingresso.

«Buongiorno, benvenuto!» lo salutò Kazu servendogli un bicchiere d’acqua.

«Un caffè, prego», ribatté Kiyoshi.

«Dritto al punto», disse Nagare da dietro il bancone, prima di entrare in cucina.

Quando Nagare si fu allontanato, Kyoko sussurrò per farsi sentire solo da Kazu.

«Kazu, l’altro giorno ti ho visto passeggiare davanti alla stazione con un uomo! Chi era? Non sarà stato il tuo fidanzato, vero?»

Sorridendo maliziosa con gli occhi che scintillavano, Kyoko sperava che Kazu reagisse in maniera insolita, magari arrossendo.

Ma Kazu si limitò a fissarla e rispose: «Sì, certo».

Kyoko ci rimase di stucco.

«Davvero? Non sapevo avessi un fidanzato!» esclamò appoggiandosi con i gomiti sul bancone per avvicinarsi a Kazu.

«E invece ce l’ho.»

«E quando è successo?»

«Era uno studente dell’ultimo anno quando frequentavo l’Accademia.»

«Mi stai dicendo che state insieme da dieci anni?»

«Oh, no, solo dalla primavera.»

«Di quest’anno?»

«Esatto.»

«Oh, davvero?» replicò con un gran sospiro Kyoko, raddrizzandosi sullo sgabello fin quasi a perdere l’equilibrio.

Di tutte le persone del caffè, Kyoko era l’unica che si dimostrasse così interessata alla questione. Kiyoshi, seduto accanto all’ingresso, non pareva badare ai pettegolezzi: era concentrato solo sul taccuino nero che teneva in mano e che fissava assorto nei suoi pensieri.

Kyoko urlò a Nagare, in cucina.

«Ehi, Nagare, lo sapevi che Kazu era fidanzata?» Il caffè era piccolino, e subito dopo aver urlato Kyoko guardò Kazu stringendosi nelle spalle. Ho parlato troppo forte? sembrava chiedere, scrutandola per capire se era infastidita.

Ma Kazu, calma come sempre, stava lucidando un bicchiere. Nella sua testa non c’era proprio niente da nascondere. Aveva semplicemente risposto a una domanda.

Visto che Nagare non commentava, Kyoko ci riprovò: «Allora, tu lo sapevi?».

E un attimo dopo arrivò la risposta. «Sì, in un certo senso, direi di sì.»

Stranamente, Nagare si dimostrò molto più vago e timido della stessa Kazu.

«Ma tu pensa!»

Appena Kyoko ricominciò a fissare Kazu, Nagare uscì dalla cucina.

«Come mai sei così sorpresa?» le chiese Nagare, mentre portava a Kiyoshi il caffè appena fatto.

Kiyoshi lo guardò tutto compiaciuto e inalò l’aroma dalla tazza con un gran sorriso sulle labbra.

Notando la sua reazione, le sottili fessure degli occhi di Nagare si inarcarono per la soddisfazione. Nagare si vantava di non servire niente di ordinario nel suo locale, e il sorriso di Kiyoshi era la sua ricompensa. Nagare gonfiò il petto e tornò dietro il bancone. Infischiandosene della sua soddisfazione, Kyoko proseguì: «In effetti non dovrei esserlo, ma sai com’è... si tratta di Kazu. Chi l’avrebbe detto che teneva nascosta una vita romantica?».

«Ah-ha», ribatté Nagare come se niente fosse, stringendo ancora di più gli occhi e canticchiando un motivetto mentre lucidava un vassoio d’argento. Il sorriso di Kiyoshi lo interessava incomparabilmente di più delle chiacchiere sul fidanzato di Kazu.

Kyoko lo guardò di traverso.

«Allora, cosa facevate quel giorno?» chiese tutta curiosa.

«Stavamo cercando un regalo.»

«Un regalo?»

«Era il compleanno di sua madre.»

«Ah, capisco.»

Kyoko andò avanti un po’ a fare domande e a mettere il naso nella vita del suo fidanzato. Le chiese qual era stata la sua prima impressione quando l’aveva conosciuto, come le aveva chiesto di uscire insieme e così via. Visto che Kazu era disponibile a rispondere a qualsiasi domanda, Kyoko non finiva mai.

In particolare, però, sembrava interessata a quante volte le avesse chiesto di diventare la sua fidanzata. Anziché riuscirci al primo tentativo, aveva dovuto provarci per ben tre volte: appena conosciuti, tre anni dopo e finalmente la primavera scorsa. Kazu rispondeva a tutte le domande, ma quanto al motivo per cui gli aveva risposto di no per due volte e alla terza si fosse decisa ad accettare il fidanzamento, si era limitata a dire: «Non lo so».

Quando ebbe esaurito la sua curiosità, Kyoko appoggiò le guance sulle mani e chiese a Nagare un altro caffè.

«Allora, si può sapere come mai questa notizia ti ha messo così di buonumore?» le chiese Nagare mentre le riempiva la tazza. Kyoko rispose con un gran sorriso.

«Sai, mia madre si augurava che arrivasse presto il giorno in cui Kazu fosse felicemente sposata.»

Kyoko parlava di sua madre, Kinuyo, che era morta il mese prima dopo una lunga battaglia contro una brutta malattia.

Kinuyo, che aveva insegnato arte a Kazu sin da quando era una ragazzina, adorava il caffè di Nagare. Fino al giorno del ricovero, passava in caffetteria ogni volta che poteva, e Kazu e Nagare le erano molto affezionati.

«Ah, davvero?» sussurrò in tono solenne Nagare, stringendo gli occhi. Kazu non fece commenti, ma smise all’istante di lucidare il bicchiere che teneva in mano.

Accorgendosi di aver rattristato tutti, Kyoko si affrettò ad aggiungere: «Quanto sono stupida, scusate per aver rovinato l’atmosfera. Non intendevo dire che la mamma è morta con un desiderio irrealizzato. Vi prego, non mi fraintendete». Ma tanto Kazu lo sapeva benissimo che non era quello il senso delle sue parole.

«Anzi, siamo noi che ti ringraziamo», ribatté con un sorriso gentile che normalmente non esibiva.

Kyoko sapeva di averli rattristati, ma era anche felice di aver potuto condividere il desiderio della madre con Kazu. «Oh, di niente», rispose con un allegro cenno del capo.

«Scusate se vi interrompo...»

Era Kiyoshi. Aveva sorseggiato il suo caffè senza dire una parola, evidentemente in attesa di una pausa nella conversazione.

«C’è una cosa che avrei bisogno di chiedere...» disse con aria di scuse.

A chi si rivolgesse non era chiaro, ma Kyoko rispose all’istante: «Sì?». E Nagare: «Cosa c’è?». Kazu invece, anziché rispondere, si limitò a fissare Kiyoshi. Togliendosi il suo logoro cappello da caccia, Kiyoshi si grattò la testa ormai quasi completamente canuta.

«In realtà, non so cosa regalare a mia moglie per il compleanno», borbottò leggermente imbarazzato.

«Un regalo per sua moglie?» chiese Nagare.

«Esatto», annuì Kiyoshi. Forse, sentendo che Kazu doveva trovare un regalo per la madre del suo fidanzato, aveva pensato di poter chiedere consiglio.

«Oh, che romantico!» lo canzonò Kyoko; invece Kazu prese la domanda sul serio.

«Cosa le ha regalato l’anno scorso?» gli chiese.

Kiyoshi si grattò di nuovo la testa.

«Be’, mi imbarazza dirlo, ma non le ho mai regalato niente per il compleanno, quindi non so cosa comprarle.»

«Eh? Non le ha mai fatto un regalo, e adesso le viene in mente di fargliene uno? Come mai?» chiese Kyoko, non riuscendo a trattenere la curiosità.

«Oh, non c’è una ragione in particolare», rispose facendo finta di bere un altro sorso di caffè dalla tazza vuota. Kyoko riconosceva, chiaro come il sole, il suo tentativo di nascondere l’imbarazzo e si sforzò di camuffare la risatina che le sorgeva spontanea, quasi a dire: Com’è adorabile!

Nagare ascoltava la conversazione in piedi a braccia conserte, e dopo aver borbottato: «Per come la vedo io...» proseguì con entusiasmo, «le piacerebbe qualsiasi cosa».

«È il consiglio più inutile che potessi dare», lo rimproverò subito Kyoko.

«Ehm, mi dispiace», disse Nagare, sentendosi in colpa. Poi Kazu riempì di caffè la tazza di Kiyoshi.

«Che ne dice di una collana?» propose.

«Una collana?»

«Non sarà la cosa più appariscente, ma...»

Kazu si toccò il collo mentre parlava e mostrò a Kiyoshi la sua collana. Era così sottile che quasi non si vedeva.

«Fammi dare un’occhiata. Oh, sì, molto carina! Le donne hanno un debole per quel genere di cose, a qualsiasi età», esclamò Kyoko annuendo con entusiasmo.

«A proposito, quanti anni ha, Kazu?» le chiese Kiyoshi.

«Ventinove.»

«Ventinove...» borbottò tra sé e sé, quasi pensando ad altro.

Notando l’espressione di Kiyoshi, Kyoko cercò di rassicurarlo. «Se la preoccupa l’età, non ci pensi! È un gesto bellissimo e sono sicura che sua moglie lo apprezzerebbe molto.»

Kiyoshi si illuminò all’istante.

«Capisco. Grazie davvero.»

«Allora auguri per lo shopping.»

Kyoko era sorpresa e ammirata insieme. Non pensava che un maldestro detective anzianotto come Kiyoshi potesse decidere di fare un bel regalo di compleanno alla moglie, ed era dalla sua parte con tutto il cuore.

«Grazie», ribatté Kiyoshi, rimettendosi il logoro cappello da caccia in testa e tornando a prendere la tazza di caffè.

Anche Kazu sorrideva tutta felice.

Sento il leone ruggire!

Roar-roar, roar-roar, ROOAAARRR!

Nella stanza sul retro si sentiva Miki cantare.

«Questo verso non me lo ricordavo», osservò Kyoko con le braccia incrociate e lo sguardo perso nel vuoto.

«È la sua ultima trovata.»

«Cosa, sostituire le parole?»

«Ah-ha.»

«Adesso che ci penso, i bambini adorano farlo, no? Quando Yōsuke aveva l’età di Miki, ovunque fossimo si metteva a cambiare il testo delle canzoni. Era davvero imbarazzante.»

Con un sorriso nostalgico, Kyoko guardò verso la stanza sul retro.

«A proposito di Yōsuke, è un po’ che non lo vediamo da queste parti», le fece notare Nagare, cambiando argomento.

Yōsuke era il figlio di Kyoko. Frequentava la quarta elementare e giocava a calcio. Prima che Kinuyo morisse, Kyoko e Yōsuke venivano spesso insieme nel locale e portavano in ospedale il caffè di Nagare.

«Eh?»

«Yōsuke.»

«Ah, sì, è vero», borbottò Kyoko, prendendo il bicchiere.

«Veniva solo perché mia madre voleva il caffè», spiegò.

Yōsuke aveva smesso di accompagnare la mamma alla caffetteria subito dopo la morte della nonna. Dopo aver combattuto la sua malattia per quasi sei mesi, Kinuyo si era bagnata le labbra nel famoso caffè di Nagare e aveva esalato il suo ultimo respiro come se si addormentasse.

Il piccolo Yōsuke, che il caffè non lo beveva, andava alla caffetteria solo per far felice la nonna, e dopo la sua morte non aveva più ragione di farsi vedere.

Alla fine dell’estate, sei mesi dopo il ricovero di Kinuyo, Kyoko aveva detto che si stava «preparando». Ma ormai era passato già un mese dalla morte della madre e non riusciva ancora a cancellare il dolore dal suo viso.

Nagare non aveva intenzione di farle tornare in mente brutti ricordi, e sembrava pentito di aver sollevato la questione.

«Scusa se te l’ho chiesto», disse chinando leggermente il capo.

E poi all’improvviso...

Sento il gallo cantare!

Chicchirichì, chicchiri-cip-cip!

Miki cantava forte nella stanza sul retro.

«Mah!» esclamò Kyoko di getto, sentendo la versione alternativa di Miki. L’atmosfera gravosa che aveva contribuito a creare si trasformò da un momento all’altro. Per fortuna c’è Miki, dovette pensare, e fece una risatina roca.

«Mi sa che ha appena incrociato un gallo con un usignolo», commentò guardando Nagare, che sembrava pensarla allo stesso modo.

«Ehi, Miki, ti sei messa a cantare delle canzoncine un po’ strane, no?» le urlò lui, sospirando forte mentre tornava sul retro.

«Miki certe volte sa essere davvero carina», sussurrò Kyoko.

«Be’, adesso devo proprio andare... grazie per il caffè», disse Kiyoshi, approfittando del cambio di atmosfera. Andò alla cassa e lasciò delle monetine sul bancone chinando educatamente la testa.

«Grazie per l’ottimo consiglio, mi è stato di grande aiuto», disse uscendo dalla caffetteria.

Din-don

Nel locale erano rimasti solo Kyoko e Kazu.

«E Yukio come se la cava?» chiese Kazu prendendo le monetine e pigiando sui grossi tasti del registratore di cassa. Yukio era il fratello minore di Kyoko e al momento si era trasferito a Kyoto per diventare vasaio. Sorpresa dal fatto che Kazu affrontasse l’argomento, Kyoko la guardò con gli occhi sgranati, mentre Kazu conservò la sua espressione imperturbabile e le versò dell’acqua nel bicchiere vuoto.

“Kazu si accorge sempre di tutto.”

Kyoko sospirò, capendo di doverle una spiegazione.

«Yukio non sapeva che la mamma fosse ricoverata. Sai, lei non mi ha permesso di dirglielo...»

Kyoko prese il bicchiere, lo sollevò di qualche centimetro dal bancone, ma anziché portarselo alle labbra rimase lì a farlo dondolare.

«Perciò credo che sia molto arrabbiato, figurati che non è neanche venuto al funerale.»

Kyoko si era incantata a fissare il bordo dell’acqua che oscillava a destra e a sinistra.

«Mi sa che ha staccato il cellulare...»

In effetti, Kyoko non era più riuscita a mettersi in contatto con il fratello. Ogni volta che telefonava, un messaggio automatico le comunicava che il numero composto era inesistente o non più attivo. Aveva cercato di contattare il laboratorio di ceramica dove lavorava, ma le avevano detto che si era licenziato qualche giorno prima e che di lui non sapevano niente.

«Non ho idea di dove sia adesso...»

Nel corso dell’ultimo mese, Kyoko aveva pensato in continuazione al fatto che Yukio non fosse al corrente del ricovero della madre (se fosse stata tenuta all’oscuro lei, si sarebbe infuriata e chissà cos’avrebbe potuto dire o fare). Quel pensiero le aveva tolto il sonno per giorni.

Si diceva in giro che in quella caffetteria si potesse tornare nel passato. Ovviamente Kyoko aveva osservato con attenzione i clienti che si erano presentati dicendo di voler tornare indietro nel tempo, ma non aveva mai pensato che potesse capitare anche a lei di affrontare quel viaggio per sistemare le cose.

C’era comunque un ma. Kyoko voleva sistemare le cose, ma sapeva benissimo che non si poteva. Infatti, anche se fosse tornata nel passato c’era sempre la regola per cui qualunque cosa si faccia quando si è nel passato, non si può cambiare il presente.

Ipoteticamente, anche se fosse tornata al giorno del ricovero della madre e avesse scritto una lettera a Yukio, l’essenza stessa della regola avrebbe impedito che la lettera gli fosse recapitata. E anche se la lettera gli fosse stata recapitata, per qualche ragione Yukio non l’avrebbe mai letta. Di conseguenza, Yukio avrebbe saputo all’improvviso della morte di Kinuyo, senza neppure essere stato informato del suo ricovero, e per la rabbia non si sarebbe presentato al funerale. Perché era così che funzionava la regola. In altre parole, anche se Kyoko fosse tornata nel passato, non avrebbe potuto comunque cambiare la realtà presente. E non potendo farlo, che senso aveva tornare nel passato?

«Capisco alla perfezione perché la mamma non volesse dare preoccupazioni a Yukio...»

Ma era stato proprio questo pensiero a mettere Kyoko nella posizione scomoda che ora le causava tanto dolore.

«Però...»

Kyoko nascose il viso tra le mani e le sue spalle cominciarono a tremare. Kazu si dedicò al suo lavoro, ma in mancanza di clienti il tempo scorreva lentamente.

Vedo papà arrivare!

Prot prot, prot prot, insetto scorreggione.

Canta nella lunga notte autunnale.

Oh, che bello sentire la sinfonia degli insetti!

Le strambe varianti al testo di Miki provenivano dalla stanza sul retro. Ma questa volta tra le pareti della caffetteria non risuonò la risata di Kyoko.

*

Quella sera...

Kazu era sola nella caffetteria. Be’, a voler essere precisi c’era anche la donna in abito bianco. Kazu stava riordinando, mentre la donna in abito bianco leggeva come al solito il suo romanzo. Sembrava vicina alla fine del libro, e con la sinistra teneva abbassate solo poche pagine non ancora lette.

Kazu amava questi momenti, dopo l’orario di chiusura, e non perché si divertisse a pulire o a riordinare. Era solo che le piaceva sbrigare le faccende in silenzio, senza pensare a nient’altro. Era la stessa gioia che provava quando dipingeva i suoi quadri.

A Kazu piaceva disegnare a matita la sagoma di quello che vedeva in modo che somigliasse il più possibile a una foto. Amava la tecnica nota come iperrealistica. Però non disegnava quello che capitava: se era un oggetto visibile nel mondo reale, allora andava bene. Ma non disegnava mai nulla tratto dalla propria immaginazione o che fosse di pura fantasia. In più, i suoi dipinti escludevano tassativamente i sentimenti individuali. Le piaceva semplicemente il processo di riprodurre su tela quello che vedeva, senza pensare ad altro.

Flap!

Il suono dell’ultima pagina che si chiudeva echeggiò nel locale silenzioso.

La donna spostò il romanzo su un angolo del tavolino e prese la tazza di caffè. Un attimo dopo, Kazu scelse un altro romanzo da sotto il bancone e le si avvicinò.

«Mi sa che questo non è proprio il tuo genere...» l’avvertì prendendo il libro finito e sostituendolo con quello nuovo.

Eseguiva questa stessa azione di continuo, così spesso che ogni movimento faceva ormai parte di una specie di procedura. Ma, in quei momenti, al posto della sua espressione solitamente impassibile le si dipingeva in viso lo sguardo di chi porge un regalo selezionato con cura a una persona speciale con la speranza di portarle gioia. Quando la gente sceglie un regalo nella speranza di fare piacere al destinatario, immagina la reazione di quella persona speciale. E durante la ricerca il tempo vola.

La donna in abito bianco non era una lettrice particolarmente veloce. Anche se era l’unica cosa che faceva durante la giornata, finiva un libro mediamente in un paio di giorni. Kazu andava in biblioteca una volta alla settimana e prendeva in prestito una selezione di romanzi. Non erano propriamente regali, ma per Kazu rifornire di letture la donna in abito bianco non era un semplice dovere.

Fino a un paio di anni prima, la donna in abito bianco aveva letto e riletto in continuazione un romanzo intitolato Gli innamorati. Un giorno, Miki aveva commentato: «Ma non si annoia a leggere sempre lo stesso libro?». E le aveva offerto il suo libro illustrato. A quel punto Kazu si era detta: “E se le scegliessi dei romanzi da leggere?”. E da quel momento in poi la riforniva costantemente.

Ma come le altre volte, senza badare alla gentilezza di Kazu, la donna in abito bianco si limitò ad allungare una mano, prendere il libro in silenzio e dare uno sguardo alla prima pagina.

«...»

La speranza scivolò via dagli occhi di Kazu come sabbia che cade silenziosa dentro una clessidra.

Din-don

Suonò il campanello, ma era strano perché l’ora di chiusura era passata da un po’ e il cartello con scritto CHIUSO era appeso alla porta.

In ogni caso, Kazu non se ne fece un problema e tornò come se niente fosse dietro il bancone, lo sguardo rivolto alla porta d’ingresso. La persona che entrò era un uomo abbronzato sulla quarantina. Sopra una maglietta nera a V indossava una giacca marrone scuro, con i pantaloni in tinta e le scarpe nere. Si guardò attorno con aria spaesata e un’espressione mesta negli occhi.

«Salve, benvenuto», gli disse Kazu.

«Ehm, per caso siete chiusi?» chiese esitante l’uomo. In realtà non c’erano molti dubbi sul fatto che il caffè non fosse aperto.

«Non si preoccupi», ribatté Kazu, invitandolo a sedersi al bancone. L’uomo si accomodò su uno sgabello. Sembrava esausto e si muoveva come al rallentatore.

«Vuole bere qualcosa?»

«Ehm, no...»

Un cliente arrivato dopo l’orario di chiusura che non voleva ordinare niente avrebbe infastidito qualsiasi cameriera, invece Kazu accettò la risposta senza battere ciglio. «Okay», disse con un filo di voce, porgendogli un bicchiere d’acqua.

«Ecco...» L’uomo parve accorgersi che il suo comportamento non era del tutto normale e iniziò ad agitarsi. «Mi scusi. Ripensandoci, vorrei un caffè, grazie.»

«Certamente», rispose Kazu, distogliendo lo sguardo per educazione, prima di scomparire in cucina.

Sparita Kazu, l’uomo sospirò profondamente e si guardò attorno. Notò la luce bassa e seppiata delle lampade con il paralume, la pala da soffitto che ruotava lentamente, i grandi orologi da parete che indicavano tutti ore diverse, e la donna in abito bianco che leggeva un romanzo in un angolo della sala.

Kazu fece ritorno. «Uhm... Ma è vero che è un fantasma?» le chiese di getto l’uomo.

«Sì.»

L’uomo aveva fatto una domanda assurda, ma Kazu aveva risposto in modo pratico. Molti clienti sentivano la leggenda attorno al locale ed entravano spinti dalla curiosità. Kazu si era talmente abituata a queste conversazioni che ormai le sembravano semplici chiacchiere.

«Capisco...» rispose l’uomo con aria disinteressata. Di solito Kazu preferiva usare il sifone per fare il caffè. La caratteristica principale di questo metodo è che l’acqua del recipiente inferiore bolle rumorosamente e sale all’interno dell’ampolla, dove diventa caffè, e poi il caffè ricade nel recipiente. A Kazu piaceva guardare il sifone in azione.

Ma, chissà perché, quel giorno al posto del sifone prese dalla cucina il dripper. Portò anche il macinino, pensando di macinare i chicchi sul bancone.

Il metodo con il dripper era la specialità di Nagare. Si mette un filtro di carta in un dripper, si aggiunge il caffè macinato e si versa sopra l’acqua calda per estrarre il caffè poco alla volta. Di solito Kazu non usava mai il dripper perché lo giudicava troppo complicato.

Nessuno parlava, e Kazu iniziò a macinare i chicchi. Rivelando una personalità tutt’altro che estroversa, l’uomo si grattò la testa, evidentemente incapace di scovare un argomento di conversazione. Ben presto l’aroma del caffè iniziò a riempire l’aria.

«Mi scusi per l’attesa», disse Kazu, appoggiando di fronte all’uomo il caffè che bolliva appena.

«...»

L’uomo rimase immobile, fissando la tazza in silenzio. Kazu si mise a ripulire l’apparecchio con gesti rapidi.

Nella sala immersa nel silenzio, si sentiva solo la donna in abito bianco che girava le pagine del suo romanzo. Dopo un po’, l’uomo si decise a prendere la tazza. Fosse stato un amante del caffè, a questo punto avrebbe inalato in profondità l’aroma, invece ne bevve un sorso rumorosamente con espressione impassibile. Ma poi...

«Questo caffè», gemette con un filo di voce. Il gusto amaro del caffè parve stupirlo: cambiò faccia e la fronte gli si raggrinzì.

L’unico caffè che si serviva nel locale era di una varietà nota come Moca, dal tipico gusto amaro e acido che piaceva tanto a Nagare. Tuttavia, alla gente poco abituata al caffè, come quell’uomo, l’aroma forte dei chicchi Moca o Kilimanjaro fa spesso uno strano effetto.

I nomi dei chicchi di caffè di solito derivano dal luogo di produzione. Nel caso del Moca, i chicchi crescono in Yemen e in Etiopia, e prendono il nome dal porto yemenita della città di Mokha, dove tradizionalmente venivano imbarcati e immessi sul mercato. I chicchi del Kilimanjaro sono cresciuti in Tanzania. Nagare amava i chicchi dell’Etiopia, e in effetti anche tra i clienti c’era chi apprezzava il loro gusto così particolare, tra l’amaro e l’acido.

«È la qualità Moca Harrar, la preferita della maestra Kinuyo.»

L’uomo reagì di getto con un’occhiataccia ostile: «Cosa?!».

Ovviamente non era stato il nome del caffè a suscitare la sua sorpresa, ma il fatto che la cameriera, mai vista in vita sua, avesse nominato Kinuyo prima che lui le dicesse come si chiamava.

Si chiamava Yukio Mita, aspirante vasaio, figlio di Kinuyo e fratello minore di Kyoko. Anche se Kinuyo era una cliente abituale, Yukio non era mai entrato nella caffetteria. Kyoko, che viveva a una quindicina di minuti di macchina, aveva cominciato a frequentare il locale quando Kinuyo era stata ricoverata e passava ogni giorno a prenderle il caffè da asporto. Yukio rivolse a Kazu un’occhiata sospettosa, ma Kazu non se ne fece un problema. Ti stavo aspettando! sembrava volesse dire con il suo sorriso silenzioso.

«Quando hai capito...» attaccò Yukio, grattandosi la testa «...che sono suo figlio?» Non aveva deciso di proposito di nascondere la sua identità, ma ora sembrava infastidito. Kazu continuò imperterrita a pulire il macinino.

«L’ho solo indovinato: vi somigliate molto», spiegò.

Non sapendo come reagire, Yukio si toccò la faccia. Forse era la prima volta che glielo dicevano, e sembrava perplesso.

«Sarà una coincidenza, ma oggi ho visto Kyoko e abbiamo parlato di te. È stata un’intuizione...»

Sentendo la spiegazione di Kazu, Yukio rispose: «Capisco... Piacere di conoscerti, io sono Yukio Mita», disse chinando la testa.

Kazu ricambiò l’inchino.

«Kazu Tokita, piacere mio.»

Sentendo il suo nome, Yukio disse: «La mamma mi ha parlato di te nelle sue lettere. E anche delle voci che girano su questo caffè...» aggiunse in un sussurro, guardando la donna in abito bianco.

Yukio si schiarì la gola e si alzò in piedi.

«Vorrei tornare nel passato, per favore. Vorrei tornare a quando mia madre era ancora viva», annunciò con un lieve cenno del capo.

*

Yukio era stato un bambino molto responsabile e costante nelle sue attività. Se gli si affidava un compito, non gli sarebbe mai venuto in mente di abbandonarlo, anche se non c’era nessuno a sorvegliarlo. Ad esempio, quando toccava a lui fare le pulizie a scuola, non smetteva finché non aveva finito, anche se tutti gli altri attorno a lui si erano messi a giocare.

Era una persona calorosa e trattava tutti con gentilezza. Visto che stava sempre insieme ai ragazzini più tranquilli, non si era mai fatto notare, né alle elementari, né alle medie, né al liceo. Anzi, da piccolo era come una scialba carta da parati.

L’insignificante Yukio aveva vissuto il suo momento di trasformazione al liceo, durante una gita scolastica a Kyoto. Il suo compito era sperimentare l’artigianato tradizionale di Kyoto, e tra la ceramica, i ventagli, i sigilli e il bambù aveva scelto la prima. Anche se non si era mai avvicinato a un tornio, il suo vaso si era rivelato molto più bello di tutti gli altri. Il maestro gli aveva detto: «Non ho mai visto un vaso fatto così bene alla tua età. Hai del talento, ragazzo mio!». Erano le prime parole di elogio che Yukio avesse mai ricevuto.

La gita scolastica gli lasciò il vago desiderio di diventare vasaio, anche se non aveva idea di come fare per realizzare il suo sogno. Questa aspirazione rimase a lungo, anche molto tempo dopo la gita.

Poi un giorno, mentre guardava la televisione, vide un servizio sul maestro vasaio Yamagishi Katsura, che diceva: «Sono quarant’anni che creo vasi, e finalmente sono soddisfatto di quello che faccio». Guardando i pezzi che mostrava, Yukio rimase profondamente colpito. Non è che non fosse soddisfatto della sua vita quotidiana, ma era come se dal profondo del suo cuore sentisse una voce che gli diceva: Voglio trovare un lavoro che valga la pena di fare per tutta la vita. Yamagishi Katsura era uno che Yukio poteva ammirare e sperare di emulare.

C’erano due diverse strade che poteva scegliere per diventare un maestro vasaio. Una era iscriversi all’Accademia o a una scuola di ceramica, mentre l’altra era diventare apprendista in una bottega.

Anziché iscriversi a un corso, Yukio decise di diventare apprendista nella bottega di Yamagishi Katsura. Aveva apprezzato molto le parole che aveva pronunciato in televisione: «Per diventare il migliore, devi imparare dai migliori». Tuttavia, quando aveva comunicato al padre Seiichi il suo sogno di diventare vasaio, si era sentito rispondere: «Delle migliaia o decine di migliaia di persone con questa aspirazione, solo pochissimi riescono a portare il cibo in tavola facendo questo lavoro, e sinceramente in te non vedo tutto questo talento». Nonostante il parere contrario del padre, Yukio non aveva rinunciato. Ma sapeva che se fosse andato all’Accademia o a un corso di ceramica i suoi avrebbero dovuto pagare un mucchio di soldi per la sua istruzione.

Yukio non voleva gravare sulla famiglia per i suoi obiettivi egoistici, perciò decise di provare a diventare vasaio mentre viveva e lavorava in una bottega. Seiichi di nuovo non era d’accordo, ma alla fine era stata Kinuyo a persuaderlo, e subito dopo il diploma Yuki si era trasferito a Kyoto. E la bottega prescelta era stata ovviamente quella di Katsura.

Il giorno della partenza, Kinuyo e Kyoko lo accompagnarono alla stazione di Shinkansen. Porgendogli il suo libretto di risparmio, Kinuyo disse: «Non è molto, ma...». Yukio sapeva che Kinuyo aveva risparmiato quei soldi per anni, con il sogno, un giorno, di viaggiare oltreoceano con il marito.

«Non posso accettarlo», aveva risposto, ma Kinuyo non era disposta a ricevere un rifiuto. «Prendilo, non c’è problema.»

La campanella della stazione suonò, e Yukio non poté far altro che accettare il regalo con un cenno del capo mentre partiva per Kyoto. Rimaste sole sulla banchina, Kyoko disse alla mamma: «Dài, andiamo», ma Kinuyo rimase lì a seguire il treno con lo sguardo finché non scomparve.

*

«Qualsiasi cosa tu faccia nel passato, non puoi cambiare il presente, capito?»

Kazu si era messa a spiegare le solite regole. In particolare, era fondamentale sottolineare quella regola quando si andava a incontrare una persona che adesso non c’era più. Un lutto colpisce sempre all’improvviso. Trovarsi costretto ad accettare la perdita di Kinuyo era stato davvero un evento imprevisto per Yukio, dato che non gli avevano neanche detto che era stata ricoverata. Ma in qualche modo Yukio conosceva già quella regola, e le parole di Kazu lasciarono la sua espressione inalterata.

«Sì, lo so», rispose.

Le avevano trovato il tumore quella primavera. Siccome era già a uno stadio avanzato al momento della diagnosi, le avevano comunicato che le restavano solo sei mesi di vita. Il dottore aveva detto a Kyoko che se solo l’avessero trovato tre mesi prima, forse ci sarebbe stato ancora qualcosa da provare. Ma per via di quella regola, anche se Yukio fosse tornato nel passato per facilitare una diagnosi precoce, la morte di Kinuyo era comunque inevitabile.

Kazu pensò che fosse stata Kinuyo a parlargli delle regole, ma in ogni caso gli propose un breve ripasso.

Yukio ci pensò su e rispose: «Grazie, volentieri».

Kazu smise di pulire e cominciò.

«Prima regola: le uniche persone che si possono incontrare nel passato sono quelle entrate nella caffetteria.»

Yukio si limitò a rispondere: «Okay».

Se la persona che il cliente vuole incontrare è stata nella caffetteria solo una volta, oppure se si è trattenuta poco, le possibilità di incontrarla diminuiscono. Ma nel caso di una cliente abituale come Kinuyo, le probabilità erano molto elevate. Visto che Yukio voleva incontrare Kinuyo, Kazu non sentì il bisogno di soffermarsi su questa regola e proseguì con la successiva.

«La seconda regola te l’ho già detta prima. Qualunque cosa tu faccia nel passato, non c’è modo di cambiare il presente.»

Yukio non aveva domande da porre neppure su questa regola.

«Ho capito», rispose di getto.

«Il che ci porta alla terza regola: per tornare nel passato, devi sederti su quella sedia, che ora è occupata dalla signora...» spiegò Kazu fissando la donna in abito bianco. Yukio seguì il suo sguardo.

«L’unico momento in cui puoi occupare la sedia è quando lei va in bagno.»

«E quando ci andrà?»

«Non lo sa nessuno... Ma ci va sempre una volta al giorno...»

«Perciò non mi resta che aspettare, giusto?»

«Esatto.»

«Capisco», rispose imperturbabile Yukio.

Anche Kazu era una persona di poche parole, ma Yukio faceva davvero poche domande e pochissime osservazioni e la spiegazione procedeva molto in fretta. «La quarta regola è che quando si torna nel passato bisogna restare su quella sedia e non ci si può muovere di lì. Se ci si alza dalla sedia, si viene immediatamente rispediti nel presente.»

Se un cliente dimentica questa regola, dopo tutta la fatica fatta per affrontare il viaggio nel tempo si finisce di nuovo nel presente senza alcun risultato.

«Quinta regola: il tempo che si può trascorrere nel passato comincia quando il caffè viene versato nella tazza e dura finché il caffè è caldo.»

Kazu gli riempì di nuovo il bicchiere, svuotato durante la spiegazione. Yukio doveva avere una gran sete, perché continuava a bere.

Ma la sfilza di regole irritanti non finiva lì.

Il viaggio nel tempo si può affrontare una e una sola volta.

Si possono scattare foto nel passato o nel futuro e si possono dare e ricevere regali.

Se anche si usasse qualche trucco per mantenere il calore della tazza, il caffè si raffredderebbe comunque.

Anche se la leggenda metropolitana dice che in quella caffetteria si può tornare nel passato, in realtà è tecnicamente possibile anche viaggiare nel futuro. Però di solito nessuno vuole farlo, perché non c’è modo di sapere con certezza se la persona che si vuole incontrare si troverà nella caffetteria in quel momento. Dopotutto, il futuro è imprevedibile.

A meno che non si sia davvero disperati, non conviene affrontare il viaggio perché le possibilità di incontrare la persona che si desidera nella minuscola finestra temporale concessa sono davvero poche. Il viaggio perciò rischia di essere del tutto inutile.

In ogni caso, Kazu non spiegò queste ulteriori regole: la sua prassi era limitarsi alle cinque regole di base. Su richiesta specifica, era comunque disponibile a illustrare anche le altre.

Yukio bevve un altro sorso di acqua fresca. «Ho sentito da mia madre che se non si beve tutto il caffè finché è caldo, si diventa un fantasma. È vero?» chiese guardandola fisso negli occhi.

«Sì, è vero», rispose impassibile Kazu.

Yukio distolse lo sguardo e trasse un sospiro profondo. «Perciò, in altre parole, si muore... è questo che stai dicendo?» chiese, quasi volesse assicurarsi di aver capito bene. Era la prima volta che qualcuno chiedeva una precisazione simile.

Fino ad allora, Kazu era riuscita a rispondere a tutte le domande senza cambiare espressione, ma in quel momento vacillò. Comunque fu questione di un attimo e poi tornò quella di sempre.

«Sì, esatto.»

Yukio annuì, in qualche modo soddisfatto della risposta. «Va bene», replicò dando a intendere di aver afferrato il concetto.

Conclusa la spiegazione, Kazu guardò la donna in abito bianco.

«Adesso devi solo aspettare che si alzi da quella sedia. Pensi di aspettare?» gli chiese. Era la domanda finale di Kazu, che serviva a confermare se il cliente fosse davvero intenzionato ad affrontare il viaggio. Yukio non ebbe un attimo di esitazione.

«Sì», rispose, prendendo la tazza di caffè. A quel punto il caffè doveva essersi raffreddato e se lo scolò d’un sorso. Kazu prese la tazza e gli chiese se ne gradisse dell’altro.

«No, sono a posto così, grazie.» Il caffè per cui la mamma andava matta non era molto gradito alle sue papille gustative.

Quasi sulla soglia della cucina, Kazu gli chiese, senza girarsi: «Perché non sei andato al funerale?».

Dal punto di vista di un figlio che non è andato al funerale della madre, la domanda poteva facilmente essere interpretata come un’accusa. Era insolito per Kazu fare una domanda del genere.

Yukio si rattristò, come se anche lui si fosse sentito messo sotto accusa.

«Devo proprio rispondere?» chiese in tono laconico.

«No», ribatté fredda Kazu. «È solo che Kyoko se ne fa una colpa», spiegò prima di scomparire dentro la cucina.

*

In realtà, non era colpa di Kyoko se Yukio non aveva assistito al funerale. Quando era venuto a sapere della morte della madre, di sicuro aveva faticato ad accettare la notizia, ma la vera ragione era che non si poteva permettere il biglietto del viaggio da Kyoto a Tokyo. In quel momento infatti era sommerso dai debiti.

Tre anni prima, dopo aver lavorato sodo per diventare vasaio, Yukio aveva ricevuto un’offerta di finanziamento per aprire una bottega tutta sua. Possedere una bottega è il sogno di qualsiasi aspirante vasaio, e ovviamente anche Yukio sperava prima o poi di poterne aprire una a Kyoto. L’offerta proveniva da un grossista stabilitosi da poco a Kyoto, cliente abituale della bottega in cui lavorava Yukio.

Negli ultimi diciassette anni, da quando aveva lasciato Tokyo, Yukio aveva vissuto in un appartamentino di dieci metri quadrati senza bagno per risparmiare soldi e raggiungere il suo obiettivo.

La sua motivazione più forte era realizzare il suo sogno e dimostrare alla madre che era diventato un vero maestro vasaio. Ma, arrivato quasi alla soglia dei quarant’anni, cominciava a scalpitare. Accettando quell’offerta, Yukio chiese un prestito a una finanziaria, diede i soldi al grossista insieme a tutti i suoi risparmi e si apprestò ad aprire la sua bottega. Ma le cose non erano finite bene, perché il grossista era scappato con tutti i soldi che Yukio gli aveva affidato.

Era stato truffato, e il risultato fu devastante. Adesso non solo non aveva la bottega, ma era anche indebitato fino al collo. Era precipitato in un inferno finanziario da cui non riusciva più a riemergere.

Ogni giorno non faceva che pensare a come ripagare i suoi debiti, e non c’era più spazio per pensare ad altro, ad esempio al futuro. L’unica cosa che gli veniva in mente era: “Come faccio a trovare i soldi? Cosa posso fare domani per trovare i soldi? Sarebbe meglio che morissi?”.

Ci aveva pensato spesso, ultimamente. Ma, se fosse morto, il peso dei debiti sarebbe ricaduto sulle spalle di sua madre, e questa era una cosa che voleva evitare a tutti i costi. Tra lui e i pensieri disperati di suicidio si era frapposto solo quel rischio.

Ecco le condizioni precarie in cui si trovava Yukio il mese prima, quando era venuto a sapere della morte di Kinuyo e aveva sentito con chiarezza il suono schioccante di una corda tesa che gli si spezzava in testa.

*

Quando Kazu si fu allontanata, Yukio prese con calma il cellulare dalla tasca della giacca e sospirò infastidito.

«Niente segnale...» borbottò, guardando la donna in abito bianco. Un attimo dopo negli occhi gli brillava una luce diversa, quasi fosse rimasto folgorato da un’idea improvvisa. Si alzò e, decidendo con una rapida occhiata che la donna non sembrava in procinto di andare in bagno, corse verso l’uscita con il cellulare in mano.

Din-don

Suonò il campanello della porta, e poco dopo...

Flap!

Il libro della donna in bianco si chiuse di botto e il rumore echeggiò nel locale. Forse Yukio era appena uscito per telefonare a qualcuno, ma la coincidenza era davvero terribile. La donna in abito bianco si mise il romanzo sottobraccio, si alzò in silenzio e si avviò verso il bagno.

Nella caffetteria, quando si va verso l’uscita, c’è una grande porta di legno sulla sinistra che porta all’esterno. Invece sulla destra c’è il bagno. A passo lento, la donna in abito bianco oltrepassò l’arco d’uscita e girò a destra.

Click.

Un attimo dopo che la porta del bagno si fu chiusa, Kazu uscì dalla cucina e si ritrovò nella sala vuota.

Yukio non c’era più. Se al posto di Kazu ci fosse stato Nagare, si sarebbe messo a cercarlo disperatamente. Adesso era il momento, l’unica possibilità in tutto il giorno di tornare nel passato. Invece c’era Kazu.

Anziché impazzire per ritrovarlo, Kazu rimase immobile come se l’assenza del cliente non fosse un problema. Sparecchiò il tavolino della donna in abito bianco come se Yukio non fosse mai esistito. Non sembrava interessarle perché fosse uscito o se intendesse tornare. Ripulì il tavolo con uno strofinaccio e andò in cucina con la tazza sporca. Il campanello della porta suonò.

Din-don

Yukio rientrò nella caffetteria a mani vuote, il cellulare nella tasca della giacca. Si sedette allo stesso sgabello del bancone, le spalle rivolte alla sedia. Prese il bicchiere, bevve un sorso d’acqua e sospirò, ignaro del fatto che la donna in abito bianco si fosse alzata.

Kazu uscì dalla cucina portando un vassoio con una caffettiera d’argento e una tazza da caffè bianca. Notando Kazu, Yukio disse: «Ho appena telefonato a mia sorella», quasi a spiegare dove fosse stato. Il suo tono era meno sulla difensiva rispetto a poco prima, quando Kazu gli aveva chiesto perché non aveva assistito al funerale della madre.

«Ah, davvero?» rispose tranquilla Kazu.

Yukio la guardò ferma davanti a lui con il vassoio in mano ed ebbe un sussulto. Sembrava circondata da un alone di fiamme azzurro pallido, e nella sala pareva aleggiare una misteriosa atmosfera ultraterrena.

«La sedia è libera...» lo informò Kazu.

Finalmente Yukio si accorse che la donna in abito bianco si era alzata e sobbalzò. «Ah!»

Dirigendosi verso la sedia rimasta libera, Kazu gli chiese: «Ti vuoi accomodare?».

Yukio la fissò con sguardo vuoto per un istante, quasi sotto shock per non essersi ancora accorto dell’assenza della donna. Ma sentendosi addosso lo sguardo paziente di Kazu, con un certo sforzo rispose: «Sì, certo».

Si avvicinò, chiuse gli occhi in silenzio, prese un bel respiro e si strinse tra la sedia e il tavolino.

Kazu gli mise di fronte la tazza da caffè bianca.

«Adesso ti verso il caffè», disse con un filo di voce. Il suo tono calmo possedeva una cupa solennità.

«Il tempo che puoi trascorrere nel passato comincia dal momento in cui la tazza viene riempita e dura finché il caffè è caldo.»

Kazu gli aveva già spiegato questa regola. Dopo aver chiuso gli occhi, quasi stesse riflettendo, Yukio rispose: «Capito», più a sé stesso che a lei. La sua voce suonava all’improvviso diversa e il tono era calato in maniera sottile.

Kazu annuì, prese dal vassoio un attrezzo d’argento lungo dieci centimetri che somigliava a un bastoncino per mescolare il caffè e lo inserì nella tazza.

Yukio lo guardò incuriosito.

«E questo cos’è?» chiese, inclinando la testa.

«Ti prego di usarlo al posto del cucchiaino», si limitò a spiegare lei.

“Perché non mi dà un semplice cucchiaino?” si chiese lui. Ma sapeva che ascoltare l’intera spiegazione avrebbe portato via un mucchio di tempo prezioso.

«Capito», ribatté.

Finita la spiegazione, Kazu chiese: «Cominciamo?».

«Sì», rispose Yukio, poi vuotò il bicchiere d’acqua e inspirò profondamente.

«Cominciamo subito, per favore», aggiunse a bassa voce.

Kazu annuì e sollevò lentamente la caffettiera d’argento con la destra.

«Porgi i miei saluti alla maestra Kinuyo», disse, prima di aggiungere: «Ricorda, l’importante è bere il caffè finché è caldo...».

Muovendosi quasi al rallentatore, Kazu iniziò a versare il caffè nella tazza. Seppure disinvolti, i suoi gesti erano pieni di bellezza e fluivano armoniosi come quelli di una ballerina. L’intero locale parve saturarsi di tensione, quasi fosse in atto una solenne cerimonia.

Un filo sottile di caffè colò dal beccuccio della caffettiera d’argento, simile a una riga nera. Anziché gorgogliare come il caffè che esce dalla bocca di una caraffa, adesso il liquido fluiva silenzioso dalla caffettiera d’argento alla tazza da caffè bianchissima. Mentre Yukio osservava l’acceso contrasto tra il caffè nero e la tazza bianca, una voluta di vapore prese a sollevarsi. Proprio in quel momento, l’atmosfera attorno cominciò a incresparsi e a luccicare.

Colto dal panico, Yukio si strofinò gli occhi ma fu tutto inutile. Portando le mani al viso, notò che il loro aspetto non era cambiato, ma dalla consistenza sembravano fatte di vapore. E non si trattava solo delle mani, ma del corpo intero, delle gambe e di tutto il resto.

“Che succede?”

All’inizio rimase sconvolto da quell’effetto inaspettato, ma, riflettendo su cosa stava per accadere, niente sembrava più avere importanza. Chiuse lentamente gli occhi mentre ogni cosa attorno a lui scorreva dall’alto in basso.

*

Yukio ripensò a Kinuyo.

Da bambino aveva sfiorato la morte almeno tre volte, e ogni volta Kinuyo gli era stata accanto.

A due anni, un attacco di polmonite gli aveva provocato un febbrone a quaranta e tosse persistente. Oggi la polmonite non è più una malattia difficile da curare: grazie alle scoperte mediche, esistono antibiotici dall’azione rapida ed efficace. Si sa che le cause principali di polmonite nei bambini sono batteri, virus e micoplasmi, ognuno dei quali trattato con un metodo diverso.

Invece a quei tempi i dottori dicevano spesso: «Non posso fare altro. Adesso dipende da suo figlio». Nel caso di Yukio, non si sapeva che la polmonite fosse batterica, e vedendo che la febbre e la tosse non diminuivano, il medico aveva sentenziato: «Sperate per il meglio ma preparatevi al peggio».

La seconda volta, a sette anni, aveva rischiato seriamente di affogare. Stava giocando sulla riva di un fiume ed era stato miracolosamente rianimato dopo che il respiro e il battito si erano fermati. La persona che lo aveva trovato per caso lavorava per la locale caserma dei pompieri e delle ambulanze, e gli aveva prestato i primi soccorsi. Kinuyo era accanto a lui anche quella volta, ma era successo tutto in un attimo di distrazione.

La terza volta, a dieci anni, era stata colpa di un incidente stradale. Yukio stava facendo un giro sulla sua bici nuova, quando un’auto l’aveva travolto, ignorando il semaforo. L’impatto l’aveva fatto volare proprio sotto gli occhi di Kinuyo. Era stato catapultato a una decina di metri e l’ambulanza l’aveva portato via d’urgenza con traumi multipli in tutto il corpo. Aveva sfiorato la morte, ma per fortuna la testa era rimasta indenne e, per miracolo, aveva ripreso conoscenza.

I genitori non possono evitare che i propri figli si ammalino, si feriscano o siano vittima di incidenti. In tutte e tre le occasioni, Kinuyo lo aveva curato senza darsi pace finché non era guarito. Gli era sempre rimasta accanto, alzandosi solo per andare in bagno e stringendogli la mano tra le sue, quasi giunte in preghiera. Il marito e i genitori temevano che a Kinuyo venisse un esaurimento nervoso e la pregavano di riposarsi, ma lei non ne voleva sapere. L’amore per la prole ha profondità insondabili. I figli sono figli, non importa l’età. Per Kinuyo quel sentimento non era mai cambiato, anche quando Yukio aveva deciso di trasferirsi per diventare un famoso vasaio.

Ed era diventato apprendista in quella bottega rinomata, dove riceveva vitto e alloggio in cambio di ore di lavoro non retribuite. Trascorsa la giornata alla bottega, si guadagnava qualche soldo lavorando in un minimarket, in un pub izakaya e via dicendo. Fino ai trent’anni era riuscito a resistere a questo stile di vita ma, in seguito la fatica si fece sentire. Cominciò a ricevere una piccola paga dalla bottega, ma stanco di vivere in una stanza in condivisione, decise di affittare un appartamento, che subito gli rese la vita ancora più difficile.

Nonostante tutto, riusciva sempre a mettere da parte qualche soldo per realizzare un giorno il sogno di aprirsi una bottega tutta sua. Ogni tanto Kinuyo mandava una confezione di cibo istantaneo insieme a una lettera, e se non altro anche questo piccolo gesto lo aiutava a integrare la sua dieta.

Certe settimane aveva al massimo mille yen da spendere. Gli altri suoi coetanei ormai avevano tutti un lavoro fisso e facevano cose da adulti, come innamorarsi e comprarsi la macchina nuova. Invece Yukio se ne stava di fronte al forno a riempirsi di fumo e fuliggine, impastava l’argilla e sognava il giorno in cui sarebbe diventato un acclamato vasaio con la sua bottega personale.

Aveva pensato spesso di rinunciare, pieno di dubbi anche sul suo talento. Aveva una trentina d’anni e non sapeva come continuare a tirare avanti sbrigando lavoretti occasionali. Se voleva trovare un impiego decente, doveva abbandonare al più presto il suo sogno. In un mondo del lavoro così complesso, nessuna azienda l’avrebbe mai assunto dopo i quaranta. Anche adesso avrebbe fatto una gran fatica. Quanto ancora poteva andare avanti così?

Quanto avrebbe impiegato a diventare un vasaio famoso con la sua bottega? L’incertezza del futuro lo metteva in grande ansia. La sua era una vita senza garanzie. Non potendosi neanche permettere di pensare al matrimonio, la sua esistenza era una battaglia perenne con l’argilla.

Eppure rimaneva ancora aggrappato alla sottile speranza di riuscire a realizzare i suoi sogni e di rendere sua madre orgogliosa. Gli bastava sapere che al mondo c’era qualcuno da rendere felice con i suoi successi. Anche se la gente lo trattava con scherno, sapeva che la madre credeva in lui.

Ma... neppure nel peggiore dei suoi incubi avrebbe pensato di poter essere derubato di tutti i suoi soldi e di finire sommerso dai debiti.

La notizia della morte di Kinuyo lo raggiunse nel momento di massimo sconforto, proprio quando era più bisognoso di sostegno. E così finì nel pozzo della disperazione. Perché tutta questa crudeltà? Perché era bersagliato dalla sfortuna?

A cosa erano serviti tutti i suoi sforzi, per cosa era vissuto fino ad allora? L’uccellino azzurro di Maurice Maeterlinck raccontava una storia simile. I protagonisti del libro, i due fratellini Tyltyl e Myltyl, incontrano un bambino nel Regno del Futuro che non ha niente da portare in questo mondo, salvo tre malattie. Il bambino è destinato ad ammalarsi di scarlattina, pertosse e morbillo alla nascita, e morire subito dopo. Yukio ricordò la tristezza che aveva provato leggendo quel libro da piccolo. Se era un destino ineluttabile, la vita era davvero ingiusta! Se la gente non aveva il potere di cambiare il proprio destino avverso, allora non riusciva a vedere una ragione per vivere.

Nel riprendere conoscenza, Yukio si ritrovò gli occhi gonfi di lacrime. Si rese conto di aver pianto quando si asciugò le guance con il dorso delle mani. Le sue mani prima fatte di vapore erano tornate nel mondo corporeo e ogni cosa attorno a lui, che prima scorreva dall’alto in basso, finalmente si era fermata.

*

Whirr, whirr-whirr...

Sentendo il rumore del macinino da caffè, guardò verso il bancone. La pala da soffitto, le lampade con il paralume, i grandi orologi da parete: non era cambiato niente. Ma la persona dietro il bancone era diversa. Yukio non aveva mai visto in vita sua quel gigante d’uomo con gli occhi sottili come fessure che stava macinando il caffè. Nella sala c’erano solo loro due. I dubbi lo assalirono all’istante.

“Sono davvero tornato nel passato?”

Non sapeva come fare per scoprirlo. Di sicuro la cameriera Kazu non c’era più. Il suo corpo era diventato di vapore e aveva visto ogni cosa scorrere dall’alto in basso. Ma questo non bastava a convincerlo di aver viaggiato davvero nel tempo.

L’uomo dietro il bancone macinava i chicchi come se niente fosse, per nulla turbato dall’aspetto di Yukio. Anche se era un perfetto estraneo ed era comparso all’improvviso su quella sedia, l’uomo sembrava giudicare la scena del tutto normale; anzi, non pareva neanche particolarmente interessato a fare conversazione, cosa che per Yukio in quel momento sarebbe stata l’ideale. Non aveva nessuna voglia di rispondere a chissà quante domande, ma voleva sapere se era tornato nel passato per davvero, come aveva desiderato; un passato in cui Kinuyo era ancora viva.

Kyoko aveva detto che Kinuyo era stata ricoverata sei mesi prima, in primavera, e Yukio doveva assolutamente chiedere in che mese fossero.

«Ehm...» azzardò, prima di essere interrotto...

Din-don

«Salve.»

Data la disposizione del locale, dopo il suono del campanello c’è un momento in cui non si sa ancora chi sia entrato. Ma Yukio riconobbe all’istante quella voce.

“Mamma.”

Senza distogliere lo sguardo dall’entrata, accanto alla cassa, pochi secondi dopo vide affacciarsi Kinuyo, sorretta da Yōsuke.

«Ah...»

Appena la vide, Yukio si girò dalla parte opposta per non farsi vedere e si morse il labbro.

“Sono arrivato poco prima del suo ricovero?”

L’ultima volta che aveva visto Kinuyo in carne e ossa era stato cinque anni prima. All’epoca Kinuyo stava ancora bene, e di sicuro non avrebbe avuto bisogno di sorreggersi a qualcuno per camminare. Ma adesso Kinuyo sembrava come avvizzita, con gli occhi infossati e i capelli striati di bianco. La mano che Yōsuke stringeva aveva le vene rigonfie e le dita sembravano sottili bastoncini. La malattia aveva già compiuto la sua opera di devastazione.

“È così fragile! Non ne avevo idea...”

Rimase come immobilizzato.

Il primo a notarlo fu Yōsuke.

«Nonna...» Yōsuke sussurrò all’orecchio di Kinuyo, mentre lentamente la aiutava a girarsi verso Yukio. Il piccolo Yōsuke era diventato le mani e i piedi della nonna, e sapeva come sostenere la sua fragilità.

Quando vide che Yōsuke stava guardando Yukio, Kinuyo sgranò gli occhi.

«Oh santo cielo...» sussurrò appena.

In risposta alla sua voce, finalmente Yukio sollevò la testa.

«Ti trovo bene!» le disse, con un tono più allegro di quello che aveva usato con Kazu.

«Che succede? Come mai sei qui?»

Kinuyo sembrava molto sorpresa che Yukio da Kyoto fosse comparso all’improvviso nel locale. Ma gli occhi le scintillavano per la gioia.

«Qualcosina di nuovo c’è», rispose lui ricambiando il sorriso.

«Grazie», sussurrò Kinuyo nell’orecchio di Yōsuke, camminando da sola verso il tavolino di Yukio.

«Nagare, un caffè per favore. Lo berrò qui», chiese in tono gentile.

«Un caffè in arrivo», rispose Nagare. Ancora prima che Kinuyo glielo chiedesse, Nagare aveva già versato i chicchi appena macinati nel filtro del dripper. Non restava che versare l’acqua bollente, e il caffè era pronto.

Dato che Kinuyo passava dalla caffetteria sempre alla stessa ora, aveva macinato i chicchi in modo da farglieli trovare pronti al suo arrivo. Yōsuke si sistemò su uno sgabello del bancone di fronte a Nagare.

«E il giovane Yōsuke cosa desidera?»

«Succo d’arancia.»

«E succo d’arancia sia!»

Presa l’ordinazione di Yōsuke, Nagare cominciò a versare l’acqua bollente sul filtro del dripper tracciando una e.

La fragranza aromatica del caffè prese a diffondersi nel locale, e il sorriso estasiato di Kinuyo rivelò quanto adorasse quel momento. Si accomodò di fronte al figlio con un gran sospiro di soddisfazione.

Kinuyo era una cliente abituale ormai da decenni, perciò conosceva le regole a memoria e sapeva benissimo che il figlio era venuto dal futuro. Tuttavia, Yukio voleva evitare di rivelarle la ragione che lo aveva spinto ad affrontare quel viaggio.

“Sono venuto a trovare la mia defunta madre...”

Non doveva a nessun costo pronunciare quelle parole. Sentì il bisogno di dire qualcosa in fretta.

«Mi sa che sei un po’ dimagrita», disse di getto, pentendosene un attimo dopo.

Non sapeva se le avessero già trovato il tumore, ma non mancava molto al ricovero perciò era ovvio che fosse magra. E parlare della sua malattia era l’ultima cosa che voleva. Una pozza di sudore gli si stava formando dentro i pugni serrati.

Ma Kinuyo si portò le mani sulle guance tutta contenta e rispose: «Ah, davvero? Mi fa piacere!». Vedendo la sua reazione, Yukio pensò: “Forse non sa ancora di avere il cancro”.

Certe volte la gente lo scopre solo quando entra in ospedale. La reazione di Kinuyo era del tutto normale, se non sapeva ancora nulla della sua malattia.

“Che sollievo!”

Yukio si rilassò un pochino e cercò di mantenere un tono tranquillo e naturale.

«Davvero? Ti fa piacere che te lo dica?» sorrise disinvolto. Ma l’espressione di Kinuyo era sincera.

«Sì, certo», rispose. «Anche tu sei piuttosto magro», aggiunse poi.

«Oh, davvero?»

«Mangi bene?»

«Ma sì, certo. Negli ultimi tempi ho anche imparato a cucinare.»

Yukio non aveva praticamente più toccato cibo da quando aveva saputo della morte della madre.

«Sul serio?»

«Sì, stai tranquilla, mamma. Ho smesso di mangiare solo noodles istantanei.»

«E i vestiti, te li lavi?»

«Certo che me li lavo.»

Indossava gli stessi abiti da quasi un mese.

«Non importa quanto sei stanco, devi sempre fare lo sforzo di dormire su un futon.»

«Sì, lo so.»

Aveva già disdetto l’affitto del suo appartamento.

«Se sei a corto di soldi, non chiedere prestiti. Dimmelo subito, intesi? Io non ho tanti risparmi, ma qualcosa te lo posso sempre dare.»

«I soldi non sono un problema...»

Il giorno prima aveva finito di compilare i documenti per bancarotta personale, in modo da non gravare con i suoi debiti su Kinuyo e Kyoko.

Yukio voleva solo rivedere un’ultima volta il viso di Kinuyo.

Se fosse stato possibile tornare indietro nel tempo e cambiare il presente, di sicuro non avrebbe scelto quel finale. Avrebbe fatto il possibile perché la madre, seduta in quel momento di fronte a lui, ricevesse le cure migliori. Avrebbe spiegato la situazione a quell’omone che non conosceva dietro il bancone e l’avrebbe supplicato di fare qualcosa.

Invece la realtà era che nessuno dei suoi desideri si sarebbe realizzato. La sua stessa vita aveva perso significato. L’unica cosa che poteva fare era evitare che a Kinuyo si spezzasse il cuore. Solo quel sentimento lo faceva andare avanti, nonostante tutte le difficoltà. Aveva deciso di non morire finché la madre fosse stata viva.

Tuttavia, nel presente, Kinuyo non c’era più...

«Finalmente posso aprire la mia bottega e diventare un vasaio indipendente», le annunciò con aria serena.

«Davvero?»

«Sì, non dico bugie.»

«Che meraviglia!» esclamò Kinuyo, le guance rigate di lacrime.

«Ehi, non c’è da piangere», le disse, porgendole un fazzolettino.

«È solo che...» non riuscì a dire altro.

Mentre la guardava in faccia, Yukio estrasse qualcosa dalla tasca della giacca.

«Comunque, qui...» disse, mettendole di fronte il libretto di risparmio che gli aveva dato quando era partito per Kyoto.

«Avevo deciso di usarlo in caso di bisogno, ma per fortuna alla fine non è servito...»

Nonostante le difficoltà, non aveva mai avuto il coraggio di usarlo. Quei soldi racchiudevano tutti i sogni della madre, che aveva creduto in lui e l’aveva lasciato andare, certa del suo futuro successo. Yukio pensava di restituirglielo dopo essere diventato un vasaio famoso.

«Ma quei soldi...»

«Va bene così, mi è bastato sapere di averli per riuscire a superare i momenti più difficili. Mi hanno dato la forza di andare avanti e finalmente adesso te li posso restituire, mamma.»

Almeno quella non era una bugia.

«Riprendili, ti prego.»

«Oh, Yukio...»

«Grazie.» Yukio chinò la testa.

Kinuyo prese il libretto di risparmio e se lo portò al petto.

“Bene, questo era l’ultimo peso che mi sono tolto di dosso. Adesso non mi resta che aspettare che il caffè si raffreddi.”

Yukio non aveva mai avuto intenzione di tornare nel presente.

Da quando aveva saputo della morte della madre, non aveva fatto che pensare a questo momento. Non poteva togliersi la vita e basta. Se avesse lasciato debiti, avrebbe fatto del male alla sua famiglia.

Nell’ultimo mese aveva disposto ogni cosa in modo da andare in bancarotta personale. Anche se non aveva neppure i soldi per poter assistere al funerale, aveva lavorato instancabilmente ogni giorno per assumere un avvocato e permettersi il viaggio fino a Tokyo. Aveva calcolato tutto.

Come se tutte le corde tese che lo tenevano stretto si fossero sciolte all’improvviso, si sentì improvvisamente privo di forza. Forse la colpa era anche del fatto che nell’ultimo mese non era mai riuscito a dormire bene. La sua stanchezza aveva raggiunto il limite. Adesso sarebbe finito tutto.

“Finalmente.”

Provò soddisfazione...

“Adesso è tutto molto più semplice.”

...e un senso di liberazione.

Quando all’improvviso...

Bip bip bip bip bip bip...

Dalla tazza di Yukio proveniva un debole suono di allarme. Yukio non sapeva a cosa servisse, ma sentendolo ripensò alle parole di Kazu e prese il bastoncino dalla tazza.

«Questo mi ricorda che la cameriera, qui, mi ha detto di porgerti i suoi saluti...»

«Intendi Kazu?»

«Ehm, sì.»

«Oh...»

Kinuyo si rabbuiò un istante, poi chiuse gli occhi, fece un respiro profondo e tornò a guardare Yukio con un sorriso.

«Ehm, Kinuyo...» chiamò Nagare da dietro il bancone. Kinuyo si girò a guardare Nagare, e con un gran sorriso gli disse semplicemente: «Lo so».

“...?”

Assistendo perplesso al loro scambio di battute, Yukio prese la tazza e bevve un sorso di caffè.

«Che buono», mentì. L’aroma amaro e acido non gli piaceva per niente.

Kinuyo lo guardò con gli occhi dolci.

«È una cara ragazza, vero?»

«Chi?»

«Kazu, chi altri?»

«Kazu? Ah, sì, certo.»

Yukio mentì di nuovo. Non aveva spazio nella sua mente per la personalità di Kazu.

«Sa davvero leggere nei sentimenti della gente. Si preoccupa sempre per la persona seduta su quella sedia.»

Yukio non capiva cosa intendesse, ma visto che aveva deciso di rimanere seduto lì finché il caffè non si fosse raffreddato, tutto sommato non era un problema suo.

«C’era una donna in abito bianco seduta su quella sedia, vero?»

«Una donna? Oh, sì, è vero.»

«Era andata nel passato per rivedere il marito morto, ma non è più tornata...»

«Sul serio?»

«Non si sa cosa sia successo, ma nessuno pensava che non sarebbe tornata.»

Yukio notò Nagare dietro il bancone con la testa china.

“...?”

«Era stata Kazu a versarle il caffè. Aveva appena compiuto sette anni.»

«Davvero?» borbottò Yukio senza troppo interesse. Non capiva perché la madre ci tenesse tanto a raccontargli quella storia.

Kinuyo si rattristò vedendo la sua reazione.

«Pensa un po’, fra tutte le persone che potevano capitare, proprio sua madre!» esclamò con un tono leggermente più severo.

«Eh?!»

«La donna che non è più tornata era la madre di Kazu!»

Yukio sbiancò, commosso da quelle parole.

Era stata una vera disgrazia per una bambina così piccola, che aveva ancora bisogno della mamma per andare avanti. Il pensiero lo riempiva di dolore, ma non gli fece cambiare idea.

“Che nesso c’è tra questa conversazione e il bastoncino con l’allarme?”

Si mise a riflettere scientificamente sulla questione.

Kinuyo prese il bastoncino dal piatto.

«Sai, da quella volta Kazu mette sempre questo allarme nella tazza di chi va nel passato a trovare una persona cara che è morta», spiegò agitandolo. «Suona poco prima che il caffè si raffreddi.»

«Oh.» Yukio impallidì.

“Ma questo significherebbe che...”

«Ecco perché Kazu mi ha mandato i suoi saluti.»

“Praticamente, stava dicendo alla mamma che sarebbe morta.”

«Cosa? E perché mai l’ha fatto? Che diritto ha di dirti una cosa simile? Come ti fa sentire?»

Yukio non capiva ancora perché Kazu si fosse comportata così.

“Non erano affari suoi!”

Sul suo viso si stava dipingendo un’espressione infuriata.

«Quello che Kazu ha fatto», rispose in tono dolce Kinuyo, con un sorriso felice che Yukio non le conosceva e che non tradiva la minima paura per la morte imminente che il messaggio di Kazu le aveva appena rivelato, «è stato assegnarmi un ultimo compito, un compito che solo io posso portare a termine.»

“Ah.”

Yukio ripensò a quando Kinuyo gli aveva parlato delle volte in cui lui aveva quasi rischiato di morire. Con le lacrime agli occhi, gli diceva sempre: «Non potevo fare niente per te». Che fosse malattia o incidente, non aveva più scordato il tormento di aspettare impotente l’esito degli eventi.

«È tempo che tu faccia ritorno nel futuro...» gli disse con un sorriso dolce.

«No, non voglio.»

«Fallo per me, ti prego. Io credo in te.»

«No», rispose Yukio scuotendo la testa vigorosamente.

Kinuyo si premette il libretto di risparmio contro la fronte.

«Mi tengo questo. È pieno dei tuoi desideri. Me lo porterò nella tomba senza usarlo», disse chinando il capo.

Din-don

«Mamma...»

Kinuyo sollevò la testa e guardò Yukio con un sorriso pieno di affetto.

«Il dolore più grande per un genitore è non poter salvare il proprio figlio che vuole morire.»

«Mi dispiace...» sussurrò Yukio con le labbra tremanti.

«Va tutto bene.»

«Perdonami.»

«Bene, e adesso...» disse lei, avvicinandogli la tazza. Puoi ringraziare Kazu da parte mia?»

«...»

Yukio stava per rispondere di sì, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. Deglutì a fatica e prese la tazza con mani tremanti. Poi sollevò la testa e con lo sguardo offuscato vide Kinuyo che lo fissava con un sorriso raggiante, le guance rigate di lacrime.

«Il mio dolce piccolino...»

La sua voce era troppo debole per risultare percepibile, ma questo fu ciò che le sue labbra sussurrarono. Quasi parlasse a un neonato.

Per un genitore, un figlio resta un figlio per sempre. Senza mai aspettarsi niente in cambio, era solo una madre che desiderava la felicità per suo figlio e lo inondava d’amore.

Yukio si era detto: “Se muoio, almeno finirà tutto”. Aveva pensato che non avrebbe fatto soffrire Kinuyo perché tanto lei era già morta. Ma si era sbagliato. Anche dopo la sua morte, lei restava sempre sua madre. I sentimenti non cambiavano.

“Avrei rattristato mia madre anche da morta.”

Yukio bevve d’un sorso tutto il caffè e lo strano gusto amaro e acido del Moca gli invase la bocca. Il senso di vertigine ricominciò e il suo corpo prese a trasformarsi in vapore.

«Mamma!» urlò, ma non sapeva se la sua voce potesse raggiungerla. A ogni modo, la voce di Kinuyo gli arrivò alle orecchie forte e chiara.

«Grazie per essermi venuto a trovare...»

Ogni cosa attorno a Yukio cominciò a scorrere dall’alto in basso. Il tempo prese a muoversi dal passato al futuro.

“Se l’allarme non avesse suonato al momento giusto... e io avessi aspettato finché il caffè si fosse raffreddato, avrei reso la mamma infelice proprio all’ultimo...”

Il suo sogno era diventare un vasaio con la sua bottega personale. Aveva sopportato lunghi anni senza riconoscimenti, prigioniero della sua ambizione. Poi era stato truffato ed era sprofondato nella disperazione, chiedendosi perché la sua vita fosse così infelice. Ma era stato sul punto di dare a sua madre una sofferenza ancora maggiore di quella che aveva sperimentato lui...

“Va bene, vivrò... Non importa come vanno le cose... Vivrò per mia madre, che non ha mai smesso di desiderare la mia felicità, anche all’ultimo...”

Piano piano, mentre viaggiava nel tempo, Yukio perse gradualmente conoscenza.

*

Quando rinvenne, nel locale c’era solo Kazu. Yukio era tornato nel presente. Pochi secondi dopo, la donna in abito bianco tornò dal bagno, gli si avvicinò senza far rumore e lo guardò sdegnata.

«Spostati!» sibilò.

«...»

Ancora scosso dai singulti, Yukio lasciò lentamente il posto alla donna in bianco. Lei si accomodò senza aprire bocca, spostò la tazza usata da Yukio e si rimise a leggere il suo romanzo come se niente fosse.

“L’intero locale sembra raggiante.”

Yukio era stordito da questa sensazione misteriosa. La luce non era aumentata, eppure ogni cosa su cui posava gli occhi adesso aveva un aspetto più fresco e luminoso. La sua vita di disperazione era diventata una vita di speranza. Il suo modo di pensare si era radicalmente trasformato.

“Non è il mondo a essere cambiato, sono io...”

Gli occhi fissi sulla donna in abito bianco, prese a riflettere su ciò che aveva appena vissuto. Kazu sparecchiò la tazza di Yukio e porse alla donna una tazza di caffè appena fatto.

«Kazu...» La chiamò prima che rientrasse in cucina. «La mamma mi ha detto di ringraziarti.»

«Davvero?»

«Sì, e devo ringraziarti anch’io...» aggiunse con un profondo inchino.

Kazu scomparve in cucina e si mise a lavare la sua tazza. A quel punto, lui prese lentamente un fazzoletto, si asciugò le guance rigate di lacrime e si soffiò il naso.

«Quant’è?» urlò a Kazu. Lei sbucò fuori all’istante e lesse ad alta voce il conto.

«Caffè con supplemento notturno, fanno quattrocentoventi yen, prego», rispose, pigiando i grossi tasti del registratore di cassa con la sua solita aria impassibile. La donna in abito bianco continuò a leggere il suo romanzo come se niente fosse.

«Perfetto, ecco a te», disse porgendole una banconota da mille yen. «Perché non mi avevi detto dell’allarme?» le chiese.

Kazu prese i soldi e di nuovo ricominciò a pigiare i grossi tasti del registratore di cassa.

«Oh, mi dispiace, devo essermi scordata di spiegartelo», rispose in tono freddo, chinando appena il capo. Yukio sorrise, finalmente felice.

Cri cri cri cri cri cri...

Da chissà dove proveniva il verso di un grillo.

Quasi incitato dal cri-cri, «Kazu...» le disse Yukio prendendo il resto, «la mamma spera che anche tu trovi la felicità.» E subito dopo lasciò il locale.

Non erano le parole che aveva sentito da Kinuyo ma, data la situazione di Kazu, Yukio non faceva fatica a immaginare che le avrebbe pronunciate.

Din-don

Il campanello della porta risuonava ancora, e Kazu era rimasta di nuovo sola con la donna in abito bianco. Prese uno straccio e cominciò a lucidare il bancone, canticchiando.

Canta nella lunga notte autunnale.

Oh, che bello sentire la sinfonia degli insetti!

Quasi in risposta, il grillo fece cri-cri.

La tranquilla notte d’autunno trascorse lenta...